Il momento che stiamo vivendo, nel marzo 2020, è di estrema complessità e serietà. Anche se il dibattito pubblico è – giustamente – concentrato sul duplice e fondamentale aspetto dell’attuale emergenza, quello sanitario ed economico, non è assurdo prevedere che sul lungo termine emerga nella discussione anche un’ulteriore dinamica: quanto l’Arte sarà influenzata da quest’esperienza, che ha deformato l’interazione umana e gli spazi comuni in cui quell’interazione ha sempre avuto luogo.
D’altra parte, ogni creativo è figlio del proprio tempo e della comunità che l’ha educato; perciò, superato lo stallo dell’epidemia, sarà stimolante e costruttivo analizzare quanto la stessa abbia potuto influenzare le opere successive e, soprattutto, quale sarà la lezione appresa dalla società civile in termini non unicamente pratici o legati alle esigenze produttive in senso stretto. Prima di allora e prima di questa risposta, è istintivo invece trovare raccomandazioni, pareri e incentivi da ciò che è stato già realizzato, in ogni possibile e immaginabile campo artistico.
Muovendoci sul terreno videoludico, è piacevole pensare – ai fini metodologici – che nell’ultimo decennio sia stato possibile costruire una bilancia immaginaria con due estremi di peso, nel modo di descrivere una società che si appresta all’Apocalisse e, in qualche modo, la supera: i due massimi, insomma, sarebbero The Last of Us(Naughty Dog, 2013) e Death Stranding (Kojima Production, 2019).
Pur dando per scontato che del primo sia stata fatta letteratura e critica da riempire migliaia di Hard Disk e che del secondo ne abbiamo parlato anche noi, prevedendone i temi prima dell’uscita del gioco stesso, ai fini dell’analisi è probabilmente opportuno delimitare e delineare, ancora una volta, il solco che separa i due dal punto di vista concettuale. Se è vero che The Last of Us si lega a un messaggio golding-iano, in cui la natura umana è descritta come egoista, egocentrica e violenta con l’infezione di Cordyceps che, nelle penne di Druckmann e Straley, assume i crismi del pretesto per dimostrare l’efferatezza e la crudeltà dello stato di natura, è altrettanto pacifico che, nelle desolazioni del mondo dipinto da Hideo Kojima, emerga il desiderio e la voglia dell’intera specie umana di riconnettersi e affrontare le insidie del futuro come animali sociali e non bestie solitarie, volendo ridurre l’intero impianto a una disamina banalmente aristotelica.
Probabilmente, partendo da questi due antipodi, è possibile ricostruire una mappa genetica del modo in cui è stata dipinta la fine nel medium – ma forse si potrebbe andare anche oltre il semplice ambito videoludico – in cui da un lato vediamo la società civile sciogliersi come neve al sole rivelando la sua essenza più oscura, e dall’altro una spinta verso il solidarismo. A titolo di esempio, si potrebbe dire che, inquadrando Fallout nello spettro di frequenza, questo si riveli molto più vicino a The Last Of Us che a Death Stranding poiché, pur esistendo dei nuclei corporativi o comunque riconducibili a degli elementi comunitari, la struttura del gioco mostra il nostro personaggio affrontare cannibali, predatori e psicopatici che si muovono a piede libero nelle gigantesche terre di nessuno, dove chi ha il fucile più caldo semplicemente vince; insomma, questa ipotesi potrebbe essere applicata su un numero molto elevato di titoli, ottenendo posizioni diverse.
E qui arriviamo, finalmente, a Everybody’s Gone To The Rapture.
In realtà, prima di affrontare il cuore del discorso, c’è da fare una piccola e ultima premessa analitica: l’opera sviluppata da The Chinese Room in partnership con Santa Monica è, appunto, un videogioco.
Si è discusso a lungo sull’appartenenza di titoli come Dear Esther o Journey alla forma d’arte videoludica, coniando addirittura per questa categoria di titoli il termine, al limite del dispregiativo, di “walking simulator“: un’esperienza simulativa di passeggiata, probabilmente molto noiosa e caratterizzata da una scarsa interazione (addirittura nulla, secondo alcuni) e totalmente incentrata sul racconto per immagini e pertanto vicina – se non appartenente – al cinema.
Risulta subito chiaro ai lettori che, se Everybody’s Gone To The Rapture non è un videogioco, allora ogni parola del pezzo risulterà nient’altro che un gigantesco spreco di kilobyte; il punto è che non c’è, e non può esserci dubbio alcuno, che non lo sia. Se è possibile ricondurre ogni performance artistica allo schema del dialogo tra l’Autore – che desidera comunicare qualcosa, non in termini necessariamente dialogici – e il fruitore della performance stessa, è possibile creare dei “tipi” ideali di performance, a seconda del mezzo utilizzato dall’Autore; il mezzo del videogioco è il gameplay, le cui possibilità interattive possono ovviamente variare a seconda del fine che l’Autore si è prefissato. Ciò che importa nell’operazione di integrazione in una forma d’arte non è la “quantità” del mezzo, ma la semplice presenza di quest’ultimo. Siccome Everybody’s Gone To The Rapture possiede un gameplay, per quanto striminzito e minimalista, è indubitabilmente e indiscutibilmente un videogioco. Un videogioco che, come detto, adotta una forma perfettamente congrua al proprio scopo narrativo, generando quella traslazione della personalità di chi c’è dietro lo schermo al proprio “avatar” in game.
Dicevamo della posizione mediana di Everybody’s Gone To The Rapture nello spettro The Last of Us – Death Stranding.
La prima grande annotazione da compiere è sul piano strettamente temporale. Mentre molti titoli che riguardano la fine del mondo si concentrano totalmente sul “prima” e sul “dopo” l’evento terminale, quello di The Chinese Room ci trasferisce direttamente all’atto conclusivo dell’umanità, in quello spazio di tempo indefinibile che è simultaneamente sia anteriore che posteriore e, pertanto, individua proprio il momento stesso.
Everybody’s Gone To The Rapture non è un titolo apocalittico: è l’Apocalisse.
La grande bravura e delicatezza degli sviluppatori e degli sceneggiatori è dimostrata dal fatto che le due “anime” del videogioco apocalittico vengano costantemente in superficie e a contatto tra loro, muovendosi in un punto di equilibrio che è difficile da concepire e ancora di più da maneggiare: se da un lato scopriamo le storie dei nostri personaggi, le loro debolezze e anche la loro innata violenza (adulterio e omicidio, su tutti), dall’altro riusciamo a cogliere dei momenti di assoluta spiritualità, di “grande bellezza” Sorrentiniana.
Ed è d’altronde al cinema di Sorrentino che Everybody’s Gone To The Rapture sembra spiritualmente legarsi, a quella concezione di grandeur umana costituita dalla posizione mediana tra ascensione al divino e discesa negli inferi tanto cara a Blaise Pascal, concezione che rende la nostra specie capace di provare emozioni nobili quanto degradanti, di amare e disprezzare l’altro fino a volersi unire in un tutt’uno nell’atto sessuale o negarsi a vicenda l’esistenza stessa con l’uccisione, premeditata o d’impeto che sia.
Ed è proprio al tutt’uno che Everybody’s Gone To The Rapture fa, infine, riferimento: un piano dell’esistenza in cui l’intera specie potrà coesistere, abbandonando finalmente le pulsioni dell’essere solamente umani e ascendendo a una comprensione totale e reciproca – e se vi ricorda qualcosa, anche questa volta non state sbagliando. Insomma, alla fine sembra quasi compiersi un’interpretazione evolutiva e di rilettura filosofica del concetto cristiano di Spirito Santo – d’altronde, non è che i richiami religiosi siano pochi – che procede dalla divinità per rendere gli uomini divini e costituisce la componente ascetica dell’intera esperienza di vita terrena, finalmente pronta a lasciarsi dietro la corporeità per potersi accettare.
Everybody’s Gone To The Rapture è ciò di cui abbiamo bisogno adesso. Con l’imponente colonna sonora di Jessica Curry, sembra ricordarci ancora una volta che ciò che ci caratterizza non è soltanto la bassezza delle nostre azioni o l’apice dei nostri sentimenti, che pure esistono; ma è, semplicemente, l’Altro.
A cui siamo legati e a cui dovremo legarci, in un perenne gioco di specchi che si chiama Umanità.
AAS
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