Abbattendo la quarta parete
Quante volte vi è capitato di guardare un film, una serie tv, giocare ad un videogioco o leggere un fumetto e vedere d’un tratto succedere questo?
Questa è la rottura della quarta parete.
Il film, infatti, inizia con Allen che si rivolge direttamente al fruitore e racconta una barzelletta:
C’è una vecchia storiella: due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice – Ragazza mia, il mangiar qua dentro fa veramente pena-. -Si fa davvero schifo e poi che porzioni piccole! -. Essenzialmente, è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miserie, di sofferenze, di infelicità, e disgraziatamente dura troppo poco.
Dovevamo scappare tutti e due ma era stato grandioso rivedere Annie, mi resi conto di che donna fantastica era di quanto fosse divertente anche solo conoscerla. E io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete? “Uno va da uno psichiatra e dice: «Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina». Il dottore gli dice: «Perché non lo interna?». E quello risponde: «E a me poi le uova chi me le fa?». Immagino che corrisponda a quello che penso dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, pazzi e assurdi, ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova.
Un esempio più recente – e stavolta seriale – di rottura della quarta parete come strumento narrativo è rappresentato da Fleabag; creata e interpretata da Phoebe Waller-Bridge (autrice di Killing Eve), nasce come adattamento dall’omonimo monologo teatrale scritto proprio dalla Waller-Bridge nel 2013.
Fleabag parla in camera per metterci al corrente dei suoi stati d’animo, di cosa accada nella sua mente, di cosa pensa di chi le sta intorno e lo fa costantemente; solamente nella seconda stagione ci rendiamo però conto della valenza di questa dimensione extradiegetica. Durante un colloquio psicoterapeutico, quando le viene chiesto se abbia degli amici, Fleabag risponde di sì, ci guarda, ci fa l’occhiolino e aggiunge un “loro ci sono sempre” velato di tristezza. Fleabag è una donna sola, tormentata dal dolore per due lutti pesanti che, attraverso l’adozione di comportamenti che la allontanano dagli altri, prova a mostrarsi più forte di ciò che è. La rottura della quarta parete non è, in questo caso, un vezzo stilistico ma una componente narrativa imprescindibile.
Qualcosa cambia nel momento in cui si apre con una persona, un prete (e non immaginatevi un Don Matteo della situazione). Il rapporto che si instaura tra i due è talmente profondo e trasparente da far sì che quando lei parla a noi, lui lo capisca, percepisca che lei sia “da un’altra parte”. Questo la fa sentire vulnerabile: il Prete è ad un passo dal vedere, non solo noi, ma anche la vera Fleabag.
Nel finale della serie, tanto delicato quanto straziante, è anche il nostro “rapporto” con lei a concludersi. Lo sviluppo degli eventi la porta ad una nuova accettazione di sé: si gira per un’ultima volta verso di noi e, con gli occhi lucidi, ci saluta per poi incamminarsi nel buio della notte verso casa, pronta a lasciarci.
Sempre esplorando i gangli della serialità, Mr. Robot di Sam Esmail e il netflixiano House of Cards sono forse i prodotti che meglio descrivono l’applicazione della comunicazione diretta tra pubblico e personaggio nel periodo più recente. Nel primo, Elliot Anderson si rivolge direttamente allo spettatore appellandolo come amico, “friend”: lo saluta spesso all’inizio della puntata, lo coinvolge nelle sue attività dal sapore nemmeno tanto velatamente cyberpunk e nella complessa struttura narrativa, dove si intrecciano tematiche intimiste, riflessioni psicologiche sull’uomo sia inteso come individuo che nella società, sulla tecnologia e sul rapporto tra tutti questi elementi. In particolare, gli ultimi episodi sembrano quasi rivelare una distinzione tra loro – gli spettatori voyeuristi che osservano la serie e che si identificano come una gommosa moltitudine attratta dalle vicende – e tu con cui è razionalizzato il singolo fruitore del lavoro di Esmail. In questo caso, l’Elliot risvegliato dal coma e di cui vi era stata una temporanea sospensione della personalità per permettere l’avanzamento della trama, nel più profondo dei significati metatestuali, potrebbe non essere altro che ogni fruitore unico, la cui vita è stata messa in standby per realizzare ogni singolo passaggio guidato dall’Autore ma che non ha mai smesso di osservare l’andamento dei fatti semplicemente guardando la serie. Una presa di coscienza della profonda critica sociale e delle relazioni umane che ci definiscono da trasportare immediatamente nella nostra realtà, in un processo di rottura del simulacro rappresentato dal passaggio tra “hello, friend” ed “hello, Elliot” con cui si apre e si chiude l’intera esperienza televisiva.
Ciò detto, mentre in Mr. Robot lo spettatore assurge al ruolo di complice se non di protagonista, la rottura della parete in House of Cards è strutturalmente sadica*: si è, al contrario, continuamente testimoni delle efferatezze compiute dal (futuro, rispetto a inizio serie) Presidente Frank Underwood nella sua scalata al potere. In realtà, il personaggio interpretato da Kevin Spacey sembra quasi rivolgersi al di là dello schermo cosciente non solo dell’esistenza di qualcuno ma anche della sua assoluta impossibilità di poter attivamente influire sul suo mondo e sui suoi avvenimenti, rendendo quindi il pubblico silente osservatore delle nefandezze di cui si rende protagonista ma allo stesso tempo confessore di Underwood stesso, che ha pienamente compreso come lo spettatore sia incapace di nuocergli e affidandogli, quindi, il compito di farsi comprendere appieno e di portare il peso che è correlato a un’arrampicata sociale.
(* un po’ come guardare l’ultima stagione.)
La rottura della quarta parete è un fenomeno altrettanto utilizzato nei fumetti e nei videogiochi. Ovviamente, gli esempi scolastici in materia sono le opere di Hideo Kojima e il personaggio di Deadpool. Mentre di quest’ultimo – complici anche i due adattamenti cinematografici – sono grandemente conosciute le qualità ed è noto che sia consapevole di essere in un fumetto, i titoli di Kojima sono forse universalmente meno noti ma tra le caratteristiche più evidenti c’è proprio quella di rivolgersi al videgiocatore, sia direttamente che indirettamente. Indirettamente in Metal Gear Solid 2, dove l’archetipo di Raiden è creato in distacco a quello di Snake (anche se comunque non vanno dimenticate le deliranti chiamate codec del colonnello Campbell, il quale invitava a spegnere la console), rappresentando lo scarto tra ciò che il videogiocatore è e quello che invece vorrebbe essere; direttamente in Metal Gear Solid, con la famosissima e geniale boss fight di Psycho Mantis, con tanto di lettura della memory card e dei movimenti del controller. Il discorso viene poi chiuso grazie alla figura del Medico, vero e proprio Avatar del videogiocatore con tanto di pugno allo specchio in Metal Gear Solid V, in una manifestazione visiva della rottura della quarta parete durante un discorso direttamente rivolto al fruitore.