Kingdom Hearts si può ormai considerare una serie di videogiochi storica. Nata nel 2001 dalle volontà congiunte della fu Square Soft (ora Square Enix) e della Disney, come cross-over tra Final Fantasy e i personaggi Disney, la serie ha preso poi una direzione completamente diversa, approdando su praticamente ogni piattaforma da gioco esistente ed arrivando a vendere oltre 30 milioni di copie. Con i suoi dieci (a breve dodici) capitoli attuali e una serie tv in arrivo, Kingdom Hearts ha saputo entrare, è il caso di dirlo, nel cuore di una grossa fetta di pubblico, viaggiando tra amore e odio, successi e critica, luce ed oscurità.
L’inizio e il successo
La mente dietro tutto questo è principalmente una: Tetsuya Nomura, amato e odiato proprio come la sua più grande creatura. Dopo aver lavorato come designer per alcuni dei capitoli principali di Final Fantasy come il VII, VIII e X, concepisce il suo primo gioco come director: Kingdom Hearts, appunto. Inizialmente sviluppato come un prodotto che dovesse rientrare nei più classici canoni Disney, venne poi modificato dopo che il produttore esecutivo Hironobu Sakaguchi decise che il gioco dovesse essere più simile ad un Final Fantasy. La produzione cambiò quindi direzione, andando a creare qualcosa che non ci si aspettava da quello che doveva essere “solo” un bizzarro cross-over: il videogioco non si limitava a prendere due mondi e unirli, ma se ne impossessava per concepire qualcosa di totalmente nuovo. Il mondo di Kingdom Hearts è un universo completamente originale che ingloba e contestualizza i personaggi già conosciuti e amati, dando loro una nuova forma, storia e design. Design che per primo fa da filo conduttore in questo pot-pourri, creando una insospettabile armonia tra personaggi anime, anatre antropomorfe e mostri oscuri. Nomura aveva insistito molto per poter costruire qualcosa di inedito che amalgamasse il resto, così da impostare un contesto narrativo che fosse plasmabile in totale libertà.
E così è stato.
Questa strana alchimia avrebbe poi incantato milioni di ragazzini in tutto il mondo: quando Kingdom Hearts fece il suo debutto su Playstation 2, furono principalmente loro ad esserne interessati. Che lo fossero per i personaggi Disney o per quelli di Final Fantasy, era poco rilevante. Infatti è ovvio che una persona di giovane età – ritrovatasi in un mondo narrativo nuovo, ricco di personaggi amati gestiti in maniera coerente e con una trama, si adolescenziale, ma perfettamente costruita per emozionare quel target di età – fosse decisamente ben disposta verso il prodotto e l’immaginario stesso. Un immaginario potente che veniva supportato sia da una grafica notevole per l’epoca, che da un gameplay di rilievo: sfruttando simultaneamente un innovativo sistema di combattimenti action legato ad uno sviluppo del personaggio prettamente JRPG, e dei mondi liberamente esplorabili e ricchi di segreti da scoprire tratti dai classici Disney, Kingdom Hearts riusciva a lasciare il segno anche pad alla mano. Sia per temi che per giocabilità, riusciva ad essere quanto di più vicino ad un manga shonen in formato video ludico.
Il “caso” Chain of Memories
Quello che sarebbe avvenuto dopo sembrava prevedibile; come scopriremo presto, però, con Kingdom Hearts non si è mai certi di niente, sia dentro che fuori dal gioco. Mentre gli appena nati fan chiedevano a gran voce un seguito, Square Enix e Disney decisero di creare uno spin-off sull’allora console portatile di casa Nintendo, il GameBoy Advance, muovendosi di gran lena verso un evento che sarebbe divenuto cruciale per la serie.
Kingdom Hearts: Chain of Memories fece la sua comparsa nel mondo dei portatili nel 2004. Il gioco sfruttava una pixel art maestosa e un sistema di gameplay peculiare basato su delle carte; ma la malvagia mente di Nomura aveva architettato qualcosa di terribile. Chain of Memories infatti, era tutt’altro che un semplice spin-off.
Sebbene, tramite un escamotage narrativo il gioco facesse rigiocare i mondi Disney già visitati precedentemente, di fatto la storia riprendeva esattamente dopo il finale del primo capitolo. Nel corso del gioco venivano svelate nuove ambientazioni, nuovi personaggi e nuovi villain. Chain of Memories era un vero e proprio sequel, senza che quasi nessuno lo sapesse. Nomura aveva iniziato a forgiare la sua saga, la sua visione di Kingdom Hearts, ciò che l’avrebbe resa in un certo modo unica, seppure in modo criticabile (e criticato).
L’anno successivo, il 2005, Kingdom Hearts 2 vide la luce su Playstation 2. Già dalle prime ore di gioco, i fan che in fremente attesa lo aspettavano da quattro anni, notarono qualcosa di strano. La trama di Kingdom Hearts 2 non ripartiva dal primo capitolo, ma dal finale di Chain of Memories, il capitolo su portatile spesso poco considerato per la sua nomea di spin-off non necessario. Non solo: Kingdom Hearts 2 prendeva una piega ben diversa dal primo capitolo. Mentre il gameplay si faceva più action e i mondi più lineari, la trama cominciava ad ingarbugliarsi intorno a strani misteri e colpi di scena quantomeno peculiari. Lo stile si faceva più stravagante e caratteristico, ormai totalmente distintivo rispetto ai canoni Disney e quelli di Final Fantasy. Il successo, però, venne nuovamente ribadito da vendite e giudizi positivi.
Ogni capitolo è principale
Square Enix non si fece attendere e, dopo un veloce remake di Chain of Memories per PS2, altri “spin-off” vennero messi in produzione. Nel 2008 uscì Coded per cellulari; nel 2009 358/2 Days per Nintendo DS, nel 2010 Birth by Sleep per Playstation Portable; nel 2012 Dream Drop Distance per Nintendo 3DS. L’intento di Square Enix era quello di colonizzare ogni console possibile; al contrario, a risultare singolare era il lavoro narrativo che Nomura stava imbastendo, dato che ogni singolo gioco di Kingdom Hearts era principale per la trama. Ogni capitolo conteneva scene, dialoghi, avvenimenti, che non potevano essere compresi del tutto senza il quadro generale dato da tutta la serie. Kingdom Hearts era diventata una saga enormemente stratificata, che viaggiava su piattaforme multiple e che funzionava narrativamente come un puzzle, anche a costo di forzare avvenimenti, creare retcon – cioè aggiustamenti di trama a posteriori – o lasciare cose in sospeso per capitoli e capitoli, rompendo ogni regola di narrazione. Una trama complicata per il gusto di esserlo, così da spezzettarla in più capitoli possibili, adornata da quello stile ormai così peculiare e da un gameplay comunque vario e con vari livelli di consapevolezza. Nonostante le evidenti criticità di questa scelte, molti fan le abbracciarono e ancora oggi discussioni sugli incastri corretti di ogni avvenimento di ogni capitolo sono all’ordine del giorno. Senza mai perdere quel feeling adolescenziale che lo contraddistingueva, la serie spaziò anche a livello di game design. Ogni capitolo portatile sfruttava varie meccaniche, alcune riuscite altre meno, così che avessero direzioni diverse e particolari, ma senza staccarsi troppo dai canoni dell’action-JRPG. Questa è la saga di Kingdom Hearts come l’ha voluta Nomura. Di fatto una serie complicata da seguire, più che da capire. Amata e odiata per questa scelta, ma senza dubbio particolare.
La “pausa” e le critiche
Nonostante il non immediato sistema di fruizione, Kingdom Hearts vide la sua fama crescere in maniera esponenziale: sul finire del 2012 tutti aspettavano a breve un Kingdom Hearts 3, che invece non sarebbe arrivato prima del 2019. Il periodo di incertezza produttiva (e creativa) di Square Enix colpì infatti anche la serie di Nomura, il quale in questo periodo venne incaricato di dirigere anche il tanto atteso remake di Final Fantasy VII. La serie venne messa così in stand-by fino al 2015 – se non per alcune remastered e collection per Playstation 3 e Playstation 4 – anno in cui giunse sul mercato l’ennesimo “spin-off”, stavolta nella forma di un prequel per browser e mobile: Kingdom Hearts.
Quest’ultimo è stato probabilmente il capitolo più criticato di tutta la serie poiché, essendo un gioco in continuo aggiornamento, ha rappresentato un enorme scoglio per chi è interessato alla sola trama. Nel 2017 venne rilasciato il Birth By Sleep 0.2 – A Fragmentary Passage ed infine nel 2019 Kingdom Hearts 3, che conclude infine l’arco narrativo iniziato con il primo capitolo.
Facciamo però un passo indietro. All’inizio di questa epopea, parlavamo di ragazzini, che nel 2019 non erano più tali. E mentre magari i loro gusti maturavano e cambiavano, Kingdom Hearts rimaneva se stesso: quello shonen dalla trama ingarbugliata e a volte forzata, con uno stile tutto suo e con quella serialità così stravagante, difficile da seguire e fruire. Nel “terzo” capitolo le fasi action venivano semplificate rispetto a Kingdom Hearts 2, mentre i livelli ritornavano più ampi ed esplorabili; ma questo non andava a modificare il nucleo della serie né come giocabilità né come narrativa. Pertanto, molte delle lamentele che i fan hanno rivolto a questo capitolo sono praticamente le stesse che potrebbero riguardare la serie nella sua interezza, visto che l’oggetto delle critiche era incentrato su elementi ormai caratterizzanti la saga, che ne erano diventati al tempo stesso la più grande criticità e peculiarità.
Il futuro e la legacy
Kingdom Hearts 3 ha riscosso comunque un ottimo successo, riuscendo a essere venduto sia fan che lo attendevano da 14 anni che a molti nuovi utenti, incuriositi da questa saga che appariva così strana da osservatori esterni. E mentre due nuovi “spin-off” si apprestano ad arrivare, in attesa di un Kingdom Hearts “4” con l’inizio di un nuovo arco narrativo, alcuni vecchi fan se ne vanno come in ogni shonen, che si rispetti, ormai non più vogliosi di calarsi nei panni di Sora; nuovi amanti della saga, invece, arrivano in loro vece, pronti a collegare le parti di una trama frammentata ed entrare in questo mondo così affascinante e così pieno di difetti. Un mondo che sa farsi apprezzare e disprezzare in ogni suo aspetto, che ha saputo far sognare molti e che ha deluso tanti altri. D’altronde, Kingdom Hearts è così: una serie che, come dicevamo all’inizio, già ha collocazione nella storia dei videogiochi, nel bene o nel male.
Piena di Luce ed Oscurità insomma; ma sicuramente una serie in cui Tetsuya Nomura, nonostante tutto, ci ha messo se stesso.
O, se preferite, ci ha messo il Cuore.