Il 1999 è stato un anno pregno di eventi per gli Stati Uniti: l’impeachment del da poco rieletto Bill Clinton era un tema caldo, un paese intero restava in silenzio di fronte al massacro della Columbine School, si temeva il Millennium Bug e alla radio passava“Baby one more time“ di una giovanissima Britney Spears.
La visione di internet era molto diversa da quella che è oggi: ci si approcciava al mondo online come ad una realtà temibile e ricolma di “sconosciuti con i quali non parlare” (motto di ogni madre neanche troppo apprensiva per tutti gli anni 2000).
Si era, in sostanza, molto più ingenui. Non sorprende, dunque, l’eco mediatica che The Blair Witch Project – film horror scritto e diretto dagli esordienti Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez – ebbe negli Stati Uniti e, successivamente, anche da noi.
Ma andiamo con ordine.
La storia è molto semplice: tre giovani studenti di cinema, Heather, Mike e Josh, sentono parlare di una cittadina del Maryland, Burkittsville (anticamente, Blair), i cui boschi circostanti, si dice, siano infestati dallo spirito di una strega alla quale sarebbero collegate le sparizioni di alcuni bambini. I tre ragazzi decidono di recarsi sul posto e girare un documentario intervistando gli abitanti del paese e, successivamente, esplorare il posto. Scompaiono, e l’unica cosa che viene ritrovata di loro sono le telecamere; The Blair Witch Project, ci viene rivelato all’inizio del film, è ciò che venne ritrovato su quegli apparecchi, cioè i filmati risalenti al 1994, anno della scomparsa dei tre.
Nonostante la trama semplice, il budget che definire esiguo – se paragonato a quello delle produzioni odierne – sia un eufemismo, il fatto che non venga mostrato nulla di così spaventoso, preferendo una lenta costruzione di un clima di tensione, il film si è guadagnato una posizione di rilievo nella storia dell’horror e l’ha fatto per due motivi: sia perchè gli attori furono in grado di trasmettere una vera sensazione di inquietudine e smarrimento* che per il marketing transmediale della pellicola, capace di generare una sincera convinzione popolare riguardo la veridicità dei fatti mostrati, in una rilettura horrorifica del concetto di mockumentary.
Cosa vuol dire transmediale? Nonostante la transmedialità sia tutta intorno a noi – similmente alla banca Mediolanum – risulta un concetto più semplice da illustrare con esempi che a parole: Matrix è transmediale, Lost è transmediale, lo è Star Wars e l’intero franchise Lego.
Il termine trova la sua notorietà e definizione grazie a Henry Jenkins, accademico e studioso di comunicazione: è transmediale una storia veicolata su diversi media (YouTube, TV, pagine Web, film, fumetti) senza ripetizione di informazioni ma dove ogni frammento di storia ha il suo spazio individuale. In altre parole, è come se la storia venisse sparpagliata su vari canali e modi di fruizione.
Dunque, ad esempio, Matrix è costruito su uno storytelling transmediale perché costituito dalla trilogia di film, una serie di cortometraggi animati – Animatrix – e svariati videogiochi: Enter the Matrix, The Matrix Online, The Matrix: Path of Neo.
Tornando ai nostri tre escursionisti incauti e una strega, la campagna di marketing per l’uscita di The Blair Witch Project partì in sordina, lontano da occhi indiscreti: su forum online iniziò a circolare la voce che tre ragazzi – studenti di cinema – erano scomparsi in circostanze misteriose, in una cittadina del Maryland dove si trovavano per girare un documentario. Dopo alcuni giorni, infatti, se ne era persa traccia e nessuno li aveva più visti.
Si era creata, così facendo, una piccola nicchia di curiosi intorno alla vicenda dei ragazzi scomparsi e, poco dopo, spuntò addirittura un sito internet – realizzato dai registi e tuttora esistente e visitabile – nel quale è possibile leggere il diario di una di loro, Heather, insieme alle dichiarazioni della polizia sulla sparizione dei ragazzi e materiale vario. A questo punto i tre attori dovevano scomparire veramente e così la Artisan (casa che aveva comprato i diritti per la distribuzione del film), decise di nascondere Heather, Josh e Mike e di modificare le loro pagine IMDB perché questi risultassero morti.
Prima dell’uscita del film, su SciFi Channel vide la luce un documentario, Curse of the Blair Witch (un mockumentary collegato e non dichiarato) che trattava della scomparsa di Heather, Josh e Mike – con tanto di video di una giornalista che la annuncia – e che era composto da interviste al professore che aveva approvato il progetto dei ragazzi, ad alcuni abitanti di Burskitville e ai genitori dei giovani dispersi. Il documentario, oltre ad alimentare il world-building di The Blair Witch Project, ha avuto il ruolo di confermare la veridicità della storia agli occhi del pubblico. Nei campus degli Stati Uniti iniziarono a fioccare poster dei tre ragazzi scomparsi con la richiesta, a chiunque avesse qualche informazione, di chiamare lo sceriffo della contea di Frederick.
Infine, il 14 luglio 1999, in un ristretto numero di cinema, fu proiettato The Blair Witch Project; la storia di quei tre ragazzi scomparsi di cui si era letto in rete, dei quali erano stati attaccati manifesti fuori da un’aula e che erano quelli dell’altra sera sul canale SciFi.
Il 30 luglio molti altri cinema negli Usa inserirono la pellicola in programmazione e la stessa cosa fecero i cinema di mezzo mondo nei mesi successivi; in Italia sarà proiettato solo nel febbraio del 2000.
È un successo: a fronte di ogni dollaro speso per produrlo ne vengono incassati diecimilanovecentotrentuno.
Il caso di The Blair Witch Project è emblematico: la narrazione si è andata a combinare con il marketing creando un momento in cui le persone vennero più o meno consapevolmente ingannate, credendo che ciò che stavano vendendo fosse reale con l’ausilio di Internet.
Oggi si ha una concezione totalmente diversa del mondo online, è una parte imprescindibile delle nostre vite e abbiamo imparato a districarci fra bufale e fake news senza troppe difficoltà. Un progetto del genere, anche solo cinque anni fa, sarebbe stato etichettato come una triste manovra di marketing e dimenticato nel giro di una settimana.
È deprimente pensare che, con il vecchio millennio, si sia chiuso anche l’ultimo spiraglio di ingenuità che ci rendeva, forse più sciocchi – e propensi ad essere truffati via mail – ma sicuramente anche più inclini ad emozionarci, più felici.