Halo tra passato, presente e futuro
Una cantilena di cori malinconici, delle percussioni tribali e una sinfonia decisa di archi: già così, per molti è chiaro cosa sia Halo. Una epopea dalle atmosfere e dall’immaginario affascinanti, intessuti in una struttura di gioco fortemente identitaria. Avventurandosi all’interno della saga, questa sensazione non solo viene confermata, ma amplificata. Halo è una di quelle serie uniche, che sono riuscite a entrare nell’immaginario collettivo e a creare una legacy importante.
Partendo dalle solide basi che Goldeneye (1997), Half-Life (1998) e Medal of Honor (1999) avevano settato negli anni precedenti al primo capitolo della serie, Bungie, la software house sviluppatrice, costruiva un modello di FPS caratteristico, mettendo sul piatto una formula originale sotto diversi aspetti. Tutto ciò è alle origini del successo della saga e solo comprendendo questa struttura sarà poi chiaro come Halo è proseguito e dove andrà in futuro.
Battaglie in campo aperto.
Contrariamente a quanto avveniva nei titoli contemporanei, in Halo gli scontri non si presentavano come gruppi di nemici costruiti per uccidere il giocatore, bensì quali orde di nemici e alleati (alle volte anche nemici di nemici) che ingaggiavano scontri in un vasto spazio aperto. Questi campi di battaglia “sandbox” potevano essere approcciati secondo i desideri del giocatore: utilizzando veicoli, aiutando gli alleati, aggirando le linee nemiche o semplicemente cercando di passare inosservato mentre infuria la guerra. Il risultato era simile ad una enorme sezione di multiplayer arena, però in single player. Alternando sequenze di questo tipo a sezioni più puramente lineari, si costruiva un avanzamento vario e trascinante, anche se possibilmente difettoso nel caso in cui venisse a mancare una giusta coesione.
Per rendere più vibranti e interessanti le battaglie, oltre all’utilizzo della fisica, Bungie realizzò una Intelligenza Artificiale nemica decisamente elaborata. Oltre a tutta una serie di reazioni pensate per essere convincenti durante gli scontri, sia con il giocatore che contro l’IA stessa, i nemici rispettavano una gerarchia militare interna. Ogni gruppo ostile aveva un leader alla cui eliminazione seguivano scene di panico e reazioni inconsulte, capaci provocare la fuga dei sottoposti e la dispersione degli stessi; in effetti, meccaniche come queste sembrano ricordare quel lontano passato in cui Halo fu immaginato come strategico in tempo reale e non come FPS.
Plasma e proiettili.
Un altro punto di discontinuità è rappresentato dalle meccaniche di shooting. Ci sono da premettere due cose per capire cosa rendeva particolare questo aspetto di Halo, la prima delle quali riguarda le due “barre della salute”, quella del giocatore e di alcuni nemici. Più specificamente, quella effettiva sanciva il game over una volta esaurita, mentre lo scudo, che assorbiva un massimo di danni, era capace di ricaricarsi dopo un po’ di tempo senza essere colpiti. Solo se lo scudo si esauriva totalmente, i danni intaccavano la vita. La seconda premessa afferisce alle tipologie di armi: quelle a proiettili erano le migliori per ridurre la salute, mentre quelle al plasma erano superbe contro gli scudi.
Sfruttando simultaneamente i tipi di arma e la meccanica innovativa dello scudo di energia, Halo riusciva ad ottenere una alchimia propria. L’utilizzo alternato delle armi al plasma e a proiettili per prima togliere lo scudo all’avversario e poi per finirlo in fretta, la cosiddetta noob combo di Halo, diventava fondamentale per completare con perizia uno scontro, sia in single player che in multiplayer. Si da il caso, infatti, che le sezioni meno riuscite in Halo siano proprio quelle lineari con orde di nemici senza scudo: la piattezza di non avere una arena “sandbox” e di non dover nemmeno pensare adeguatamente all’arsenale con cui sparare, rendeva tutto enormemente tedioso e ripetitivo.
Epica Tamarra.
Come spesso accade, un’ambientazione nata per una singola opera, è capace di diventare qualcosa di più: un universo narrativo. L’immaginario che Halo metteva in scena era potente e già meritevole di per sé. L’Anello, i Covenant e la loro religione, gli Spartan, tutti concetti che si univano a creare un mondo intrigante, visivamente arricchito da un contrasto di elementi naturali e tecnologici. Amplificatrici sono le maestose musiche di Martin O’Donnell e Michael Salvatori, con i loro toni sacrali e tribali, stranianti ma identificativi.
Riprendendo a piene mani dal modello Half-Life, senza però disdegnare le più classiche cutscene, Halo imbastiva un narrazione trainata più dagli eventi che dai personaggi. Bungie utilizzava la formula dell’epica classica e cavalleresca, probabilmente prendendo spunto da Star Wars, incrociata con il concetto di azione che Aliens (1986), massima ispirazione della serie, aveva portato al grande pubblico. Al contrario di Star Wars però, Halo abbracciava più le origini dell’epica che la visione concepita da George Lucas.
Troviamo quindi personaggi archetipici, tutti d’un pezzo, eroici nel vero senso del termine. Questi Eroi sono passivi, subendo gli eventi che li portano ad avanzare verso l’obiettivo, sullo sfondo di una enorme guerra dove c’è sempre qualcosa di inatteso. Le motivazioni personali e la maturazione sono assolutamente secondari. Al contempo i personaggi hanno sempre la battuta pronta, sono fortemente carismatici e sicuri di sé stessi – prendendosi spesso poco sul serio – ma sanno essere integerrimi quando il momento lo richiede, in piena linea con l’idea action degli anni ’80. Sono figure superficiali, funzionali a compiere il proprio ruolo.
L’incarnazione massima di questa simbiosi è proprio il protagonista, Master Chief, icona indiscussa dei videogiochi e figura dal carisma enorme: eroe perché è nato per esserlo, virtualmente invincibile, compie imprese straordinarie e le poche volte che parla, lo fa per dire una frase ad effetto. Una bizzarra sintesi tra Achille e Terminator, praticamente.
Ovviamente non tutto era perfetto. Halo tendeva ad essere confusionario nel raccontare anche le cose più semplici e a volte aggiungeva personaggi che sembravano avere grande rilievo per poi dimostrarsi ampiamente inconcludenti. Idem per alcuni temi, a volte veramente trascinati e aggiunti quasi senza un motivo. Questi difetti fanno maliziosamente pensare che forse la sinergia descritta sia stata un mix fortunoso; ma in fondo non è il risultato quello che conta?
Influenze e innovazioni.
Per come abbiamo esaminato Halo fin’ora, lo si potrebbe definire una saga unica, innovativa, capace di prendere dai migliori per creare qualcosa di proprio. Ed è così. Soprattutto quando parliamo della trilogia originale, composta da Halo: Combat Evolved (2001), Halo 2 (2004) ed Halo 3 (2007), ci riferiamo a un prodotto di enorme successo e considerato da molti come un vero e proprio cult. Pur non essendosi conclusa in quel frangente, continuando ben oltre l’epoca di Bungie, la saga di Halo non è però riuscita a influenzare il panorama videoludico tutto; cosa che invece si supponeva potesse accadere.
Dal 2001 fino ad oggi, molte software house hanno creato saghe FPS che si potessero confrontare con Halo, la più famosa delle quali sicuramente Killzone. Al di là della qualità delle stesse, nessuna di loro ereditò le meccaniche dello shooter di Bungie, ma anzi, si rifecero tutti allo stile più lineare e scenico di Call of Duty (2003) e Medal of Honor (1999). L’unico elemento che venne largamente ripreso fu il concetto dello scudo come barra della vita ricaricabile: applicato come totale rimpiazzo della salute, venne poi implementato in quasi tutti gli shooter successivi.
Dopotutto, nel 2004 non fu Halo 2 con il suo nuovo motore fisico e la sua migliorata IA a rivoluzionare l’idea di FPS, ma Half-Life 2 con la sua fisica applicata direttamente al gameplay, Per non parlare del 2007: mentre Halo 3 potenziava la sua formula con nuove meccaniche, il videogioco online e offline veniva irrimediabilmente mutato da Call of Duty 4 – Modern Warfare, capace di muoversi agli antipodi dell’idea di Bungie. Insomma era lampante che il mercato e l’utenza prediligessero tutt’altra formula, costringendo alla fine lo stesso Halo ad allinearvisi.
Combat Evolved.
Dopo Halo 3, la saga, come capita sempre ad un certo punto, cominciò ad ibridarsi. Halo: Reach (2010) cominciava questo percorso, venendo criticato da molti fan tradizionalisti. Narrativamente cercava di rendere tutto più serioso, cupo e umano, raccontando una storia di sacrificio e più vicina ai personaggi, senza abbandonare troppo le origini narrative del brand. In effetti, questo obiettivo era stato tentato anche dal precedente Halo 3: ODST ma quasi del tutto fallito, pur fungendo proprio da prova generale per Reach. A livello di gameplay le meccaniche introdotte avvicinarono un pochino Halo ad altri FPS, soprattutto nella componente multiplayer. Dalle più banali, come l’introduzione dello scatto, alle più sottili, come un level design che tentava di guidare maggiormente il giocatore tra le aree, anche con obiettivi piazzati in maniera strategica, queste innovazioni vennero implementate con primizia, rendendo probabilmente Reach l’apice della serie.
Con la cessione del testimone alla 343 Industries dopo l’addio di Bungie, l’opera subì una notevole accelerazione sul sentiero già tracciato. Il criticatissimo Halo 4 (2012) cercava palesemente di tenere i piedi in due scarpe: se da una parte voleva rievocare le atmosfere delle origini, ben più di Reach, dall’altra si teneva ben strette le modifiche dell’ultimo capitolo Bungie e in qualche caso le irrigidiva. Il punto di rottura è invece rappresentato da Halo 5 (2015), sicuramente il capitolo che maggiormente effettua cambiamenti strutturali. Le aree aperte sono ridotte, diventando più simili a classiche sequenze con mezzi; spariscono quasi del tutto le sezioni lineari, rimpiazzate con arene di medie dimensioni, dotate di verticalità; lo shooting venne ristrutturato per essere più dinamico e rapido. Infine è inserita la presenza fissa di una squadra, con conseguente meccanica di cura del giocatore in caso di sconfitta.
Se i cambiamenti al gameplay sono stati quasi necessari per non far diventare Halo una saga stantia, è difficile dire se lo siano anche quelli alla narrazione. I capitoli della 343 Industries, infatti, virano fortemente dal quel concetto di “epica tamarra” che la trilogia originale portava avanti. Non con qualche inciampo, il nuovo approccio è rappresentato dall’esplorazione dei personaggi, costruendoli con dubbi, incertezze, scelte morali e relazioni più approfondite. La trama stessa diventa più preponderante, portandosi su temi più puramente Sci-Fi e perdendo parte dell’atmosfera originale. Anche le musiche di Neil Davidge e Kazuma Jinnouchi si distaccano dal passato, rievocandone però alcune sonorità.
Verso l’Infinito.
Il cambiamento è riuscito solo in parte. Pur ricevendo degli spunti interessanti, soprattutto con Halo 5 è stata forte la sensazione di un distacco troppo netto. Per questo motivo il grande banco di prova per 343 Industries sarà Halo: Infinite, capitolo che dovrebbe giungere sul mercato a fine 2021. Il suo primo gameplay mostrato nel 2020, è stato molto criticato dall’utenza; nel dubbio, gli sviluppatori si sono presi un ulteriore anno per lavorarci su.
Infinite ha infatti un compito difficile: unire vecchio, attuale e nuovo. Deve avere la forza di guardare al passato di una saga che ha saputo creare una formula unica e personale, di non tradire il nuovo corso inaugurato con Halo 4 e in parte con Reach, ma anche di rivolgersi al futuro, a chi inizierà il suo viaggio solo ora. Dopotutto mentre i capitoli della 343 Industries erano in parte anche sperimentali, Infinite sembra il tentativo di indirizzare la saga verso un punto definito, per far si che chiunque possa continuare (o iniziare) la sua personale epopea in quell’universo affascinante e unico che è Halo.
GT