Battle Royale, quando un romanzo diventa una sfida
Tra le moltitudine di opere d’arte ce ne sono alcune che sono capaci di influenzare in maniera trasversale più ambiti, creando nuovi generi e ispirando nuovi autori. Alcune di queste opere sono assorbite dalla cultura pop che garantisce loro, il più delle volte, la memoria storica necessaria a non finire nell’oblio. Altre volte, nonostante l’influenza che esercitano in maniera diretta e indiretta, alcune pietre miliari rimangono nascoste ai più.
Ci sono poi dei casi particolari: opere la cui influenza è così forte che in tanti ne hanno sentito parlare e sanno descriverne alcune caratteristiche peculiari, senza però andare mai oltre la superficie. Un esempio? Battle Royale. A molti probabilmente è venuto in mente il popolarissimo genere videoludico di cui l’ambasciatore principale è senz’altro Fortnite; ma si sta parlando del romanzo di Koushun Takami, completato nel 1996 e pubblicato in Giappone solo nel 1999, da cui deriva il popolare videogame (e non solo).
La cara vecchia distopia
La storia è ambientata nella Repubblica della Grande Asia Orientale, un Giappone totalitario di fine anni ’80 che ha vinto la Seconda Guerra Mondiale. Sostanzialmente, è la proiezione della Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale ideata negli anni ’40 dell’allora Impero giapponese. Un regime totalitario a tutto tondo. E, come ogni dittatura che si rispetti, la popolazione è alla mercé del governo e dell’esercito, c’è il culto della persona del dittatore di turno, un controllo maniacale su ciò che è considerato morale o immorale, una naturale avversione per l’Occidente e la soppressione, nel sangue, di qualsiasi forma di disobbedienza. Insomma, il pacchetto completo.
L’essere umano, si sa, è molto flessibile. Tanto che la popolazione si è adattata al punto da accettare anche il “Programma”: un sadico esperimento militare, in cui, una volta l’anno, narcotizzano, rapiscono e portano su un’isola deserta un’intera classe di studenti delle medie. Qui, i ragazzi sono obbligati ad uccidersi a vicenda.
Le regole del Gioco
La classe, composta da 21 maschi e 21 femmine, è informata delle poche regole del Programma, chiamato anche “Gioco”. I partecipanti sono costretti ad uccidersi a vicenda e il dispositivo che si ritrovano attorno al collo li monitorerà. Infatti, il collare è progettato per tracciare i partecipanti del programma e ucciderli da remoto se questi provano a rimuoverlo o travalicano un’area vietata. La fuga, ovviamente, non è contemplata. Se nessuno muore nel giro di 24 ore, esploderanno tutti i collari causando il termine del gioco. Inoltre, il programma ammette un solo vincitore a cui è destinata una rendita in denaro con la quale trascorrere il resto della sua vita in tranquillità. Informati di tutto ciò, ai ragazzi è fornito uno zaino contenente un’arma/oggetto casuale, dei viveri e una mappa. Dopodiché, il gioco ha inizio.
Darwinismo sociale
Tutto questo rende difficile, se non impossibile, fidarsi dei propri compagni. Tra chi vuole ottenere il premio, chi vuole sopravvivere e chi prova un riscoperto piacere nell’uccidere, i tradimenti sono sempre dietro l’angolo. I deboli sono lasciati indietro e i forti fanno di tutto per aumentare il divario con gli avversari. Tutto ciò pone i ragazzi a una pressione psicologica costante.
Un elemento che accresce il terrore dei i protagonisti sono gli annunci funebri. Infatti, ogni sei ore sono annunciate sia le nuove zone vietate che gli studenti deceduti. Così, con il passare del tempo, i ragazzi seppelliscono con il pensiero i loro ex-compagni di classe. A sottolineare in che modo gravano gli annunci sui protagonisti, alla fine di ogni capitolo, al lettore è ricordato il numero di giocatori ancora in vita.
Così c’è chi decide di tentare la fuga, chi cede alla pazzia; altri decidono di suicidarsi piuttosto che uccidere. C’è anche chi prova a fare gruppo. Altri ancora decidono di accettare il programma per quello che è: un gioco in cui in palio c’è la propria sopravvivenza. In questo contesto, cadono tutte le maschere messe in piedi dalla società, giapponese (e non) mettendo a nudo l’essere umano nella sua forma più atavica. Così il Gioco, per quanto subdolo e atroce, diventa il riflesso del grottesco darwinismo sociale del mondo degli adulti.
La brutalità come mezzo
Il ritmo imposto da Takami è sempre sostenuto ed è facile osservare situazioni in cui serve poco per trasformare un gruppo affiatato nel retrobottega di un macellaio. La brutalità, infatti, è una caratteristica fondamentale di Battle Royale. Essa, però, non è solo fine a sé stessa. Diventa un mezzo per esaltare l’atrocità del Programma tanto che il lettore stesso si trova a odiarlo sviluppando al contempo un senso di empatia con (quasi) tutti gli studenti.
Inoltre l’autore è riuscito nel difficile compito di descrivere gli ultimi istanti di vita di un ragazzino delle medie. Mediante descrizioni fredde e calcolate, mai troppo vaghe e nemmeno troppo specifiche, il trapasso, in Battle Royale, raramente è poetico. Le morti possono essere rapide e improvvise, senza che il malcapitato se ne sia reso conto. Altre volte si assiste ad una lenta discesa nell’oblio intervallata dai pensieri sconnessi di un adolescente. Tutto ciò rende il gioco una grottesca gita scolastica dell’orrore, rimarcando cosa può produrre la società senza la giusta presa di coscienza.
Lo specchio frantumato della società
Potrebbe sembrare che Battle Royale sia un romanzo pulp, che fa della efferatezza il suo cavallo di battaglia. Sotto la superficie incrostata di sangue e violenza, però, c’è molto di più. Infatti, i capitoli dedicati agli studenti sono delle finestre spalancate sui problemi della società giapponese (e non solo) degli anni ’80.
Ad esempio, il maschilismo e il patriarcato sono messi in luce dal contrasto che si crea tra il comportamento remissivo della maggior parte delle protagoniste femminili (e da come i ragazzi lo diano per scontato) e l’irriverenza e indipendenza di alcune studentesse. Queste ultime sono capaci di farsi beffa di regole e convenzioni e sfruttarle a loro piacimento nel gioco, risaltandone la stupidità. Un altro problema è il pregiudizio che, in una società come quella giapponese, è molto dannoso. I ragazzi che sono bollati come “teppisti” subiscono un isolamento sociale che li allontana sempre di più dal resto delle persone considerate “perbene”. In questo modo, sono lasciati indietro prima dagli adulti e poi dai compagni.
Con l’ausilio di uno specifico personaggio, è messo sotto la lente di ingrandimento anche il classismo tipico delle famiglie giapponesi più antiche e nobiliari. A tal proposito, è interessante notare come questo sentimento sia ereditato dai genitori. Infatti, gli adulti giocano un ruolo fondamentale negli affanni dei ragazzi alle prese col gioco: spesso i traumi che gli studenti si portano nello zaino, insieme ai viveri, sono da imputare proprio ai genitori (o a chi li circonda), in modo diretto o indiretto. Appare chiaro che, per l’autore, troppo spesso il mondo degli adulti appare sordo e indifferente alle necessità delle nuove generazioni. Così le richieste di aiuto ignorate e l’egoismo genitoriale possono sfociare in casi di pedofilia, abusi sessuali e delinquenza.
Una lettera di sfida
Insomma, Takami tira in ballo di tutto e passa anche ad un livello più ampio. Infatti, con la narrazione ambientale sono messi in risalto anche altri problemi, come quelli legati al dogma “il gruppo prima del singolo”, un concetto portato all’estremo nella società orientale. Dando per scontato che la popolazione creda effettivamente che sia un esperimento militare necessario al miglioramento della Repubblica, si mette in risalto comunque l’assurdità di accettare il sacrificio di 42 ragazzini ogni anno per il proprio benessere. Più probabilmente questa è una comoda bugia per giustificare un’intrinseca accidia; nel non voler opporsi perché troppo rischioso e perché “succede solo agli altri”. Lo scopo del Programma, infatti, è proprio questo. Una crudele dimostrazione di potere che mira a incutere timore e paura, a generare sfiducia nella popolazione. Insomma, un vecchio classico: “dividi et impera”.
Oh, someday, girl, I don’t know when
We’re gonna get to that place
Where we really wanna go and we’ll walk in the sun
But ‘til then, tramps like us
Baby, we were born to run
Born To Run di Bruce Springsteen, un brano molto ricorrente nel romanzo.
Dopo quanto detto finora, non stupisce che in madrepatria il romanzo sia diventato un cult. In aggiunta, l’autore conclude Battle Royale nel modo migliore possibile, con un finale aperto e piuttosto atipico. Un finale che colpisce nella sua semplicità. Infatti, con poco più delle due righe finali Takami riesce a sfidare, quasi minacciare, la società e il lettore stesso. Che continuerà a rimuginare, anche a settimane dalla lettura, sul suo ruolo all’interno della società.
Ora come allora
A ventitré anni dalla sua pubblicazione, Battle Royale continua a stupire per la sua attualità e per la sua efficace analisi della società di quel tempo. Tanto che, nonostante in occidente non sia così famoso, continua ad influenzare la cultura pop globale. Dal romanzo, infatti, sono stati tratti sia un film, che si è concentrato più l’aspetto pulp dell’opera (apprezzato particolarmente da Quentin Tarantino – tanto da ingaggiare un’attrice del cast di Battle Royale per impersonare un personaggio simile in Kill Bill Vol. 1), e un manga. A quest’ultimo si è ispirato anche Hwang Dong-hyuk, il regista dell’acclamata serie tv Squid Game. E probabilmente ci sono anche altri autori che devono molto a Battle Royale, tanto quanto Takami deve al Il Signore delle mosche, di William Golding.
Ora come allora Battle Royal continua ad essere una lettura consigliata in modo trasversale sia ai più giovani che ai più grandi. Ognuno, infatti, troverà un pezzetto di sé, del suo mondo e dei suoi problemi e in cambio riceverà ben poche risposte ma molte domande interessanti.
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