Due consigli di lettura per capire l’autunno della giovinezza
“Non è questo che sognavo da bambina” e “Vite in attesa” sono due romanzi freschi di pubblicazione Garzanti. Attraverso una scrittura mai noiosa e apparentemente leggera, affrontano il dramma del neolaureato, di una generazione che rimane ai margini. Di una generazione che è in “attesa” e aspetta “pazientemente” il suo turno. Insomma: potremmo definirli quasi generazionali.
Entrambi rispondono a una serie di domande che, almeno una volta, chiunque si è posto all’autunno della sua giovinezza, quella parte della vita in cui si è a un bivio. L’università è finita, l’idillio della vita da studente inizia a sbiadirsi nella memoria, come l’ingiallimento delle foglie. Si tratta di una generazione in attesa. Che si pone delle domande.
E cosa c’è dopo l’università? Cosa devo fare? Chi sono e cosa voglio diventare? Cosa aspetto veramente?
Ida e Maribel cercano di rispondere a tali questioni esistenziali. E ci raccontano cos’hanno in comune una giovane neolaureata trapiantata a Milano e una ragazza spagnola “di stanza” a Lille. Diventano i mezzi attraverso cui tre scrittrici decidono di descrivere l’altra faccia della medaglia. Quella che vedono in pochi.
“Non è questo che sognavo da bambina” e la nostra realtà
Fatemelo dì: non è questo che sognavo da bambina.
Pensavo che avrei fatto qualcosa di emotional e distruptive, e invece sono finita a dire parole come emotional e distruptive. Mi resta un’unica gioia, lamentarmi. Soffrire rumorosamente. Lamentiamoci tutti insieme mentre ci rotoliamo nel fango e nel prosecco.
Non è questo che sognavo da bambina, Cap. XII
“Non è questo che sognavo da bambina” è un romanzo a quattro mani, scritto da Sara Canfallia e Jolanda di Virgilio, pubblicato dalla Garzanti Editore nell’agosto del 2021. Il testo nasce da un’esperienza comune delle due scrittrici, e amiche, che hanno deciso di riportare su carta: la fine dell’università e il dramma del post laurea, insieme alla rappresentazione di una generazione che non entra nel mondo del lavoro dalla porta principale.
Quello che, all’apparenza, può sembrare un romanzetto nato per intrattenere un certo pubblico, rivela una delle più tristi realtà presenti nell’Italia degli ultimi vent’anni.
Ogni tanto le testate giornalistiche e i media ricordano che esiste una percentuale abbastanza presente di giovani, neolaureati e non, in cerca di occupazione. La maggior parte risulta essere più che specializzata in svariati campi del sapere e adeguatamente formata nell’ambito universitario.
O almeno in teoria.
Altri dati rilevano, al contrario, una preparazione imperfetta per la realtà fuori dalle università: un mondo parallelo in cui gioca un ruolo relativo l’istruzione, spesso fine a stessa, mentre la formazione vera che può preparare a quello che li aspetta, non è considerata abbastanza.
Inoltre, c’è anche da precisare che, nella maggioranza dei casi, tantissimi non lavorano in un ambito appartenente al ramo di studi.
Storia di una stagista: Ida
M’impegno, collaboro, dimostro entusiasmo
Ma in questo ufficio
Non gliene frega un cazzo
Mi lamenterò con te
Del mio essere sottopagato
E della nostra relazione
Di cui non mi sento appagato
Avere Ventanni, L’Orso (La Provincia EP).
Ida, la protagonista di “Non è questo che sognavo da bambina” appartiene proprio all’insieme di chi lavora in un settore distante da quello di istruzione: l’ennesima neolaureata, con un sogno rimasto nel cassetto, tante speranze e dura (triste) realtà da affrontare. Senza neanche rendersene conto, si ritrova ad essere assunta presso un’agenzia di comunicazione dal nome “Meeto” per uno stage di qualità di copywriter.
La parola stage, si sa bene, va a braccetto con paga al limite del legale e orari assurdi: una specie di videogioco nel quale il premio finale è quello dell’agognato contratto a tempo determinato.
Senza considerare i sentimenti di ansia e oppressione, la paura di sbagliare, di non arrivare al livello successivo. A concorrere non c’è solo lei, sarebbe troppo facile, ma anche una rivale: il giocatore due.
All’inizio Ida non capisce subito il meccanismo e le fa ribrezzo entrare nel circolo di automatismi tipico della vita d’ufficio, nel quale devi trovare la parola giusta, inserire lo stesso tassello ma in maniera diversa. E poi ci sono i colleghi: serpi con la faccia da angeli, che ti tendono la mano ma ti pugnalano alle spalle. Ida non può essere più triste di così: cosa ne è stato del suo sogno? Il tempo dell’università le appare come una distante Isola che non c’è.
A un certo punto, inaspettatamente, deciderà però di impegnarsi e di diventare l’impiegata modello.
La triste verità
La storia di Ida è la storia di molte persone: tutta la vita a rincorrere un sogno. Molti, come lei finiscono a fare un lavoro che non avevano considerato in passato, pur di andare avanti; Ida è perennemente insoddisfatta, anche quando riesce ad inserirsi in ufficio. È insoddisfatta anche nelle relazioni, come spesso accade: tutte inquadrano l’altro sempre come mezzo e mai come un fine, nessuna è veramente autentica. Men che meno sul lavoro.
La nostra arriverà, in un dato momento a chiedersi se sia veramente questo il diventare adulti: bene, la risposta è affermativa.
Con grande ironia, le autrici introducono un concetto: il mondo del lavoro ci cambia e ci trasforma, è un punto di non ritorno. La felicità non porta da mangiare. Bisogna operare delle scelte: l’indipendenza e il misero stipendio, oppure inseguire il sogno. E, alla fine del romanzo, ci sentiamo meno soli, in particolar modo se viviamo sulla nostra pelle ciò che ci racconta Ida: ci sembra normale, anche se normale non è. È questo sentimento che spinge il lettore a considerare la protagonista, dopo la lettura, come una vecchia amica con la quale prendere uno spritz post-work.
Forse, questa lettura conduce chi ne fruisce a capire, altresì, come a essere sbagliati non siamo noi in quanto generazione, ma il “sistema – Paese Italia” nei nostri confronti. Sara Canfallia e Jolanda Di Virgilio, attraverso la storia di Ida, portano alla luce la vita dello stagista medio.
Maribel: “Vite in attesa”
Spesso si arriva alla fine del nostro percorso di studi e non si sa bene bene cosa fare dopo. Alcuni decidono, quindi, di lanciarsi in progetti di dottorato, master, ulteriori specializzazioni: lo scopo è, tavolta, quello di allungare il tempo e non pensarci. Credono che la decisione verrà presa in itinere, non avendo una chiara definizione di loro stessi. Oppure il tutto viene inquadrato come un’opportunità per fuggire, staccandosi da un posto determinato. Ricominciare, forse. Come? Non è ben chiaro.
Sono questi sentimenti che animano Maribel, la protagonista del romanzo di Julia Sabina, “Vite in attesa”, pubblicato (anch’esso) da Garzanti.
Grazie a una borsa di studio, la ragazza riesce a fuggire da Madrid a Lille – un po’ come in Spatriati, di Mario Desiati – non riuscendo nemmeno a raggiungere Parigi. Vorrebbe diventare francese d’adozione ma per qualche motivo tutte le forze del mondo sembrano impedirglielo. Dovrebbe lavorare alla sua tesi di dottorato ma, in realtà, non sa neanche lei in quale modo trattare l’argomento. Sembra costantemente in “attesa” della svolta.
Nonostante il destino avverso e le varie difficoltà, i continui ripensamenti, Maribel affronta tutto quello che la vita le mette davanti.
La triste realtà (parte due)
Come Jolanda di Virgilio e Sara Canfallia, anche Julia Sabina sceglie di non filtrare nulla: sarebbe stata pura fantasia se la protagonista avesse trovato tutte le porte spalancate e avesse coronato il suo progetto.
Invece non è stato proprio così: a causa di un fallimento dopo l’altro, Maribel arriva a pensare che mollare tutto sarebbe stata la scelta più sensata. Sembra arrendersi ma, alla fine capisce che sono proprio tutti quei “no” a creare le condizioni affinché lei realizzi il proprio sogno.
Con fatica e con mille dubbi, certo, ma chi non ne ha? Maribel trova, allora, nella precarietà la forza e la determinazione di andare avanti, scegliendo di non rimanere ferma all’incrocio.
Generazione in attesa
Ida e Maribel, rispettivamente in “Non è questo che sognavo da bambina” e “Vite in attesa”, diventano portavoci di una generazione alla quale sembra sia stato dato tutto: gli strumenti, le possibilità, i diritti. Fanno parte della generazione che non ha lottato. Eppure c’è una cosa che sembra mancare: l’occasione di essere presi sul serio proprio da chi ha lottato in precedenza. Tale contingenza, ci spiegano le autrici di “Non è questo che sognavo da bambina” e “Vite in attesa”, crea solo un’insieme di aspettative velleitarie e che non hanno conclusione: uno stage, ad esempio, diviene il modo legale per sfruttare, mentre il mondo accademico appare chiuso alle novità. Tutto è preconfezionato, non adatto. Chiunque sarebbe preso dallo sconforto, rinuncerebbe e si lascerebbe inghiottire da un sistema che non è più adatto.
Quella delle due protagoniste di “Non è questo che sognavo da bambina” e “Vite in attesa” è una generazione che attende un punto di rottura, un momento in cui rimescolare le carte. Per far questo non bisogna abbattersi ma giocare il loro gioco; anzi, riuscirci meglio. Operare una trasformazione alle radici partendo dal basso.
Forse, in questo modo, non si sentirebbe più parlare di giovani che si accontentano di briciole.
AS