Ciao di nuovo
Ciao di nuovo
Talvolta, prendendo la metropolitana. Anzi no. Ricominciamo, ché sono arrugginito.
Mi avvalgo dei potenti mezzi pubblici italiani, ogni giorno, per andare al lavoro. Nel tragitto che mi riporta quotidianamente a casa, mi capita di riflettere su Evangelion. Ora, io ho sempre voluto scrivere qualcosa sull’opera magna di Hideaki Anno, ma non ci sono mai riuscito. Non so perché: magari è semplice questione di terrore sacrale nell’approcciarsi a quello che considero uno dei contenuti più importanti degli anni Novanta, o magari c’è di più. E cioè che Evangelion mi abbia parlato così profondamente e a un livello emotivo tanto prezioso che ho paura di doverlo capire veramente. Analizzare, d’altronde, è un conto; mettersi in gioco realmente, un altro.
Eppure, conservo ancora preziosamente le metafore ferroviarie: il treno quale immagine della vita, i binari alla stregua di percorsi prestabiliti dai quali non si può evadere, i silenzi tra vicini di posto capaci di manifestare il vuoto incolmabile che esisterà sempre tra due esseri umani. Vive dentro di me, durante quei viaggi di venti, trenta minuti. Mi ossessiona, bello e impossibile; è un pensiero così perfetto, così intangibile, così inattaccabile, da infastidirmi. A conti fatti, non credo mi sposti la nervatura il concetto preso come tale, ma il fatto di sentire una certa mancanza di controllo, insieme a quella di talento.
Per un anno non ho scritto più niente. Non mentirò, è stato un anno complesso per varie ragioni – una su tutte, il passaggio definitivo all’età adulta. Cosa che, incidentalmente, è un grande tema di Evangelion. Scrivere significa avere dentro una luce che ti parla, o almeno è così per me; ecco, ero al buio e in silenzio. La qual cosa ha, conseguentemente, inciso sul mio figlio prediletto: POP-EYE. L’unica cosa della mia personale esistenza su cui io abbia pensato di avere controllo. Non ero sui binari, ero io il binario.
Quando ho creato POP-EYE non sapevo nemmeno cosa potesse diventare, e ci sono voluti anni per farlo arrivare alla sua forma definitiva, quella che vi si para ora innanzi, o cari lettori. Non sapevo dove stessimo andando, ma era l’unica cosa di tangibile che – tutto sommato – possedessi. Era una coperta di Linus, la calda illusione di dominare un oggetto (rectius: una linea editoriale), la mia pertinenza intellettuale e un numero consistente di ulteriori fesserie. POP-EYE era la sua procedura interna, i dodici pezzi mensili da rispettare, il calendario e i post sui social.
Non solo ho perso il controllo, ma l’ho disumanizzato.
In tarda primavera, io e Vincenzo sapevamo di doverlo cambiare. Forse anche lui ha avvertito che da cosa più concreta che esistesse era diventato una realtà astratta e intangibile, ha percepito la retorica procedurale dietro POP-EYE; davvero, non so. Dovreste chiederlo a lui. Sta di fatto che gli uomini ritornano costantemente a modellare i vasi di terracotta che hanno lavorato, artigiani continui delle loro produzioni, fabbri perenni, devoti demiurghi, prometei. Hideaki Anno con il Rebuild ha voluto esprimere un messaggio potente: “scinn’, tuocc’ e femmene”, perché non era stato capito da chi si trastullava con le action figures di Rei Ayanami nelle sue camerette. Io, noi, nel mio, nostro, umilissimo portale, dovevamo capire prima di essere Robertino, Ikari Shinji e altre meravigliose creature.
Quando è accaduto, il resto è venuto da sé.
Il prossimo POP-EYE sarà organizzato in finestre editoriali. Ogni finestra è un numero, ci sono quattro finestre all’anno ed è tutto quello che vi possiamo dare. Chiedere di più sarebbe eliminare il motore dell’esperienza, e cioè il “pensiero voglioso”, quello che desidera realmente comunicare qualcosa – “a tien coccos’ a raccuntà?”. Ci siamo capiti, non serve altro citazionismo.
Organizzando POP-EYE come una rivista digitale, qualcosa che sta lì ho paradossalmente deciso di colmare il divario sensibile che mi separa dalla carta. E non parlo di soldi, di profitti, di sostenibilità: è al voler lasciare qualcosa, al simbolo, che faccio riferimento. Quando ho accettato di non averne il controllo reale, che dal binario non scappi mai, il resto è venuto da sé.
Il titolo del primo numero di POP-EYE, Rebuild, è un evidente omaggio a Evangelion. Ho deciso di discuterne senza parlarne, o meglio di interiorizzarne l’insegnamento al meglio che potevo. Rebuild è un omaggio in primis a chi ha scritto per POP-EYE in questi anni, è le sue connessioni; allo stesso tempo, è la forma migliore che potessimo – plurale maiestatis di redazione – offrire a chi ci legge. Una versione ripulita dei nostri pezzi migliori, per l’occasione reimpaginati; contemporaneamente, un archivio perenne degli altri, del passato, di ciò che è stato. A cui sarò eternamente grato.
Ripartire è un termine meraviglioso. Ricominciare ancor di più.
POP-EYE ha deciso di rinascere, forse il più bello dei tre.
AAS
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