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Continua a guardarmi: come ci legge l’algoritmo di Netflix

Beatrice Vanacore
6 luglio 2022

Il seguente articolo sull’interazione fra l’algoritmo di raccomandazione di Netflix e i suoi fruitori è da considerarsi come prima parte di un discorso più ampio, che continueremo nel corso di questo mese. Se questo argomento vi interessa, vi invitiamo a leggere anche la seconda e ultima parte.


Chi l’avrebbe mai detto, agli albori del 2019, che sarebbe arrivata una piaga in grado di modificare i più inattesi aspetti della nostra quotidianità? Di pandemia si è parlato – e si parla – moltissimo; fra queste righe, quindi, non lo faremo.

Fra le tante conseguenze che un evento di portata mondiale può avere, però, ce ne sono alcune che toccano anche noi di Pop-Eye da vicino: quelle che riguardano il cinema e le serie TV. Non è di produzioni a tema pandemia che stiamo parlando; anzi, non vogliamo introdurre nessun argomento legato alla narrazione ma, piuttosto, alla fruizione. Oggi discutiamo di piattaforme streaming, algoritmi e altri argomenti che vi faranno sentire in Black Mirror. Ma, prima di iniziare, facciamo un passetto indietro.

Le Streaming Wars – nulla a che fare con quelle stellari

Fra il novembre del 2019 e il maggio del 2020 sono sorte – e decadute – molte, moltissime, piattaforme SVOD e VOD1 generando quelle che sono state rapidamente soprannominate dai media Streaming Wars.

Il periodo che ha visto sorgere la pandemia e l’istituzione di lockdown su scala mondiale è stato teatro di una guerra di cui tutti eravamo parte, spesso senza rendercene conto. La reclusione fra le mura domestiche, nuovi ritmi nelle nostre giornate e un crescente desiderio di affiliazione hanno portato a un forte aumento degli abbonati a diversi servizi streaming.

Netflix, Disney plus, Prime Video e compagnia bella si sono visti arrivare frotte di clienti affamati di intrattenimento, pronti a guardare per ore e ore contenuti di vario genere per riempire il vuoto di interazioni sociali sempre più inafferrabili. Un sogno per i Jeff Bezos e i Ted Sarandos della situazione, no?

Beh, ni. Come in ogni mercato competitivo che si rispetti, anche in questo caso, a chi offre una merce è richiesto di garantire un vantaggio rispetto ai competitor. Nel caso delle piattaforme streaming, questo vantaggio può essere costituito da un catalogo più appetibile, migliori produzioni originali, prezzi più competitivi, certo. Su tutti, però, nulla è appetibile quanto un buon algoritmo di raccomandazione.

Facciamo un altro passetto indietro. Ogni piattaforma digitale è retta da tre meccanismi (Van Dijck et al. 2018)2: il meccanismo di datificazione (capacità delle piattaforme di trasformare in dati misurabili qualsiasi interazione dell’utente), mercificazione (trasformazione di dati in oggetti commercializzabili), selezione (cura dei contenuti ai quali gli utenti saranno esposti).
Le piattaforme streaming, e questo è ben noto, fondano il loro servizio non solo sull’offerta di contenuti, ma anche – e soprattutto – sulla promessa di mostrarci qualcosa che ci piacerà. Dunque, dopo aver offerto contenuti agli utenti, il sistema più utile affinché questi non disdicano l’abbonamento il mese successivo consiste nel continuare a proporre loro qualcosa di interessante per loro. A vincere le Streaming Wars, potremmo dire, sono quindi le piattaforme con l’algoritmo di raccomandazione più efficiente.

In Platform Society Van Dijck parla delle logiche dell’algoritmo di piattaforma.

Questa può sembrare una cosa splendida e niente affatto inquietante; il problema, però, sta nel fatto che, per motivi principalmente legati al mercato3, gli algoritmi di selezione non sono trasparenti. Ora, diversi studiosi di media studies hanno fatto della comprensione degli algoritmi il proprio argomento di ricerca; fra questi vi è Taina Bucher, una ricercatrice che ha proposto diversi spunti interessanti per capire la relazione che intercorre fra utenti e algoritmi. Uno degli studi della Bucher (2018)4 è consistito nell’usare la reverse engineering per comprendere come gli algoritmi ci classifichino; questo studio ha fatto da base per un’altra ricerca svolta, questa volta, da un altro ricercatore: Niko Pajkovic (2021)5.

Personas e tropi

L’esperimento si è svolto su Netflix ed è consistito nel creare tre personas con rispettivi account; per due settimane, Pajkovic ha eseguito l’accesso sui tre profili e ha selezionato film e serie TV scelte dall’homepage e in linea con i gusti dei tre prototipi, riproducendo i contenuti nella loro interezza e mettendo “mi piace” ai titoli. Le personas create da Pajkovic erano il Fan di Die-Hard, lo Snob acculturato e l’Inguaribile romantico. Possiamo leggere i profili identificati da Pajkovic come tropi cinematografici a loro volta (che non aggiunge molto all’esperimento ma ci regala un bellissimo momento meta).

Il primo è un appassionato di sport (guarda partite, legge biografie di atleti e trova le storie riguardanti lo sport fonte d’ispirazione), con un passato da promessa dell’atletica spezzata da un incidente al ginocchio. Il Fan di Die-Hard è anche appassionato di film sui supereroi mentre disprezza le commedie romantiche e contenuti troppo pretenziosi.

Il tropo più attinente a questo profilo è indubbiamente quello del Dumb Jock (lo sportivo non troppo brillante): sapete esattamente di chi stiamo parlando. Presenza indiscussa nei teen movie, Il Dumb Jock è la stella del football, re del ballo (perché ovviamente c’è un ballo), emblema di una mascolinità non proprio sana. Il nostro atleta è spesso un bulletto dipinto come qualcuno che non brilla per acume.

Armie Hammer interpreta i gemelli Winklevoss in The Social Network (2010), due Jock molto poco Dumb.

Questo ritratto caricaturale e spesso offensivo è nato per contrapposizione: intorno agli anni ’80, infatti, il personaggio del Nerd, eroe intelligente e poco prestante, doveva trovare una controparte a lui speculare e, così, è nato il nostro Dumb Jock. Recentemente, questo tropo è stato ripensato e accostato, sempre più spesso, alla visione ellenica per cui, in un corpo sano, vive una mente sana (e chi siamo noi per contraddire i greci?)

Lo Snob acculturato è un soggetto con un livello d’educazione piuttosto alto che vuole fruire contenuti che possano mantenerlo intellettualmente stimolato. Si considera un cinefilo e – al contrario del Fan di Die-Hard – tiene molto a delineare un proprio gusto personale spiccato. È interessato a opere classiche, straniere e acclamate dalla critica, disprezza con particolare intensità i reality.

Girls (2012-2017), la serie con la più alta concentrazione di hipster che guarderete in vita vostra.

Quello dipinto da Pajkovic è, in poche parole, un hipster. A definire un hipster è ciò che non apprezza: dai gusti meticolosi e ricercati, questo tropo è caratterizzato da un forte senso di superiorità nei confronti di chi gli sta introno; questo lo porta anche a cercare costantemente cose nuove e semi-sconosciute a cui appassionarsi. Sebbene sia spesso dipinto come qualcuno di irritante e poco autentico, in diversi film l’hipster è solamente qualcuno, sì dai gusti difficili (e, sì, con molta spocchia) ma che, in ultima analisi, è semplicemente alla ricerca di rivelazioni e valori autentici.

L’inguaribile romantico fruisce contenuti per scappare dalla monotonia della quotidianità e rifugiarsi in storie d’amore di ogni tipo, questo lo porta a non preoccuparsi del livello culturale dell’opera che fruisce (può passare senza problemi da un classico della letteratura a un reality show). Oltre alle commedie romantiche, apprezza i musical e i contenuti popolari; non ha interesse per sport e documentari.

La verità è che non gli piaci abbastanza (2009) quella che sembra una commedia romantica che si schiera contro le commedie romantiche ma alla fine, gira che ti rigira, è una commedia romantica.

Il tropo ideale è il Romance Addict (il romanticismo-dipendente): l’innamorato dell’amore. L’eroe ingenuo che abita l’80% dei film romantici che abbiate mai visto, il Romance Addict si ritrova spesso a scontrarsi con la realtà di una relazione reale (quasi mai in linea con la sua idea di amore, derivante da anni e anni di consumo di commedie rosa). Ironicamente, la smaniosa ricerca dell’anima gemella lo porta ad essere sfortunato in amore: si concentra sui dettagli che attribuisce al partner ideale ignorando totalmente le caratteristiche positive (o negative) che la persona reale davanti a lui potrebbe presentare. La risoluzione, per questo tropo, sta nell’accettare di allentare il controllo e le proprie aspettative e aprirsi a scenari diversi da quelli immaginati.

Possiamo fidarci degli algoritmi?

Pajkovic ha portato avanti l’esperimento per due settimane, selezionando di giorno in giorno i titoli che più potevano essere in linea con i gusti delle tre personas. Pur senza fare ricorso alla selezione iniziale di tre titoli apprezzati, nel corso dei giorni l’algoritmo agiva: le homepage assumevano un’estetica diversa, proponevano dei micro-generi diversi e così via.

Oltre alle distinzioni di contenuti operate dall’algoritmo, dall’esperimento è emerso anche che, molto spesso, ai diversi profili venivano proposti gli stessi contenuti: a cambiare era l’immagine di copertina ad essi abbinata. Ad esempio, in tutti e tre i profili è apparso il titolo di La La Land (Chazelle, 2016), ma le immagini di locandina erano ben diverse l’una dall’altra. Se per il Fan di Die-Hard erano visibili persone che ballavano su delle macchine e i colori erano squillanti, per l’Inguaribile romantico la palette cromatica diventava più tenue e, soprattutto, l’immagine ritraeva i due protagonisti mentre si scambiavano un bacio; per lo Snob acculturato, invece, il frame scelto era quello della protagonista di spalle dentro a un teatro.

L’incriminata locandina di La La Land (2016)

A questo punto è lecito chiedersi se l’algoritmo rifletta i nostri gusti o li modelli. In altre parole, che peso ha l’algoritmo sulla costruzione del gusto degli utenti? Possiamo immaginare l’algoritmo di raccomandazione come il mezzo con cui il gusto viene quantificato e gli utenti divisi in comunità che apprezzano micro-generi differenti. Il punto, però, è che l’algoritmo non plasma solamente il percorso all’interno della piattaforma dei consumatori indirizzandoli – più o meno efficacemente – a guardare un determinato prodotto, ma agisce sul loro gusto estetico e artistico, ovvero sulle preferenze, da sempre percepite come qualcosa di innato o, al più, dettato dalla cultura umana.

Pajkovic vede il gusto come attività performativa che agisce nella collettività e produce, sia coloro che esercitano le loro preferenze, che gli oggetti che apprezzeranno; il gusto è visto non come stabile e immutabile ma come qualcosa in continuo cambiamento e a cui concorrono una moltitudine di attori, compresi gli algoritmi di personalizzazione. È necessario superare la dicotomia che contrappone l’agency umana a quella algoritmica:

Netflix e il suo pubblico si costruiscono reciprocamente l’un l’altro.

Pajkovic, 2021

Insomma, il finale di Stranger Things potete guardarlo senza farvi troppi problemi.

BV


NOTE:

1 Subscription video on demand, Video on demand

2 Van Dijck, J., Poell, T., & De Waal, M. (2018). The platform society: Public values in a connective world. London: Oxford University Press.

3 Nessun ristorante divulga la propria ricetta segreta al primo cliente che la chiede.

4 Bucher, T. (2018). If . . . Then: Algorithmic Power and Politics. London: Oxford University Press.

5 Pajkovic, N. (2021). Algorithms and taste-making: Exposing the Netflix Recommender System’s operational logics. Convergence.


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