Dov’è il mio corpo? Percezione e mani latitanti
Dov’è il mio corpo? (titolo originale J’ai perdu mon corps) è un lungometraggio animato francese del 2019. La direzione è affidata a Jeremy Clapin mentre la sceneggiatura è di Guillame Laurant (autore del libro dal quale il film Dov’è il mio corpo è tratto), nome associato a titoli come Il Favoloso Mondo di Ameliè (2001).
Il film è stato presentato al 72esimo Festival di Cannes, ottenendo la candidatura come miglior film d’animazione ed è distribuito su Netflix.
Titoli e traduzioni: il senso di perdita in tutte le lingue del mondo
J’ai perdu mon corps?, Dov’è il mio corpo?, I Lost My Body.
Il titolo originale e le sue fedelissime traduzioni appaiono didascaliche a livelli ermetici. La parola catalizzatrice, che avvolge lo spettatore, è (ovviamente) il verbo perdere: l’ho perso, è mancato, non sono più quello di prima. Questo dà un pretesto per riflettere sulla forza delle parole e su quanto una sola parola possa racchiudere in sé la sintesi che si svilupperà per tutta la durata della pellicola.
Anche la suggestione esercitata da perdu e lost non sono da meno: entrambi significano oggetti perduti, smarriti. Lo smarrimento e la perdita oltre che fisici sono anche esistenziali: ho perso me stesso, non sono più definito.
Ma perdita significa anche mutilazione (fisica e psicofisica) e, nell’articolazione più verace del termine, una vera e propria frattura. Essa è sia patologia (stato patologico di un organo o di tutto l’organismo, ndr), sia medicina: innesca la ricerca dell’interezza necessaria alla salvezza, monito a non perdersi nella frattura, a non esistere a metà.
Un Plot dalle premesse macabre
Dov’è il mio corpo? si articola sullo sfondo di una Parigi anonima e grigia si intrecciano due storie: quella di una mano fuggiva e quella di un ragazzo magrebino di nome Naufel. La prima fugge dall’obitorio con lo scopo di ricongiungersi al corpo dal quale è stata recisa, il secondo vive in uno stato di isolamento emotivo.
Due storie che sembrano non coincidere l’una con l’altra.
La premessa paranormale potrebbe far pensare a un horror o una commedia nera. Sembra quasi naturale paragonare la Mano latitante con un’ altra Mano piuttosto famosa. Gli elementi macabri sono indubbiamente presenti, ma non è ciò che interessa a Clapin: egli, infatti, umanizza questo protagonista insolito e lo inserisce in una narrazione dai toni fiabeschi, nella quale il tutto gravita attorno alla vita, anziché la morte.
La pellicola animata si sviluppa in parallelo: le avventure di questa mano alla ricerca del proprio corpo e le vicende di Naufel, il quale, ad un certo punto, si risveglia dal suo sonno.
Ciò che fa accendere in lui la lampadina è l’emozione principe: l’amore.
Il ragazzo, infatti, si innamora della bibliotecaria Gabrielle.
Esperienza sensoriale: vista, udito, tatto
In Dov’è il mio corpo?, lo spettatore viene colpito più volte: si tratta di una vera e propria catarsi sensoriale.
La vista e la città
Nella vista, con questa ambientazione cittadina, grigia e costantemente offuscata. La nota di colore, in crescendo man mano che avanza la storia, si evince dai personaggi principali. I flashback, elegantemente in bianco e nero, rappresentano la vista su un livello antecedente alla vicenda narrata ma indispensabile alla comprensione. Il passato tragico di Naufel fa capolino, come fanno capolino scene del suo passato recente, in delicate tinte pastello. Un esercizio di colori per la cornea, in sintesi.
L’udito: intrappolare e perdersi nel mondo
Il senso dell’udito è il risultato di una cura minuziosa del dettaglio: i silenzi dei dialoghi, il ticchettare della pioggia fitta (Parigi is he new London?), sono tutte piccole parti di un ulteriore viaggio del suono. Elemento singolare è il registratore di Naufel: lo utilizzava da bambino per intrappolare i suoni. Il registratore contiene la genesi della sua tragedia che egli riascolta ogni notte a ripetizione.
Il registratore è l’emblema dei suoi sogni infranti di bambino; da grande sarebbe voluto diventare un pianista ma il destino ha deciso diversamente. Infine, il registratore, rappresenta il blocco dettato dal trauma: sente in passato ad occhi chiusi, disinteressandosi di ciò che lo circonda. Per questo motivo diviene tutto grigio e lui si chiude in una sua dimensione spazio-temporale che non lascia spazio al divenire.
Percezione del sé: il tatto
In realtà, la tematica principale non sta tanto nella trama di Dov’è il mio corpo, quanto nella percezione. Il senso protagonista è il tatto, il quale fa passare in secondo piano i dialoghi e le vicende.
La maggior parte delle inquadrature sono incentrate sul tocco. Una mano che scaccia una mosca, due dita che stringono una sigaretta, ogni gesto si incastra.
Il tocco che si sfrega contro la realtà e la assorbe, si immedesima e si rende parte del mondo.
E ciò che fa tornare vivo Naufel: il tatto suscita e genera emozioni, gli fa prendere conoscenza di se stesso. A poco a poco afferra la vita e la stritola, barcamenandosi nei tocchi. Il risultato è un Aut-Aut: fermati, ascolta e ricomincia. Quando sembra volersi lasciar cadere nel nulla, comprende l’essenza della sua vita e la prende a pienissime mani.
E la mano?
(gioco di parole, ndr)
Il concetto di unità: il viaggio della mano
La mano è protagonista assoluta della pellicola: si sveglia in un frigorifero, si sente soffocare e fugge. Ma, in special modo, la mano è viva quanto il corpo al quale desidera tornare. Sia il corpo, sia la mano aspirano alla ricongiunzione, proprio come il sé aspira all’unità. In questa ricerca, sensoriale e psicologica, entrambe le parti affrontano il passato, in un’autoanalisi riflessiva.
La relazione della soggettività con la corporeità è rilanciata come strutturante, infatti è dalla percezione unitaria del corpo che deriva la prima percezione del sé, nella sua ricostruzione attraverso l’immagine riflessa
Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, XVI Congresso internazionale di psicoanalisi, Zurigo, luglio 1949.
È un viaggio meta-sensoriale che non può non invitare chi guarda a fare lo stesso.
Calvino vs. Clapin: due metà a confronto
La vicenda di Naufel e della sua mano porta alla mente un paragone con un romanzo breve che parla di divisione: il Visconte dimezzato (1952), di Italo Calvino. L’opera non ha bisogno di ulteriori presentazioni; come nella pellicola francese anche nel racconto si riflette sul tema di identità e di completezza, utilizzando l’espediente fiabesco con una piega macabra. Tanto il personaggio di Calvino quanto il ragazzo del film avvertono quella mancanza, entrambi sono letteralmente dimidiati.
La divisione genera la ricerca della metà perduta, che naturalmente viene catalizzata verso un happy ending (tipico di ogni fiaba): il ritorno a se stessi.
AS