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Il 2019 e il conflitto sociale tra cinema, televisione e videogioco

Il 2019 sta finendo, un altro anno se ne va. Tra pochissime ore saremo tutti a cena con parenti, amici e compagni ripetendo – speriamo non meccanicamente – la tradizione, a tratti inspiegabile, di salutare una convenzione temporale e promettere cose che non manterremo mai. Tipo iscriverci in palestra.
Probabilmente, tra una conversazione dal sapore lievemente nostalgico del ventennio di qualche parente boomer – che, beninteso, il ventennio non l’ha vissuto – vorrete giocarvi la carta artistica per cambiare discorso; oppure, più tardi, impressionare la vostra cotta con qualche chiacchiera in libertà tra cinema, televisione e videogioco. Ed ecco il perchè dovreste leggere questo pezzo.
“Babbo Natale è un turbocapitalista?”

Quello che ci lasciamo dietro è un periodo particolare. Il 2019 ha segnato la comparsa di molti temi in grado di condizionare gli anni a venire, su tutti quello ecologico; anche dal punto di vista della cronaca politica verrà ricordato, e non solo per l’ennesima litigata nel condominio Italia, ma anche e soprattutto per le elezioni inglesi, la nascita di una nuova Commissione Europea, la delicata situazione di Trump negli Stati Uniti. Ma c’è di più. Quest’anno ci ha dimostrato una cosa: è ancora possibile criticare la struttura della nostra società, e che l’arte – soprattutto visiva – è perfettamente in grado di farlo raggiungendo i propri interlocutori naturali. Non tanto e non solo limitandosi alla cosiddetta woke culture“, dall’utilità indubbia ma che spesso si sofferma troppo sulle sovrastrutture, bensì andando in profondità e analizzando la disparità che deriva da una sempre più disomogenea distribuzione della ricchezza, da un mondo gestito da e per chi detiene il potere economico – nell’accezione weberiana del termine – e dallo sfruttamento del prossimo.

Phillips, Joon-Ho ed Esmail non sarebbero d’accordo.

Se c’è qualcosa che gli americani hanno prodotto, nell’ultimo ventennio, è lo straniamento di fronte a questi temi e l’incapacità di trovare il vero punto di ogni discussione, complice anche l’aver scardinato scientemente qualsiasi residuo di coscienza di classe all’interno dei vari gruppi sociali in cui si divide la società civile.
Di nuovo: si è troppo spesso finiti a questionare solo di sovrastrutture.
Si prenda ad esempio l’
affaire Weinstein che, analizzato sotto la luce della “pura” dinamica di genere, riesce a spostare l’asse di lettura così tanto da dimenticarsi di bastonare un sistema che consente un livello di subordinazione del dipendente rispetto al datore di lavoro tanto profondo da raggiungere la sfera intima. L’insegnamento che dovremmo trarre è quello di appartenere oggi a una comunità progredita spesso solo virtualmente e che, invece, nei concreti rapporti interpersonali o lavorativi si dimostra primitiva, iniqua e disgustosa a tutti i livelli; costante è la violenza tra chi detiene i mezzi di produzione e chi, invece, è al soldo di questi ultimi, al di là di tutti i formali riconoscimenti borghesi sanciti nelle carte del globo terracqueo. Ridurre una problematica economica-sociale a una di genere – che senz’ombra di dubbio esiste, ma risulta essere corollario e non teorema – conduce unicamente ai risultati spesso aberranti e falsamente risolutivi tanto cari al mondo occidentale, a cui interessa che le fondamenta del palazzo non vengano colpite: per il resto, si discuta di ciò che si vuole. La fine degli anni dieci sembra aver realizzato – in modo più massiccio del recente passato – un segno di discontinuità: in altre parole, registi e game directors hanno iniziato a criticare il capitalismo.

Con il capitalismo non si ride.
Joker di Todd Phillips e Parasite di Bong Joon-Ho analizzano la questione da due punti di vista differenti, e cioè quello dell’individuo all’interno della formazione sociale e della formazione sociale stessa.
Il pagliaccio più famoso del mondo contemporaneo è – riprendendo e amplificando il messaggio di Alan Moore in The Killing Joke fuso con gli scorsesiani Re per una notte e Taxi Driver – posto come emblema dell’irrisolto complesso edipico del nascere povero, che nel mondo occidentale sta assumendo sempre più i crismi della colpa. L’abbattimento dei sistemi di welfare a favore delle privatizzazioni selvagge degli anni Ottanta ha prodotto solo altra atomizzazione e desolazione, facendo arretrare il complesso di reti comunicative tra esseri umani.
In questo contesto urbano si muove
Arthur Fleck, un fantasma tra i fantasmi, ognuno vestendo, rivestendo e svestendo la funzione dettata dal proprio reddito.
La differenza tra l’opera di Phillips e quella di Joon-Ho è nel grado di consapevolezza: la figura del Joker è raffigurata come quella di un uomo che, in parte per autodifesa e abbandono della società stessa, innesca un meccanismo abbondantemente fuori il proprio controllo e le proprie volontà, che dà valore all’omicidio come auto-affermazione di sé. Viene dipinto, nella parte finale, a tutti gli effetti come il Joker fumettistico e non Lenin vestito da clown: la conclusione stessa è abbastanza esemplificativa del fatto che la sua figura è quella di un individualista che agisce, e si nasconde, in uno schema sovraordinato.
Non viene ricondotto il tutto alla lotta di classe – che nel film sia chiaro esiste – visto che Fleck sarà assassino anche di gente che voleva semplicemente fotterlo; c’è distanza tra Donato Bilancia e un rivoluzionario, sembra urlarci il regista di Trafficanti“. Però più che un urlo in realtà è un sussurro: la linea che attraversa tutta la cinematografia di Scorsese, vero e proprio ghost director di questo film, quella della sanzione morale che colpisce il supposto antieroe, da Travis Bickle a Jordan Belfort, quella che giunge a specificare che tali personaggi non siano altro che megafoni per loro stessi, che le gioie violente hanno violenta fine, sembra sbiadire in un sorriso del Joker alla folla, sicuramente realizzato dal fatto di essere finalmente al centro dell’attenzione, ma che lascia lo spettatore nel dubbio se, effettivamente, fosse solo quello e non un razionale desiderio di sovvertire lo schema sociale.
La povertà puzza di merda

Dicevamo della consapevolezza. In Parasite emerge un protagonista collettivo, e cioè una famiglia sull’orlo del collasso, verso cui la lotteria sociale tanto cara a John Rawls non è stata affatto morbida. Sono loro al centro delle vicende e non il singolo individuo: la disperazione non è più dell’ “uno” abbandonato dalla comunità, ma dell’intera formazione sociale che è messa ai margini e costretta a vivere di espedienti. Trascorso il primo – agrodolce – atto, la pellicola si muove su binari sorprendentemente differenti e visualizzati, metaforicamente, dal bunker sotterraneo: pochi metri che separano l’alta borghesia e gli scarafaggi umani, destinati a non incrociarsi mai se non per brevi atti, riconosciuti dai rampolli della nuova classe dominante non più come uomini ma come fantasmi, deturpati nel corpo e nello spirito. La cornice si arricchisce anche della feroce lotta interclasse, degli ultimi che litigano per le briciole cadute dal tavolo dei primi, con l’intera pellicola che sembra sempre sul punto di rompere i propri schemi visivi rivelando come la bellissima casa in stile van der Rohe non sia nient’altro che un costante e gigantesco simbolismo che si propaga per poco più di due ore. E poi si sa che i poveri puzzano, come ci ha ricordato anni fa il dottor Casalino, a questo punto accreditato tra le maggiori ispirazioni di Joon-Ho.

Edward Norton e Willem Defoe in Motherless Brooklyn.
Rimanendo sempre in ambito cinematografico, Edward Norton con il suo Motherless Brooklynadattamento del romanzo di Jonathan Lethem ha rivelato il rapporto che esiste tra architettura, gestione degli spazi e sistema sociale.
Nascosto tra le pieghe – talvolta soporifere – noir e dalle stravaganze del protagonista, emerge un trattato decisamente interessante sui risvolti del progresso, incapace di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze dei tanti e la volontà di imprimere un tratto autoritariamente individualistico sul mondo che ci circonda. L’architettura e la visione urbana si trasformano da strumento utilitaristico a manifestazione d’intenti sociali, in cui i ricchi plasmano il futuro senza trovare alcun compromesso verso chi appartiene al presente; a essere superata è anche e soprattutto la legge intesa come comando imperativo centralizzato, legge che molto spesso risulta incapace di descrivere la realtà in mutamento e spinge chi detiene le risorse a rompere gli schemi istituzionali pur prevaricando i diritti di chi non ha eguale disponibilità. Il pensiero dominante è il pensiero della classe dominante.
Muovendoci un attimo su un territorio affine, incontriamo Mr. Robot. L’opera televisiva di Sam Esmail ha concluso in questo dicembre una lunghissima cavalcata, e l’ha fatto in maniera eccellente. Se dal punto di vista squisitamente artistico – verso cui in futuro dedicheremo un approfondimento specifico – è la serie più importante degli ultimi anni, Rami Malek e co. non hanno mai nascosto le inclinazioni pesantemente egualitarie insite nello show, show che parte proprio dalla necessità di redistribuire la ricchezza su scala globale ricalcando quanto già tracciato da Fight Club.
Decisamente interessanti risultano poi essere le succedanee riflessioni su
chi detenga effettivamente il controllo di determinati processi storici, e quanto le inclinazioni dei tanti vengano distorte per favorire l’emersione di interessi di una classe spesso non così distante da quella che si voleva abbattere, in modo non dissimile a quanto accaduto con l’eredità della Rivoluzione Francese, divenuta appannaggio unicamente della borghesia e le cui aspirazioni solidaristiche troveranno sbocco solo un secolo e mezzo dopo nelle varie carte costituzionali dei paesi europei sfuggiti al totalitarismo.
Spectrum-Vodka: una bevanda adatta a ogni classe.
Un’ultima curva prima del traguardo: The Outer Worlds. L’ultimo nato in casa Obsidian è un videogioco capace di muoversi abilmente sulla linea immaginaria che separa la commedia e il dramma più profondo, descrivendo una colonia spaziale totalmente gestita da imprese private e in cui i diritti dei lavoratori sono irrisori e irrisi.
Proseguendo nella narrazione, The Outer Worlds sembra assurgere sempre più alla qualifica di un “BioShock con il sorriso“: emergono affinità enormi nel messaggio e nella trattazione con l’opera di Levine, al punto da sovrapporvisi pur mantenendo la forma derivata da Fallout. Mentre l’ultracapitalismo e il liberismo di Rapture sono descritti come un delirio schizofrenico e paranoide dell’umanità, qui vengono presentati come una forma di assurda normalità che diventa addirittura routine, in una distopia dove l’alienazione marxista ha raggiunto dei picchi grotteschi.
Il messaggio di sottofondo di Fallout – e cioè che il mondo fosse finito ben prima che piovessero bombe – è lasciato esplodere in una scrittura sarcastica ma allo stesso tempo incisiva, ficcante e attuale.
 
AAS