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Tre motivi (più uno) per vedere Siccità, di Paolo Virzì

Siccità, in sala dal 29 settembre 2022, è uno di quei film che è difficile riuscire a scrollarsi di dosso, resta appiccicato nelle ossa e il suo pensiero accompagna lo spettatore nei giorni seguenti. La pellicola, presentata fuori concorso alla Biennale del Cinema di Venezia prima di approdare nei cinema italiani, segna il ritorno del regista livornese Paolo Virzì nella scena cinematografica della penisola.

A quattro anni dall’ultimo film, Virzì torna a raccontare l’Italia; lo fa utilizzando l’espediente della commedia, dal retrogusto dolceamaro e un’eco di distopia che risuona dal fondo. Dunque, ecco tre buoni motivi per dargli una chance.

Primo: è una commedia corale

Roma in Siccità

Per Siccità, Virzì adotta lo schema della coralità, nella quale dialogano dramma e commedia, grottesco e distopia. I personaggi si muovono, abbacinati, in una Roma post-apocalittica presa da un’arsura perenne che ha prosciugato il Tevere. Sulla capitale si è abbattuta una sciagura climatica: non piove da ben tre anni e la popolazione deve fare i conti con il razionamento dell’acqua.

Come se non bastasse, si sta insinuando, come gli scarafaggi che infestano le case, una strana malattia. Tutta la capitale appare malata: grazie all’utilizzo di un seppia e degli sguardi di fuga nelle riprese, Virzì segue le vicende dei suoi personaggi, apparentemente lontani, e le intreccia.

Secondo: ha un approccio neorealistico ma distopico

Valerio Mastandrea è Loris

In Siccità, il regista riprende un modus operandi a lui caro: l’approccio neorealistico. Come dimostrato in lavori precedenti, ad esempioOvosodo e La bella vita“, a Virzì non interessa riprendere lo spazio e l’uomo in una finzione di verosimiglianza. Quelle mostrate sono scene di vita reale, vita vissuta; i personaggi sono imperfetti, cattivi, fallaci e umani.

Anche nel caso di Siccità, Virzì sceglie un’ambientazione distopica e la applica proprio al neorealismo: non ci sono macchiette, maschere, non c’è spazio per la fantasia. Tutto, nei minimi dettagli, vuole mostrare le conseguenze di una situazione non tanto lontana da una realtà possibile. Le varie storie che si intrecciano non sono accomunate solamente dalla condizione di malattia e siccità, appunto.

Ciò che funge da filo conduttore sono le relazioni costruite tra i protagonisti che, a un certo punto, implodono. Non ci sono buoni e non ci sono cattivi, vittime e carnefici. Sono tutti alla mercé di un male più grande che non distingue. È una lotta tra miserabili, senza distinzione di ceto sociale, a chi sopravvive. C’è una speranza comune, segreta: la speranza che piova, così da tornare a respirare.

Terzo: ci parla (con forza) del cambiamento climatico…

Siccità verrà ricordato per la resa delle immagini di ciò che potrebbe essere, alle quali segue, inevitabilmente, una denuncia e un avvertimento. La prima, ovviamente, è rivolta a Roma: la lussureggiante e antica caput mundi viene presentata come una sorta di deserto urbano.

La forza del messaggio si deve anche e soprattutto alla fotografia di Luca Bigazzi, che decide di illuminare la Capitale in maniera accecante: appare gialla, malata, come se avesse una febbre perenne, la stessa che ha catturato i suoi abitanti. Iconica è la ricostruzione del Tevere prosciugato, sul cui letto si trovano spazzatura e antichi reperti storici. La situazione (non tanto lontana dalla realtà) è perturbante e ha in sé un significato premonitore: è un chiaro riferimento al cambiamento climatico.

Particolare della ricostruzione del Tevere

Questo ha modificato gli equilibri produttivi e sociali: pone l’attenzione al bene dell’acqua, vista come una risorsa da non sperperare lascivamente. Come per tracciare un inquietante parallelismo con la nostra realtà, Siccità è uscito in sala a chiusura di una delle estati più calde degli ultimi anni, seguita da un autunno altrettanto arido.

C’è un’altra immagine, nel film, sulla quale vale la pena di porre l’attenzione: è quella di Antonio (Silvio Orlando) che attraversa il Tevere e incontra due individui, riconducibili a Maria e Giuseppe, che camminano per il deserto. Il chiaro riferimento biblico è sconcertante: rappresenta una nuova natività, una sorta di anno zero. È un punto di non ritorno: le conseguenze della lunga estate arida hanno portato alla fine di un’era.

Una nuova natalità

Altro riferimento biblico, che carica il film di un significato profetico, sono le blatte che corrono di casa in casa: sembra quasi l’invasione delle cavallette in Egitto, una delle piaghe raccontata nell’Antico Testamento.

Virzì vuole mostrare come l’uomo, avendo sfruttato il pianeta, l’abbia distrutto e come questo, per par condicio, adesso si ribelli e decreti la sua fine, disgregando ogni costume sociale e riportando l’essere umano alla sua miseria.

…ma anche della pandemia

Siccità è stato concepito durante il primo lockdown. Ha avuto un ruolo fondamentale il contributo di Paolo Giordano che, nel 2020, ha pubblicato per Einaudi Nel contagio, un saggio critico sulle conseguenze della pandemia. Utilizzando un elemento diverso da quello del virus, i creatori hanno voluto raccontare l’evoluzione e le conseguenze di una piaga sulla nostra società e, quindi, mostrare la follia dell’umanità davanti all’imprevisto: dalle sale prese d’assalto al pronto soccorso all’accaparraggio sfrenato di mascherine e igienizzanti, passando per le proteste in piazza che somigliano tanto a quelle dei negazionisti.

Vi è anche una riflessione sul tema delle comunicazioni social e di quella frangia di influencer che ha sfruttato una situazione disperata per conquistarsi qualche follower in più. È un racconto certamente immaginario, ma che risuona nello spettatore come farebbe un déjà vu. È maledettamente familiare.

Paolo Virzì

Nonostante mostri chiaramente un passato recente e un futuro probabile, Siccità non vuole avere intento moraleggiante: al contrario, vuole raccontare la realtà dei fatti attraverso una narrazione di fantasia.

Lo spettatore non troverà consigli per prevenire il peggio ma uno specchio nel quale guardarsi. Virzì racconta un’umanità tragicamente unita dal disastro, nella quale se ognuno fa la sua parte, forse, c’è possibilità di redenzione.

I minuti finali sono accompagnati dalla celebre canzone di Mina Mi sei scoppiato dentro al cuore” che chiude i vari filoni narrativi. E qui emerge, forse, una possibilità, una speranza: scoppiare significa scoppiare tutti. Se si salva uno, ci salviamo tutti.

Siccità diventa anche un modo per far riflettere sul concetto di solidarietà umana. Non per contrastare il disastro, che è la conseguenza di un meccanismo di non ritorno, ma per ricominciare.

AS