Lo straniamento in Andrea Pazienza e altri artisti
Giù le mani dagli smartphone: straniamento non è il nuovo filtro per le stories di Instagram, bensì una tecnica letteraria formulata nella seconda decade del secolo scorso dalla scuola dei formalisti russi e, in maniera più approfondita dal critico Viktor Šklovskij nel suo saggio “L’arte come artificio” del 1917. Troppi paroloni da studiati? Vediamo allora di entrare nel dettaglio e di capirci qualcosa in più.
L’utilizzo di questa tecnica prevede una totale decostruzione di quella che chiameremo realtà convenzionale finalizzata a offrire al lettore una percezione così distorta da permettergli di focalizzarsi su spunti di riflessione e angolature del tutto inedite.
Come si riesce in tutto questo?
Il linguaggio – ne abbiamo parlato anche qui – è sicuramente uno degli strumenti stranianti più importanti. Un’eccellente padronanza della propria lingua, infatti, non solo arricchisce la narrazione ma dona all’autore una libertà così illimitata da sfiorare nell’onnipotenza.
Un altro aspetto fondamentale ai fini dello straniamento è invece dato dall’occhio dell’autore. Scegliere un punto di vista non consueto può ribaltare tutti i parametri della storia e dona al fruitore un percorso alternativo per arrivare al centro.
Si, ok, ma come si arriva a Pop-Eye da Viktor Šklovskij?
Perché questa invenzione prodigiosa non si è fermata alla letteratura del Novecento ma si è infilata in tutte le arterie del linguaggio artistico, divenendo addirittura cifra stilistica di autori importanti.
Nel corso di questo articolo faremo alcuni esempi di artisti, appartenenti a linguaggi diversi, che si sono avvalsi di questa tecnica e che hanno messo il loro talento a servizio del messaggio che volevano raccontare. Oppure straniare, fate voi.
Andrea Pazienza e l’underground del fumetto italiano
Nel 1980, tutti i pennarelli sovversivi dello stivale vivevano in un Frigidaire.
La rivista, nata dalle ceneri di Cannibale, si proponeva come strumento di rottura delle ideologie precostituite grazie all’insolito connubio tra fumetto e giornalismo d’assalto che, uniti ad uno sguardo attento anche su altri mondi – come quello della satira e della musica – rendevano la rivista un vero progetto comunicativo capace di offrire una reale e valida alternativa all’informazione precostituita e preconfezionata del tempo.
Tra nomi come Vincenzo Sparagna, Filippo Scòzzari e Stefano Tamburini, è sicuramente quello di Andrea Pazienza ad aver lasciato un marchio indelebile nella cultura alternativa italiana. Quella dell’artista originario di San Benedetto del Tronto, infatti, si può definire una rivoluzione nella rivoluzione già avvenuta con la nascita del fumetto underground.
Erano passati solo una manciata di anni da quando il fumetto si era svincolato dal cappio dell’intrattenimento d’evasione e aveva iniziato a prendere le sembianze di un vero e proprio linguaggio letterario. La realtà diveniva ora una sorta di Eldorado tutta da scoprire. Ma come riuscire a veicolare messaggi importanti e farsi cronisti del proprio tempo senza scadere nella banalità?
Nel variegato vocabolario di Andrea Pazienza la parola banalità, semplicemente, non esiste; e i suoi personaggi ne sono la conferma. L’idiosincrasia per tutto ciò che era dogma è un tratto distintivo di tutta la sua opera e permea ogni singolo frammento di ogni disegno, nella parte grafica come in quella verbale.
Da un punto di vista prettamente stilistico emerge una totale assenza di disciplina, che si manifesta in un tratto sempre diverso, con materiali sempre diversi. Ci si può imbattere in una tavola perfettamente rifinita senza avere il tempo di rimettere in asse la mascella cadente che subito ci si trova di fronte a un foglio a quadretti pieno di schizzetti e mostriciattoli antropomorfi.
Lo straniamento, nell’opera di Andrea Pazienza, sta tutto nella parte lessicale e lo fa a partire dagli argomenti trattati. Le sue storie sono sporche, sono violente e fanno male: parlano di prostituzione, di miseria umana che abbrutisce e di tossicodipendenza.
Vedere il mondo con le pupille allucinate di un fattone, però, non fa solo sorridere o assumere un’espressione di bigotto sdegno, ma in qualche modo ci costringe a decodificarlo in un modo diverso da come lo osserviamo noi. Adesso il pensiero di un tossico che gira per la città alla ricerca di una dose è tristemente entrato nell’ordinaria cronaca cittadina, ma negli anni ottanta era una vera e propria rivoluzione: un urlo in faccia a chi si ostinava a non voler vedere e si nascondeva dietro una verità accomodante.
È forse però con Gli Ultimi giorni di Pompeo che l’artista trova la sua massima espressione e lo fa nella comunione totale tra apparato grafico e impianto lessicale. La storia racconta le 27 ore che precedono la morte del protagonista e nel corso degli anni sono state inevitabili le teorie sul carattere fortemente autobiografico dell’opera.
In questo caso, l’elemento di straniamento è la comicità usata dall’autore per portare, quasi sadicamente, il lettore a sbattere la faccia contro il muro della disperazione che si cela tra le membra stanche di Pompeo.
Interrogarsi ora su quanto di Andrea ci sia in Pompeo è pressoché inutile. Quello che conta è che Paz, nella sua destabilizzante e funesta passione, ha preso tutte le pagine che parlavano di fumetto come strumento d’evasione dalla realtà, le ha usate per rollarsi una canna, e l’ha fumata in faccia a tutti i benpensanti.
Giovanni lindo Ferretti tra Emilia Paranoica ed Inquieto
Siamo nel 1982, e l’Italia che balla la musica dance ancora non sa che sta per arrivare un gruppo di “musica melodica emiliana” e di “punk filosovietico” e, se lo sa, forse non conosce neanche come si scrive la parola punk.
I CCCP-fedeli alla linea nascono a Berlino, dall’incontro tra Massimo Zamboni, futuro chitarrista, e Giovanni Lindo Ferretti. E già dalla visione di una delle prime apparizioni televisive del gruppo, si nota come il loro assetto meramente estetico cozzi completamente con la profondità e la violenza dei testi dei pezzi.
Nell’economia di quanto elaborato in precedenza, notiamo come la lettura cambi totalmente. Il carattere circense è l’elemento straniante del linguaggio comunicativo dell’intera formazione. Lo spettatore che si imbatte in uno spettacolo dei CCCP viene trasportato in una dimensione fatta di improbabili copricapi con le antenne a molla, acrobati atipici e danze sconnesse per poi essere sconquassato internamente da testi intimi, scanditi e quasi salmodiati da parole affilate, generate con il solo scopo di ferire dove si infila la voce di che le intona.
Questo gioco di incastri e paradossi non rappresenta solo una rivoluzione per il mondo musicale del tempo ma, come nel caso dei fumetti di Pazienza, crea una nuova declinazione della fruizione stessa. La penna di Ferretti prende gli stilemi del cantautorato, la poesia, la politica e il dolore e li plasma in un’unica e nuova orchestra distorta. Si potrebbe addirittura parlare di un dolce stil novo distopico – ma poi i fanatici della frase minima potrebbero risentirsi. Meglio rimanere nel seminato e parlare solo del caro e vecchio punk o, se proprio volete esagerare, di punk islam.
Senza voler entrare nel variegato emisfero del gusto personale, possiamo dire che Giovanni Lindo Ferretti è un personaggio iconico del suo tempo, e il suo stile è divenuto cifra stilistica per altri artisti della scena alternativa italiana. Ritirare fuori dal cilindro la questione su cosa possa averlo portato alle sue scelte di vita non è lo scopo di questo articolo e non succederà. Non ora, non qui.
Quello che sappiamo è che in uno dei suoi testi ha cantato “Se divento un megafono mi incepperò” e forse è stato proprio per questo che, ancora una volta, ha preferito un’uscita di scena disturbante a un becero e inevitabile sbiadimento commerciale.
Sorrentino sour: ¾ Sid Vicious e ¼ Pulcinella.
Superato un iniziale e comprensibile smarrimento nel trovare il nome di Paolo Sorrentino in questo bouquet lisergico, possiamo proseguire il nostro viaggio nel fantastico mondo dello straniamento.
Sebbene l’artista partenopeo sia lontano chilometri e chilometri di pellicola dalla sregolatezza dei due illustri signori raccontati nelle righe precedenti, nel suo cinema possiamo ritrovare elementi stranianti che rendono il suo tocco unico e destinato a suscitare emozioni estreme.
Nel suo ultimo film “È stata la mano di Dio” la componente autobiografica potrebbe essere considerata una sorta di elemento straniante per procura; l’elemento reale squarcia le dinamiche della storia e la rende diversa.
Quella di Sorrentino è si una penna affamata che seduce linguaggio, filosofia, il teatro e addirittura i tramonti ma è anche caratterizzata da una notevole cultura che permette all’artista di non smarrirsi nello sforzo di essere diverso e di rimanere focalizzato sulla vera storia che vuole raccontare.
L’elemento straniante non si ferma, quindi, a una soluzione letteraria o scenografica ma abbraccia l’intera produzione senza però sovrastare il nucleo narrativo che racchiude.
Paolo Sorrentino chiama al suo cospetto San Gennaro e o’ monaciello, imbelletta donne e ubriaca uomini. Scomoda Maradona dalla sua nuvoletta in Paradiso, ordina alla sua città di vestirsi da gran sera e mette in piazza tutte le debolezze umane. Lo fa con la sfrontatezza di chi sa che può farlo e con l’irriverenza di chi vuole farlo solo alle sue condizioni.
È pertanto l’intero impianto visivo a diventare elemento di straniamento, e porta lo spettatore alla scoperta del cuore pulsante della storia. Tra le arterie e i battiti di questo racconto c’è la vita di un ragazzo e la storia di come ha capito di doversi ricostruire dopo che il dolore lo aveva sgretolato dall’interno pur lasciandolo ancora biologicamente vivo.
La variabile umana
I tre autori che abbiamo raccontato appartengono a pianeti artistici differenti ma abbiamo anche visto come le soluzioni narrative riescono a tracciare linee che li accomunano.
C’è, però, un ultimo elemento che forse potremmo osare definire straniante: la sensibilità umana.
Ciò che spesso concorre a far rientrare un’opera nel calderone dei prodotti “di nicchia” è proprio una tendenza dilagante al fermarsi solo a quel che appare, senza grattare la superficie e provare ad andare nel profondo.
Ai tempi di Frigidaire qualcuno avrà definito deliranti le tavole di Paz, negli anni ’80 avranno scosso la testa con disappunto guardando l’acconciatura di Ferretti e qualcuno in questo momento starà scrivendo un commento al vetriolo su Sorrentino, definendolo un folle che ha fatto sul film su Maradona e invece poi non si vede. L’insensibilità è una pessima invenzione.
SL