Il decostruzionismo supereroistico inizia e finisce con Miracleman
Non ce la fa.
L’angoscia cresce nel lettore, scandita dal tempo di un tamburo in un rito tribale. Gli stessi che poi risuoneranno più tardi durante la corsa disperata di Evelyn Cream.
Non ce la fa.
Le pagine scorrono veloci tra le dita, curiose di scoprire il fato del buono, mentre quello del fumetto supereroistico sta per essere cambiato per sempre. Siamo all’inizio degli anni Ottanta, dentro e fuori dall’albo il cui nome è Marvelman: solo successivamente diventerà Miracleman. Ai testi c’è Alan Moore, disegna Gary Leach e le vignette a cui stiamo facendo riferimento con quel “non farcela” riguardano il primissimo scontro tra l’Eroe e il Drago, tra Miracleman e Kid Miracleman.
In effetti, che la musica fosse cambiata è chiaro dalle dinamiche del duello, ma è forse il caso di aggiungere un po’ di contesto e solo poi premere il piede sull’acceleratore: banalmente, si potrebbe dire che prima di Watchmen, c’è stato Miracleman.
Nel secondo dopoguerra, prima ancora della nascita della Marvel Comics, due case editrici si contendono il trono dei tizi in calzamaglia negli Stati Uniti: DC Comics e Fawcett Comics. La prima ha Superman, la seconda Capitan Marvel – oggi conosciuto anche come Shazam. La DC e la Fawcett entrano in una rilevante battaglia legale, con la prima che accusa la seconda di plagio; sta di fatto che Capitan Marvel vende molto bene nel Regno Unito e il contenzioso incide sulle pubblicazioni di questi nella perfida Albione. L’editore britannico di Capitan Marvel allora ha un’idea geniale: “facciamo il nostro Capitan Marvel!”. Ed è così che nasce Marvelman. Non c’è più Billy Bates ma Mike Moran; è assente la Marvel Family americana ma è presente un equivalente trio composto da Marvelman, Kid e Young; manca la catchphrase Shazam, sostituita da Kimota; Marvelman è un lontano figlio dell’atomo, non di una magia dai contorni più o meno esoterici.
Il Marvelman di Mick Anglo.
Insomma, Marvelman è la versione aggiornata e furbetta di un eroe che non può più essere pubblicato in patria, la cui scrittura viene affidata a Mick Anglo. La formula funziona per quasi una decina d’anni, in piena Golden Age: Marvelman non è né più né meno che un’operazione commerciale perfettamente figlia del suo tempo, che trasuda ingenuità da tutti i pori.
Un tempo in cui al protagonista veniva richiesto di menare un po’ le mani all’interno di trame più o meno sbrigative, di dare la caccia ai rossi, di stimolare qualche fantasia perversa con dei piccoli messaggi subliminali (che il Bardo di Northampton non mancherà di dileggiare in seguito) e di concludere ogni appuntamento con un fenomenale gancio a un cattivo da operetta, il malvagio Gargunza su tutti. C’era nero e bianco, giusto e sbagliato, personaggi tagliati con l’accetta e mai un dubbio: splendeva il sole.
Nel 1982 un giovane Alan Moore recupera Marvelman – da ora in poi Miracleman – per farne qualcosa di diverso. Di nuovo. Di oscuro e intrigante. Iniziando un discorso, quello revisionista e decostruzionista, per poi chiuderlo ricostruendo a sua volta: calerà la notte, prima dell’alba.
Uroboro.
[DISCLAIMER: SPOILER]
Dopo questa doverosa ma didascalica premessa, torniamo al non farcela e al duello. La bravura dello Scrittore Originale è nel prendere a schiaffi il fruitore, che pure forse ha iniziato a intuire qualcosina, capendo di trovarsi di fronte a un fumetto particolare. Certo è che il lettore degli anni Ottanta non è propriamente uno sprovveduto: noi moderni abbiamo una particolare difficoltà nel concepire la storia non come un lento susseguirsi di evoluzioni date da interazioni successive, ma come eventi traumatici che si susseguono senza soluzione di continuità. Non è così; ma è legittimo dubitare che fosse completamente preparato a questo. Certo è che il fumetto supereroistico è già cambiato, abbandonando la fanciullezza della già citata Golden per attraversare le fasi della Silver e della Bronze Age, introducendo temi sociali e percorrendo una via di maturità.
La meravigliosa cover di Totino Tedesco.
Frank Miller già sta scrivendo il suo Daredevil, Claremont porta avanti un certo discorso con gli X-Men, O’Neil e Adams lasciano intravedere qualche tema sociale e un tono più composto nel loro Batman. Manca però il punto di rottura: in altri termini esiste una riflessione riguardante il mondo nel quale si muovono i supereroi ma è assente la disamina del ruolo del supereroe nel mondo stesso. Insomma, manca Miracleman.
Mike Moran e Johnny Bates conversano sul tetto del grattacielo di proprietà di quest’ultimo. Tutto sembra procedere per il meglio, ma il biondo giornalista è animato da un dubbio: e se, dopo l’incidente degli anni Sessanta, Johnny non fosse mai tornato umano? Se fosse rimasto sempre in una forma superumana?
Il sospetto si rivelerà fondato, avviando uno scontro tra i due.
La maestria di Alan Moore, coadiuvato dal tocco morbido e moderno di Leach, è nella sequenza immediatamente successiva. Scoperto l’inganno del suo ex pupillo, Mike Moran abbassa lo sguardo e sussurra la sua parolina magica. L’intera vignetta sembra sottolineare la sua rassegnazione e la sua stanchezza, come quella di un impiegato a cui – dopo un turno intenso di lavoro – spetta sistemare le ultime pratiche prima di tornare a casa. E, perché no, di delusione per la corruzione ormai imperante nel corpo del giovane Bates; urla ineluttabilità, nel dover ridimensionare a schiaffoni una mela caduta troppo lontana dall’albero. L’Eroe, indossato il suo costumino sgargiante e il suo – stavolta metaforico – mantello cremisi, è pronto a suonarle al fesso che gli si para innanzi.
Ma Miracleman è rimasto agli anni Cinquanta, ai “pow!” e agli “smack!” onomatopeici stampati sui volti del malcapitato di turno, al vulgar display of power con cui si metteva la parola fine a ogni scontro per pura volontà o tremenda applicazione del protagonista. E anche il lettore – che pure agli anni Cinquanta fermo non è rimasto, come abbiamo avuto modo di vedere – tutto sommato se lo aspetta.
FIG. 1 – incubo
Succede, invece, che Miracleman viene sconfitto. Anzi, viene umiliato, deriso, calpestato. Kid Miracleman gioca con lui come il gatto con il topo: lo pesta come uno scarafaggio.
Non ce la fa.
Ecco spiegato il terrore di chi legge, che poi è anche il terrore dell’Eroe. Miracleman è tutto ciò che separa la società degli Uomini dal Male, il protettore della civiltà per sua vocazione, l’unica difesa di quei sacchetti di carne che Bates ha già dimostrato di macellare con un semplice tocco. Ma, come quest’ultimo sottolinea, è rimasto per più tempo superuomo: è più forte, più spietato, più risoluto. Insomma, è finita.
Eppure, nel momento stesso della vittoria dopo una battaglia totalmente impari, Kid Miracleman si tradisce. Pronuncia la sua parola chiave – Miracleman, appunto – tornando il piccolo e umano Bates dopo decenni.
Alan Moore, dopo aver letteralmente fatto carta straccia di tutte le strutture che si sono viste in precedenza su questo genere di carta stampata, recupera (fig.2) un topos classico del genere: l’antieroe che, tutto sommato, si frega con le proprie mani. Un errore da dilettante, inimmaginabile, pacchiano e che fa tornare Miracleman a essere semplicemente un fumetto di supertizi che si menano: il che, in poche parole, descrive la grandezza dell’Opera attraverso la banalità.
Quella di Moore è una delicata operazione di taglia e cuci, di pesi e contrappesi, di check and balances: lo scrittore inglese sembra quasi prevedere gli eccessi, le tamarrate, la retorica e il degrado del periodo successivo al decostruzionismo stesso, la sconfitta del fantastico e dell’amore per un certo tipo di narrazione di cui lui si è comunque spesso considerato un inguaribile nostalgico (cfr con “Whatever Happened to the Man of Tomorrow?”, DC Comics, 1986).
FIG. 2 – Kid Miracleman si fa fregare con un cliché.
In effetti, lo stesso Kid Miracleman è un avversario ante-litteram: logorato dal potere stesso, esplode in maniera totalmente anticlimatica e archetipica, cattivo perché cattivo. Eppure, nel contesto di divinità e demoni, di angeli e draghi, quella sua malignità è perfettamente equilibrata ed equilibrante: è l’Abisso che scruta l’Eroe – volendo citare proprio Nietzsche, di cui Miracleman è intriso – che lo tenta passo dopo passo, come Gesù Cristo nel deserto è tentato da Satana. È uno specchio, è l’altro sé ma anche l’altro-da-se: Miracleman è una storia di padri e di figli, dopotutto, e di trasmissione di valori.
Ma Alan Moore non smetterà di stupire: la componente psicologica e motivazionale verrà recuperata nella seconda trasformazione di Kid Miracleman, per sfuggire da una violenza in un orfanotrofio. Utilizzando, ancora una volta lo strumento degradante dello stupro, un altro topos che diventerà ricorrente nella letteratura di Moore: basti pensare a Spettro di Seta e il Comico nel già citato Watchmen, opponendoli alla funzione dell’orgia e della fusione corporea dei Warpsmith, con la condivisione della carne che non diventa brutalità ma unicità consensuale per ricordare i defunti.
Il senso di dejavù può essere provato anche nei confronti di Gargunza, tutto sommato un banale cercatore dell’immortalità rappresentata dall’utero fecondo di Liz Moran, gentile consorte di Mike. Ma a fare la differenza è il modo in cui è realizzato questo scopo, costruendone il racconto con i cardini dell’ultraviolenza e della ferocia bestiale, in una specie di New French Extremity con i mutandoni.
Il punto è nel come e nel perché, non nel cosa.
Divinità e creatori. L’omaggio a Blade Runner è evidente.
L’intera struttura di Miracleman sembra pertanto assumere una forma circolare, un eterno ritorno dell’uguale in cui ai personaggi viene consegnato un destino dapprima terreno e materialistico e poi ne viene cantato il lirismo dell’ascesa. Ogni cosa è creata, distrutta e creata ancora; Alan Moore assurge al ruolo di un Demiurgo che tutto fa e tutto disfa per chiudere esattamente dove avesse aperto e aprire esattamente dove avesse chiuso. Un gioco dantesco in tre atti – “Il sogno di un volo” come l’Inferno, “La sindrome del re rosso” come il Purgatorio, “Olimpo” come il Paradiso – in cui la lente di ingrandimento viene allargata a mano a mano che procede il racconto, in maniera antitetica ai restringimenti delle pellicole in Blow Up (Antonioni, 1966); ma come Blow Up si prolunga oltre se stesso, confondendo il reale con l’immaginario e con cui condivide la struttura ad anello.
Liz Moran e le nuove frontiere visive.
Maledizione Liz, stai ridendo della mia vita!
Miracleman, Capitolo Uno, Il Sogno di un Volo.
Il rapporto tra Mike e Liz Moran diventa quasi paradigma del rapporto tra Autore e Lettore – in maiuscolo perché tipizzati e categorizzati – con la sospensione dell’incredulità che diventa centrale nella riflessione. Liz rifiuta inizialmente la dimensione del fantastico: la schernisce, la ridimensiona, la trasforma in un delirio adolescenziale. Ma successivamente la accetta: si innamora del fantastico, fa sesso con il fantastico, partorisce il fantastico – mettendo al mondo Winter. Eppure, al termine della cavalcata trionfale del suo dio/marito, la ostracizzerà definitivamente rifiutando la proposta di diventare parte del di lui Pantheon. Come il Lettore, vuole rimanere ancorata a una dimensione fattuale, una dimensione che non la tradisce, che può comprendere appieno e a cui desidera ritornare dopo una montagna russa emotiva di scienziati pazzi e novelli messia.
A volte mi stupisco del fatto che abbia respinto la mia offerta; mi stupisco che qualcuno possa non desiderare di essere perfetto in un mondo perfetto. A volte mi stupisco che questo mi preoccupi. E a volte… a volte, mi stupisco e basta.
Miracleman, capitolo Sedici, Olimpo.
Liz Moran rappresenta perfettamente quella tensione – descritta dal pensiero di Blaize Pascal – del trovarsi a metà strada tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra il miserabile e l’altissimo: pertanto non può capire. Non può capire quell’Uno Erotico, di radice vagamente Plotiniana, in cui si avvolgono i corpi dei Warspmith e di Miracleman e Miraclewoman, che esplodono in un orgasmo al di sopra di una Londra rapita e capace addirittura di riservare loro addirittura un applauso; non può comprendere una figlia che a quattro anni abbia già rapporti sessuali, sebbene mediati, in quanto notevolmente più avanti della propria biologia; semplicemente, non può. Allo stesso tempo, però, non è capita dal suo dio, tessitore, padre, marito. Su questo concetto tornerà anche Gaiman, nel suo ciclo ad oggi senza fine: l’umanità non anela la perfezione, non desidera la Santità, vuole semplicemente essere costantemente mossa verso di essa.
FIGG. 3-4 – parallelismi e inquadrature…
Graficamente, le soluzioni adottate per giocare con incredulità, immedesimazione e distacco sono molteplici. Le più violente sono rappresentate dai lavori di Austen (La sindrome del re rosso, vol. 2) e di Totleben (Olimpo, vol. 3) di cui è possibile tracciare un parallelismo.
Nel primo caso (fig. 3), viene adottata una visuale in prima persona. Gli autori pongono il fruitore completamente nei panni di un Miracleman adirato. Gli fanno vestire i panni del dio incollerito da Antico Testamento, pronto a punire gli uomini di cattiva fede. Anticipano un tipo di struttura molto utilizzata nel linguaggio videoludico e che serve a rendere totale l’immersività: il fantastico e il reale si uniscono nell’operazione di salvataggio di Liz, e cioè del lettore stesso.
Nel secondo caso (fig. 4), la visuale si muove tra primi piani e prima persona per poi spostarsi leggermente un passo indietro. Si crea un gioco di simmetrie tra Mike Moran e Miracleman, ora totalmente soli. L’uscita di scena di Liz segna anche l’abbandono della realtà e l’esplosione del fantastico, in cui il lettore non può più totalmente identificarsi. Rimanendo, dunque, lontano a osservare la scena.
Non è un caso che di lì in poi sarà lo stesso Mike Moran a morire, cedendo il passo alla forma di Miracleman per l’eternità. L’uomo si fa da parte, così iniziando il tempo degli dei.
Unione.
Miracleman sa anche essere profondamente reazionario, spesso con un tono di amaro sarcasmo. Alto, biondo, intangibile, circondato da un’aureola, rappresenta visivamente la razza ariana. Gli un tempo nazisti servitori di Gargunza lo salutano, prima di venire sopraffatti, in un modo tra l’entusiasta e il terrorizzato.
L’intera sequenza – sopra citata – del salvataggio di Liz Moran è quasi sovrapponibile alle note della Nona Sinfonia di Beethoven, in una specie di cura Ludovico applicata al lettore, il quale vede sovrapporsi ultraviolenza e sacralità; non per niente, in Arancia Meccanica (Kubrick, 1971) l’Inno alla Gioia è utilizzato anche in concomitanza con le parate naziste.
Lo stesso Miracleman – una volta iniziata a modellare l’umanità a Sua immagine e somiglianza – porterà avanti un programma di eugenetica volto a ibridare e trasformare la razza umana, rendendola definitivamente migliore e rifugiandosi in un palazzo che sembra uscito dalla matita di Albert Speer.
Ugualmente, il personaggio di Evelyn Cream e la sua disperata corsa, dettata solo dall’istinto e non dalla ragione, sembra rifarsi a una concezione genetica della persona. Cream vive nel terrore di quella corsa per la vita ma è – allo stesso tempo – quasi attratto da essa, anche lui rappresentando due uomini nello stesso corpo: il tirapiedi di una maggioranza bianca ma anche, semplicemente, un nero. E la riflessione che si pone è squisitamente razziale.
Incubi.
Oltre.
You can’t take it with yer
Dancing for your pleasure
You are not to blame for
Bittersweet distractors
Dare not speak its name
Dedicated to all human beings
Because we separate
Like ripples on a blank shore
In rainbows
Because we separate
Like ripples on a blank shore
Reckoner
Take me with yer
Dedicated to all human beings
Reckoner, Radiohead, In Rainbows (2007).
La citazione questa volta non è di Miracleman ma di Reckoner, una splendida canzone inserita nell’album In Rainbows dei Radiohead. L’oggetto del brano è il Giudizio Universale, un canto quasi messianico che descrive e comunica il rapporto tra il Divino e l’Umano nel momento del Passaggio. La componente musicale appartiene certamente al mondo del dionisiaco, e Miracleman ne rappresenta un fulgido esempio. La danza (fig. 5) è del dio – non più eroe – nel suo palazzo di vetro, in un momento distinto ma infinito nel tempo. Cristallizzato ed eterno. Riempie lo spazio, mentre si consuma l’elegia e si fondono mito e realtà.
Il lettore si trova ben presto nella posizione di colui che sa ma non può rivelare: conosce i fatti, ma non ha possibilità di interferire con essi. Assiste a una evangelizzazione degli accadimenti, che da terreni vengono convertiti in poesia da integralisti o scettici, e in cui la verità sfuma. Nel progetto Zarathustra il fumetto diventava la base per una finta realtà, la fantasia creava ciò che si supponeva fosse vero: ugualmente, nel mondo post-divino è il racconto ad essere al centro dell’universo. La battaglia di Londra è romanzata, dando così origine alla leggenda.
FIG. 5 Miracleman danza.
Le linee sinuose di John Totleben concludono così un racconto che apre e allo stesso momento chiude il discorso revisionista. Miracleman è costruzione, decostruzione, riflessione sul rapporto tra chi scrive e chi legge – nonché sul fumetto stesso – esoterismo, tensione. Gli dei, Warspmith e Qys, sono imbrigliati nella stessa guerra fredda che attanaglia la piccola Terra.
Tutto è uguale, tutto è ripetuto e continuo, essenziale e superfluo al tempo stesso.
Alan Moore, alla fine, ce l’ha fatta.
AAS