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Contro la sostenibilità neoliberale

Dunque siamo partiti con questa pazza idea degli editoriali, e tocca a me scrivere il primo: a quanto pare, quando c’è una novità, fungere da apripista spetta a chi coordina l’intero sito. Questa è stata la calda raccomandazione di chi, al mio fianco, manda avanti la baracca; a nulla è servito appellarmi alla forma morbida e, a tratti, confusa assunta dalla direzione di Pop-Eye.
È un mio fardello e, in effetti, è giusto che lo sia. È una questione di sostenibilità.

Ora, la prima notizia è che su Pop-Eye ci saranno gli editoriali (e questo forse un po’ si capiva). Sono pezzi diversi da quelli che si possono trovare sul portale, impersonali: si tratta, appunto, di articoli di opinione in prima persona – che dà il nome alla rubrica – e in cui, oltre a raccontare, proveremo a raccontarci. Ciò comporta, per forza di cose, uscire da una safe zone ormai triennale, asettica. Spinge a rimettersi in gioco.

Dopo un certo momento di naturale spaesamento, ho compreso le potenzialità del nuovo format, sicuramente più intimista ma capace di fornire dei contributi dal respiro piuttosto ampio. E così ho accarezzato l’idea di collegare un tema di attualità che considero urgente – le elezioni settembrine – con la natura stessa del mio figlio prediletto, questo portale che ho contribuito a fondare nell’ormai lontano 2019. Un tempo estremamente diverso da quello attuale, dove è impossibile parlare di cultura pop senza notare gli stravolgimenti, ormai quotidiani, che vanno dalla pandemia di COVID-19 ai recenti risvolti geopolitici, problema energetico incluso. Discutere di forme d’arte senza collegarsi al presente è già di per sé un errore; e sarebbe un errore doppio farlo oggi.

Le elezioni del 25 settembre ci consegneranno, molto probabilmente, il Parlamento più a destra della storia della Repubblica Italiana. Il che è curioso perché su Twitter, nel frattempo, si discute amabilmente di comunismi e pericoli rossi nelle bolle liberali, mentre a sinistra del Partito Democratico non cresce più l’erba da un pezzo e il Paese potrebbe finire in mano a chi sfoggia la fiamma MSI nel suo logo. La rappresentanza per reddito non è mai stata così infinitesimale, e il discorso è solamente interno alle destre; per l’esattezza, tra la destra conservatrice/sociale e un centrodestra che si lava di progressismo, pur non avendo prodotto praticamente nulla di rilevante in un decennio da forza di governo (con la breve eccezione dell’esecutivo Conte I).

Il Multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco.

Le ragioni di questo fallimento epocale sono ben descritte da un libro che ho avuto il piacere di leggere quest’estate, “Contro la sinistra neoliberale”, scritto da Sahra Wagenknecht. La buona Sahra è stata a capo dell’opposizione per un paio d’anni al tempo della Merkel, nonché leader di Die Linke, la riedizione per famiglie del Partito Comunista Tedesco dopo il KPD-Urteil, che lo mise al bando nel 1956. È pure figlia di un immigrato iraniano e ha, giusto per capire il contesto, passato parte della sua infanzia e adolescenza nella fu DDR. Insomma, non è comunista così, ma è comunista così (da leggere con svariate inflessioni sulla vocale finale, à là Mario Brega).

Bene. Pur non essendo completamente d’accordo con la totalità della sua analisi, credo che quest’ultima tocchi dei punti chiave nello spostamento a destra di parte dell’elettorato. Il più importante, a mio avviso, è nell’aver abbracciato – da parte della sinistra parlamentare – moltissime categorie tipiche del neoliberismo degli anni Novanta e Duemila, a partire dal concetto di Terza Via (Clinton, Blair, Schröder). 

Per farla breve, i partiti che oggi si presentano alle elezioni nell’area autodefinitasi sinistra progressista, in realtà ereditano un pensiero economico lontanissimo dalla sinistra tradizionale, e imperniato solo sull’estensione dei diritti civili e sulla forza dirompente del linguaggio per scovare e scardinare le discriminazioni, mantenendo inalterata – o quasi – la considerazione del libero mercato e della globalizzazione, soprattutto rispetto alle destre. Avremmo, di conseguenza, abbandonato la via europea, per spostarci su narrazioni di stampo anglosassone.
Alla pancia degli ultimi è rimasta a parlare solo la destra sociale, che ha riempito pericolosamente quello spazio elettorale.

Scrive quindi così Sahra Wagenknecht, attaccando una politica unicamente basata sulle teorie identitarie (e che quindi spazia dall’intersezionalità alla Critical Race Theory) e riportando alla luce una dottrina più puramente marxista:

Se le sinistre tradizionali avevano la missione di incoraggiare l’individuo a definire la propria identità soprattutto mediante la sua posizione sociale (…), la teoria identitaria vede la determinazione principale dell’identità individuale in caratteristiche che esistono esternamente e indipendentemente dalla sua vita sociale. Ciò provoca la spaccatura di alcuni gruppi sociali, una spaccatura che ha conseguenze fatali (…). Quando il personale di un’azienda si organizza per prima cosa in base all’etnia o al colore della pelle anziché opporsi compatto al piano di tagli portato avanti dalla dirigenza, ha già perso.

Sahra Wagenknecht, Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, pag 132.

A questo punto, vi chiederete cosa c’entri questo con Pop-Eye. A parte consigliarvi il libro, ché è lettura piacevole pure se siete – come me – meno caustici perfino nella sintesi che l’autrice opera nella seconda parte, penso che questo discorso vada oltre le aule parlamentari e le cabine elettorali ma si sia esteso alla società tutta, in ogni sua declinazione. Abbiamo, cioè, interiorizzato così tanto certe strutture neoliberali al punto di utilizzarle come argomenti in opposizione. Per l’esattezza, tutto ciò diventa evidente quando si parla di sostenibilità di certi progetti, in cui Pop-Eye potrebbe rientrare.

Per sostenibilità, banalmente, s’intende restituire un corrispettivo in denaro in virtù dei contributi prodotti: se non lo si fa, si sta rovinando indelebilmente il mercato. È quanto è emerso, ad esempio, in questa live di Gameromancer, andata in onda qualche mese fa. Dunque, in tale gioco al ribasso, è preferibile scrivere di cosplayer a pochi spicci piuttosto che produrre articoli gratuiti, dal tema e dalle caratteristiche libere, per dei portali che un profitto non lo generano. 

Adesso capiamoci bene. Essere pagati per qualcosa che si scrive, per un content, per un’attività intellettuale, dovrebbe essere naturale ed è impossibile non essere d’accordo. Utilizzare questa considerazione, deformandola e retoricizzandola, per sostenere o preferire un sistema attualmente devastato come quello dell’editoria online, è semplicemente un atto criminale. Considerazioni di questo tipo sono sicuramente comprensibili se provenienti da chi, da questa spirale negativa di sfruttamento, estrae un profitto: d’altronde si tratta di difendere un certo status quo. Difficilmente sono condivisibili, per non dire accettabili, da persone che vogliono riallacciarsi a un certo milieu di area marxista o perfino socialdemocratica: si tratterebbe di un grosso cortocircuito. 

Il tema mi sta parecchio a cuore, e ho già avuto modo di accennarlo in un mio pezzo precedente, non riferito a Pop-Eye. In un mondo dove si vive di accattonaggio sulla pelle dell’altro, accusare certe realtà – e stavolta mi permetto di farlo al plurale – di schiavitù, diventa un gioco morboso. E attenzione, non si tratta di benaltrismo: non è un “c’è di peggio” e basta. Si tratta di considerare non solo ogni attività umana come non squisitamente indirizzata, in primis, a ottenere un profitto, e poi di riferirsi al concetto di dignità. E proprio questo parametro, un tempo fondamentale alla dottrina di sinistra – tanto da essere codificato nelle costituzioni tra cui quella italiana all’articolo due – mi porta a rigettare qualsiasi preferenza per un modello rotto, per il caporalato delle news. 

Sostenibile passione.

Certo, si può controbattere dicendo che scrivere senza ricevere un compenso sia da privilegiati, che può accadere solo se le fonti di sostentamento sono altre; epperò vorrei rispondere pure a questo, facendo notare che se non si insiste a cercare un modello differente, da questa proiezione verso il fondo non si esce. Che se alcune realtà vanno bene, innanzitutto si possono generare utili da distribuire internamente a esse; e poi, successivamente, far notare ai grandi del settore che una domanda esiste, e l’esaurimento della stessa vada ben compensato. Perciò, si dovrebbe incoraggiare un collettivo di persone che cerca di edificare altro; non certo, come accade, scoraggiarlo e farlo apparire come parte del problema. Questa è una ricostruzione che rifiuto e mi pare più orientata al gatekeeping (cioè: di questa roba voglio parlare solo io!) che a un’analisi in buona fede.

Poi, diciamocela tutta: cosa produrrebbe Pop-Eye che mina questo sacrosanto mercato, fondato su approfondimenti spiccioli, news, hype culture? Un portale che si muove tra l’infotainment e la critica, con spesso articoli chilometrici. Se esiste una fetta di persone disposta a leggerli, la sta costruendo da sé; ma è una fetta che, dati alla mano, non interessa ai pesci grossi del settore. Questo fa venir meno la sensatezza di ogni ricostruzione alternativa, che dunque appare come capziosa e, in definitiva, inutile.

Contro la sostenibilità neoliberale, dicevo. Davvero: basta con questa roba. È tempo di porre un argine a certe considerazioni striscianti, a un processo osmotico secondo cui, invece di proporre insieme delle alternative, addirittura utilizziamo l’impalcatura esistente per screditare chi dedica tempo ed energia a qualcosa perché ci crede.
Altrimenti, parafrasando Sahra Wagenknecht, abbiamo già perso.

AAS