Per anni, ogni volta che è balzato agli occhi il nome di Sylvia Plath, la mente virava solo verso una cosa, una cosa soltanto: la scrittrice che si è ammazzata mettendo la testa nel forno.
Sylvia Plath, Aziz Ansari ed il fallimento esorcizzato
Con il passare del tempo, il titolo de “La campana di vetro“ – primo ed unico romanzo mai scritto dalla Plath – è scivolato nel retro della testa ed è rimasto lì a fermentare qualche mese; finché, un giorno, non è comparso su uno scaffale di una libreria. Era l’unica copia presente, non perché particolarmente venduto ma perché, semplicemente, abbandonato nel posto sbagliato da qualche potenziale acquirente rinunciatario: era quindi giunto il momento di acquistarlo, per poi lasciarlo stipato da qualche parte e ritrovarlo dal nulla quest’estate.
Quindi due viaggi di quattro ore in treno ed era già volato via.
Sylvia Plath, una donna vissuta sessant’anni fa, è ancora capace di provocare una riflessione sulla condizione di una persona-abbastanza-giovane nel 2020. E questo non è banale.
Diamo un po’ di contesto: Sylvia Plath nasce a Boston nel 1932 da Otto Plath, un entomologo particolarmente interessato allo studio delle api – che muore quando Sylvia ha otto anni e al quale l’autrice dedicherà una poesia: Daddy – e Aurelia Schober, ex allieva di Otto.
Sylvia si dimostra da subito una bambina dall’intelligenza spiccata ed inizia a scrivere molto presto. Nel ’53, grazie ad un suo racconto, vince un soggiorno a New York come guest editor per una rivista femminile, Madmoiselle. Nello stesso anno, probabilmente complice l’ipocrisia che respira durante lo stage newyorkese, la Plath ha il primo episodio depressivo grave trattato con elettroshock somministrato senza anestesia che la porterà, in seguito, al suo primo tentativo di suicidio.
Nonostante questo, nel 1954 torna al college e si laurea con una tesi sul tema del doppio in Dostoevskij; due anni dopo, ad una festa, incontra il poeta Ted Hughes nel quale trova uno spirito affine e ne resta folgorata: quattro mesi dopo sono marito e moglie. La Plath intraprende brevemente la strada dell’insegnamento ma la lascia dopo pochissimo per dedicarsi completamente alla scrittura – complice anche la tensione e la frustrazione che la vicinanza a Hughes, poeta già piuttosto affermato ed estremamente prolifico, le provoca.
Gli anni dal 1959 al 1962 sono ricchi di avvenimenti: Sylvia pubblica la sua prima raccolta di poesie, Il colosso; la coppia si trasferisce a Londra, dove nasce Frieda, la loro prima figlia, e l’anno successivo nel Devon, dove Sylvia resta nuovamente incinta: nasce Nicholas. Il ruolo di madre e le incombenze domestiche le drenano le energie per scrivere e, con il marito spesso lontano da casa, è sempre più sola. La situazione precipita nell’estate del ’62 quando Sylvia scopre che Hughes sta portando avanti una relazione extraconiugale; le crisi isteriche e le violente scenate di gelosia culminano nella separazione dei due. Sylvia Plath torna a vivere a Londra con i figli e qui, liberata dalla prigione di una vita coniugale così rigida ed avvilente, è attraversata da un grande impulso creativo che la porta a scrivere tutte le poesie che comporranno la raccolta Ariel.
Nel gennaio del ’63, inoltre, La campana di vetro esce in Inghilterra. Poco meno di un mese dopo, in una mattina di febbraio, Sylvia si sveglia e prepara la colazione ai figli, apre la finestra della loro cameretta e ne sigilla la porta, scrive una nota per il vicino, un biglietto nel quale gli chiede di chiamare il dottore, la lascia sul tavolo della cucina, apre le manopole del gas e mette la testa nel forno. Sylvia Plath muore l’undici febbraio del 1963, aveva trent’anni.
La campana di vetro ha dalle forti connotazioni autobiografiche, raccontando dell’estate nella quale la Plath ha tentato per la prima volta il suicidio, nell’inverno dei suoi 21 anni: pur non essendo una lettura allegra – al contrario, è capace di provocare un certo senso di angoscia – possiede un passaggio al suo interno divenuto celebre, probabilmente quello maggiormente riportato quando si parla del libro:
Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché uno dopo l’altro si spiaccicarono a terra ai miei piedi.
Da questo estratto emerge una visione manichea della vita nella quale non c’è spazio per gli sbagli e non c’è spazio per i ripensamenti: bisogna sapere cosa si vuole e cosa rincorrere, bisogna restare fedeli a chi si è giurato di diventare anche se ci rende mortalmente infelici. Sylvia Plath, è una giovane donna figlia del suo tempo ma con un’anima che non vi si adatta. Sylvia vuole scrivere, vuole intraprendere la vita accademica, vuole una famiglia, vuole vivere degli amori conturbanti e, quando incontra Ted Hughes, vede la possibilità di essere tutto ciò che vuole ma, come abbiamo visto, non è un futuro roseo quello che la aspetta.
Sylvia Plath, però, era una donna sposata e con figli negli anni ’50-’60: non è che godesse di chissà quali libertà ed oltre a questo era affetta da una psicopatologia decisamente invalidante in un’epoca nella quale la cura per la depressione era l’elettroshock e lo stigma per i disturbi psichiatrici afferrava delle vette inarrivabili.
Ciò che Sylvia Plath ci spinge a realizzare è che non siamo Sylvia Plath e nemmeno Esther Greenwood, protagonista del libro. Che viviamo in una realtà nella quale l’idea di fallire attanaglia i nostri stomaci e produce strani sogni con Enzo Paolo Turchi che rasa la testa alle nostre bambole preferite d’infanzia; ma, allo stesso tempo, ci fa comprendere l’importanza del cambiare idea e vedere nello sbaglio un’occasione di crescita personale.
L’estratto del romanzo dell’albero di fico (oltre ad aver causato un copiosissimo quantitativo di tatuaggi più o meno kitsch), è stato riportato all’interno di una serie tv prodotta da Netflix: Master of None, il cui autore e protagonista è Aziz Ansari.
Protagonista della serie è Dev, ragazzo di trent’anni, tecnicamente attore; ma, come ci suggerisce il titolo, maestro di tutto e capace in niente. Dev non ha arte né parte: vive in maniera inverosimilmente agiata procedendo con inerzia, con superficialità.
Nel finale della prima stagione, Dev si ritrova in un momento di impasse: alla prima di un suo film, una produzione di serie Z (da far sbiancare l’Asylum) che ha impegnato circa un anno della sua vita, scopre di essere stato tagliato dalla pellicola; tornati a casa, Dev e Rachel – la ragazza con la quale sta da due anni – litigano: si amano veramente o stanno insieme solo per abitudine? Sono pronti ad abbandonare l’idealistica ricerca del vero amore? Alla fine si prendono una pausa.
Dev non ha nulla in mano: non fa un lavoro che lo appassiona, non sa cosa fare della sua relazione ed è in quel momento che parte – in maniera assolutamente e, credo, volutamente decontestualizzata – la sequenza dell’albero di fico: deve prendere una decisione, non può morire di fame guardando ogni frutto cadere ai suoi piedi, così chiama Rachel e i due si incontrano ma, prima che lui possa comunicarle i suoi desideri per il futuro del loro rapporto, lei lo lascia per andare a vivere in Giappone; lui, analogamente, decide di partire per l’Italia e provare a fare ciò che lo appassiona ovvero, cito testualmente, la pasta.
Aziz Ansari* decide quindi di ricontestualizzare le parole della Plath in uno scenario che meglio si adatta alla società attuale (non che sia pieno di persone che lasciano tutto per andare a vivere in un altro paese senza un piano o una minima conoscenza della lingua, ma siamo nel range della sospensione dell’incredulità), per farci capire che cogliere un fico non è una condanna ma, per quanto difficile possa essere, è necessario: devi prendere una posizione e, se anche dovesse rivelarsi essere quella peggiore, anche se dovessi fallire, andrà tutto bene, sarai cresciuto. La vita non è fatta di una singola grande scelta ma di tante decisioni più o meno rilevanti che si compiono ogni giorno.
*È doveroso ricordare che il nome di Ansari, poco dopo lo scoppio del MeToo, si era andato ad aggiungere alla lunga lista di accusati di molestie. Non c’è mai stata un’accusa formale ma la carriera e la vita dell’attore sono stati comunque impattati dalle accuse; si è ritirato dalle scene per quasi due anni per poi tornare con lo spettacolo di stand up RIGHT NOW, anch’esso su Netflix: forse non è il più divertente sulla piattaforma ma, se si è in grado di “mettere in pausa” il giudizio, offre una visione interessante di come dai momenti di maggiore difficoltà possa nascere la consapevolezza di sé.
BV