Grey’s Anatomy e il metodo Shonda Rhimes.
I medical drama occupano da sempre una poltrona in prima fila nel teatro mediatico del piccolo schermo. C’è chi li ama al punto da poter conseguire una sorta di laurea honoris causa in Grey’s Anatomy e chi le disprezza perché non gradisce il continuo “disgustoso festival delle interiora” ; la verità, in ogni caso, è che la vita ospedaliera e tutto il microcosmo costruito intorno ai camici bianchi rappresentano un bocconcino davvero gustoso per le penne degli sceneggiatori.
Dal Dottor Kildare alla Dottoressa Grey, passando per il Dottor House e il Dottor Green, è davvero corposa la lista dei medici dei quali sono state narrate le gesta, tanto che l’intento di stilarne una sarebbe un mero, nonché inutile, esercizio di stile.
Nel corso degli anni, questo genere è stato sottoposto ad un vero e proprio lavoro di cesello che è andato a modificarne i particolari adattandoli al tempo storico e ai progressi in campo medico senza, però, intaccarne l’essenza primaria.
Nei primi esperimenti come il Dottor James Kildare, nato dalla penna di Max Brand nel 1938 e adattato per la televisione nel 1961, la figura del medico era avvolta da un’aurea di perfezione che celava allo spettatore ogni altro aspetto dell’uomo dietro al camice e lo stetoscopio. Questa dimensione divina era indubbiamente motivo di orgoglio per la categoria che glorificava l’aumentare di interesse verso la professione medica; fu, però, anche motivo di critiche da parte del personale infermieristico, che tacciava la serie di non avere un taglio documentaristico e di confinare l’intera categoria in una bolla decisamente lontana dalla realtà.
Una virata decisiva si ebbe nel 1982 con St. Elsewhere che, per la prima volta, introdusse il concetto di coralità dei personaggi all’interno della storia e che, soprattutto, mostrò anche cosa accadeva fuori dalle mura dell’ospedale. La bolla di perfezione era scoppiata e ai medici fu tolta la coccarda da supereroe. È, infatti, proprio con St. Elsewhere che ci si avvicina al modello di serie medica che ha spianato la strada a E.R medici in prima linea e all’età moderna del genere medical.
Da E.R a Grey’s Anatomy.
Proprio come il suo progenitore Kildare, anche E.R nasce come libro riadattato per la televisione. Il romanzo in questione è “Five Patients” di Micheal Crichton e narra le storie di cinque pazienti nel pronto soccorso.
Lo scopo di questa serie, che ha detenuto il record di longevità fino all’arrivo di Grey’s Anatomy, era quello di descrivere con tratti realistici le giornate all’interno del policlinico universitario di Chicago dal punto di vista del personale.
Il tempo viene scandito dai rintocchi delle porte del Pronto Soccorso che si spalancano per fare entrare casi clinici e storie che coinvolgono, e a volte destabilizzano, medici e spettatori a casa.
Se nelle prime stagioni viene dato maggiore risalto alla dimensione professionale dei protagonisti, nel corso della storia l’elemento umano si infila tra lettighe e farmaci, diventando una parte fondamentale della narrazione. Le vite dei medici si intrecciano con quelle dei pazienti: quello che viene mostrato al pubblico è uno spaccato di vita che ha il sapore della quotidianità e tutte le sfumature delle debolezze personali.
È proprio questo tipo di narrazione ad aver spianato la strada per il monumento nato dalla penna di Shonda Rhimes, un racconto in cui il camice bianco non è solo un abito talare, un sinonimo di perfezione, ma anche una corazza che protegge cuori pulsanti e, molto spesso, malandati.
Il pensiero potrebbe vacillare ancora di fronte ad altri nomi e dettagli quindi vediamo di procedere per gradi e fare un ritratto, o forse un’anamnesi, di questa serie che da ben 17 stagioni domina il palinsesto dell’ABC.
Grey’s Anatomy e un nuovo paradigma.
Grey’s Anatomy, il cui primo episodio vede la luce nel 2005, racconta le scorribande chirurgiche e amorose della specializzanda Meredith Grey e dei suoi colleghi al Seattle Grace Hospital. Già dai primi fotogrammi del pilot è possibile intuire il marchio, che diverrà poi una vera e propria cifra stilistica, dell’intera serie.
Il paziente non è mai solo un insieme di sintomi da mettere in fila per raggiungere una diagnosi ma viene mostrato nella sua interezza: diventa una sorta di parabola laica che nasconde una lezione di vita, non solo per il paziente stesso, ma anche – e soprattutto – per il medico che si occupa del caso.
Dopo l’ottava stagione, che si conclude con l’esame di fine corso e la scelta della specializzazione per i giovani medici, le dinamiche della serie cambiano passo ma l’anima della narrazione originaria non viene minimamente intaccata.
L’ospedale, che viene ribattezzato per due volte nel corso delle stagioni, non è solo sale operatorie e stanze di degenza ma costituisce il vero cuore pulsante dell’intera serie: un luogo fisico ma anche dell’anima in cui i personaggi sono messi a nudo e mostrati in ogni loro dettaglio, un viatico di cemento e disinfettante per cuori distrutti e spiriti malconci.
Storie e personaggi che si intrecciano.
Uno dei punti di forza di Grey’s Anatomy è sicuramente la caratterizzazione di ogni singolo personaggio. Sebbene non si possa parlare di coralità assoluta, vista la presenza di una protagonista intorno alla quale si snoda l’intero racconto, ogni personaggio trova la sua collocazione all’interno della narrazione e non solo in funzione della protagonista e quindi con un ruolo accessorio ma diventa coprotagonista della sua storia e percorso.
Questa dovizia di particolari non solo riempie ed anima gli episodi, ma risulta fondamentale per comprendere l’evoluzione del personaggio e mostrare come, proprio come nella vita vera, ogni parola e pensiero del passato costruiscano il presente e il futuro di ogni persona che possa definirsi viva.
Nel corso delle diciassette stagioni, gli spettatori hanno dovuto salutare diversi personaggi e, sebbene i cuori abbiano vacillato vedendo andar via i propri beniamini, spesso attraverso morti cruente o addii strappalacrime, gli sceneggiatori hanno saputo rimodellare sapientemente il microcosmo del Grey Sloan Memorial Hospital costruendo nuove storie sulle macerie emozionali provocate anche dalle dipartite apparentemente più insensate.
I chirurghi dipinti dalla penna di Shonda Rhimes e dalla sua cricca di sceneggiatori sono lontani anni luce dall’idea di perfezione quasi ultraterrena che caratterizzava le prime serie mediche tanto che, molto spesso, l’abnegazione professionale e il talento sono inversamente proporzionali alla risoluzione personale. Vengono, quindi, mostrati uomini e donne con un passato spesso tormentato, fiaccati da sconfitte e demoni interiori, pieni di ferite e lacerazioni mai rimarginate che si dedicano alla medicina e che, quasi in un percorso di redenzione personale, sperano di guarire loro stessi curando i loro pazienti.
Nelle sale operatorie si svolgono sempre due interventi: quello sul paziente, con bisturi e tecniche all’avanguardia, e quello che ogni medico esegue su se stesso, anche se senza anestesia e punti di sutura.
La colonna sonora.
Definire la musica in Grey’s Anatomy una cifra stilistica è quasi riduttivo: è un elemento così fondamentale da poter essere annoverata nell’elenco del cast insieme a nomi altisonanti come quelli di Ellen Pompeo o Patrick Dempsey.
Ogni pezzo della soundtrack, infatti, non è soltanto la musica che rende danza ogni gesto compiuto dagli attori, ma è una vera e propria entità in grado di catapultare lo spettatore fra le trame della storia, nelle lacrime di un paziente o, addirittura, nelle mani del chirurgo che vuole sistemare quel che la sorte ha cercato di distruggere.
La maggior parte dei brani sono delle cover, spesso in versione acustica, di canzoni pop o soft rock degli anni ’80 e ’90. La scelta della versione acustica risulta essere vincente: il tocco morbido di un violino o il cigolio di una chitarra al momento giusto riescono ad enfatizzare le emozioni e a fungere quasi da sostegno, come in una sorta di controcanto, alle battute recitate dall’attore.
Una prova di quanto detto trova riscontro nell’episodio 18 della settima stagione “How to Save a Life” -il titolo della puntata è anche il titolo di una canzone dei The fray – durante il quale la musica si sostituisce quasi interamente ai dialoghi trasformando l’intero episodio in un musical tra viscere sanguinanti e battiti cardiaci impazziti.
Si tratta di un episodio corale nell’accezione più pura del termine. La sala operatoria diventa un palcoscenico teatrale all’interno del quale ogni protagonista svolge il suo ruolo ed esegue la sua interpretazione. Non ci sono pazienti esterni o casi clinici complessi, si tratta solo di salvare la vita ad uno dei medici che è rimasto coinvolto in un incidente d’auto. Sono state molte le critiche rivolte a questo episodio, tacciato di essere ruffiano e mal sviluppato ma, in realtà, rappresenta una chiave di volta per le storylines di molti dei protagonisti ed è costruito, in perfetto stile Shonda Rhimes, su dettagli e piccoli segnali, solamente accennati dagli sceneggiatori nelle stagioni precedenti, che finalmente trovano risposta e collocazione nell’economia generale della serie.
La forza delle parole.
Parlando di punti di forza di questa serie, non si può non toccare la scrittura dei dialoghi.
Molte delle frasi contenute negli episodi sono diventate dei veri e propri mantra e la rete straborda di citazioni e merchandising con le battute più celebri.
Sono molti gli episodi in cui viene scelta la tattica della voce fuori campo che, come nelle tragedie greche, funge da coro e introduce le azioni che stanno per accadere. Nelle prime stagioni veniva usata come formula fissa, quasi a voler dare una sfumatura di diario alla narrazione, nel prosieguo delle stagioni è diventata meno utilizzata ma risulta essere sempre una componente fondamentale dell’episodio in questione.
Knowing is better than wondering. Waking is better than sleeping, and even the biggest failure,even the worst, beats the hell out of never trying.
Meredith Grey
Nella traduzione italiana, forse a causa di un doppiaggio che snaturano alcuni degli aspetti peculiari degli attori o per le fisiologiche trasformazioni del riadattamento dei testi, questo aspetto non viene sottolineato abbastanza ma nella versione originale i dialoghi sono indubbiamente la cifra stilistica della serie, capaci di incrinare anche i cuori più coriacei e di far riflettere lo spettatore anche su tematiche delicate e dal forte impatto sociale.
Il metodo Shonda Rhimes.
Se è vero che E.R ha tracciato una linea di demarcazione netta nel modo di mettere sullo schermo la vita che si muove tra le mura di un ospedale, è altrettanto vero che Grey’s Anatomy ha di nuovo sovvertito l’ordine costituito e ha dato il via ad una serie di produzioni che, seppur con qualche differenza, sembrano essere tutte figlie illegittime del Grey Sloan Memorial Hospital.
È il caso di The Resident, trasmessa dall’emittente Fox dal 2018 e presente anche nella piattaforma di streaming Amazon Prime Video. Dopo una prima stagione che ha mostrato il lato oscuro della medicina con i suoi medici senza scrupoli e smaniosi di successo a discapito della vita delle persone, nelle stagioni successive la serie ha subito un deciso processo di edulcorazione. Il villain di turno è stato sconfitto rovinosamente e la narrazione ha virato con forza verso il paradiso felice dei medici eroi, devoti alla loro professione e innamorati dei loro pazienti a tal punto di dimenticare anche loro stessi.
Non sfugge a questo processo neanche The Good Doctor, che ha segnato il ritorno di David Shore – padre di Dr House M.D. – nel mondo dei medical drama.
La serie, ambientata nell’ospedale St. Bonaventure Hospital nella California del Nord, narra le vicende del giovane specializzando Shaun Murphy, affetto dalla sindrome del savant, interpretato dal promettente Freddie Highmore.
La disabilità del protagonista è presente in maniera consistente solo nella prima stagione ma, nel corso degli episodi, si fa via via più sbiadita fino a diventare un semplice dettaglio. Anche qui le vite dei medici si legano a doppio nodo con quelle dei pazienti e il risultato è, sì una produzione notevole e in grado di far emozionare e riflettere, ma lasciando comunque la delusione del non essere riusciti a sviluppare un tema che avrebbe potuto renderla diversa dalle altre.
Solo Dr House M.D, coetaneo di Grey’s Anatomy, sembra non essere stato minimamente contagiato dal morbo di Shonda Rhimes e, nonostante gli avvicendamenti all’interno del cast e le sette stagioni trasmesse, non ha mai perduto la sua cifra stilistica anche correndo il rischio di sembrare sempre uguale a se stessa e priva di variazioni sul tema.
In Dr House la coralità è solo una parola che fa rima con genialità e l’intera struttura della serie si regge sul personaggio interpretato magistralmente da Hugh Laurie.
Il mondo come dovrebbe essere.
Al netto delle differenze e delle similitudini elencate in queste righe, c’è un aspetto che queste serie hanno in comune ed è forse più importante di ogni orpello stilistico.
Ogni aspetto umano raccontato negli episodi non è solo funzionale alla storyline del personaggio ma offre un punto di vista differente su questioni di grande attualità che dividono l’opinione pubblica e in nome delle quali si perpetrano ancora abomini e cattiverie.
Argomenti come il razzismo, le differenze di genere e le disabilità vengono affrontate con grande sensibilità e viene messo l’accento sulla diversità come ricchezza e non come sottrazione. Che sia tra le note di una canzone appena sussurrata o nelle parole di un discorso accorato poco importa: quello che conta, e che porta un minimo di speranza in un mondo che sembra irrimediabilmente corrotto, è che ci sia ancora tempo per cambiare le cose e per iniziare a pensare che forse diverso e sbagliato non sono sinonimi e che l’unico punto in comune sia solo quello che appartengono entrambi alla categoria degli aggettivi.
SL