Elden Ring, ovvero morte e rinascita dei Souls
Con Elden Ring, Hidetaka Miyazaki ha ucciso Dark Souls. E lo ha fatto anche con una certa dose di cattiveria.
Nel nuovo mondo disegnato da From Software viene implementato un elemento, l’open-world, che poteva potenzialmente distruggere uno dei due pilastri fondamentali dell’economia di gioco assieme al gameplay: il curatissimo level design delle mappe. Audace e sfrontato, l’autore giapponese ha deciso di riscrivere la formula che così tanto era stata perfezionata in diverse e varie iterazioni – Dark Souls, Bloodborne, Sekiro – ma che aveva ormai pochi margini di miglioramento.
Per approdare ad nuova ricetta che, badate bene, ha ancora in sé tutti gli ingredienti classici dei Souls, ma anche diverse, seducenti, novità.
Le novità sono dunque tante: l’open-world, il salto, la cavalcatura, la mappa, l’attacco critico, lo stealth, il crafting, i check-point di salvataggio (si, avete letto bene). Tutte risultano, a una prima prova, più o meno ben impiantate nella struttura classica che i videogiocatori soulsiani conoscono a menadito. Alla radice il gameplay rimane lo stesso, i punti di riferimenti storici della serie pure. Niente falò ma siti di grazia, niente anime o echi di sangue ma rune.
Gattopardianamente, tutto cambia perché tutto rimanga uguale.
Le novità, che come detto ci sono e sono parecchie, si vanno quindi ad integrare bene nella struttura consolidata, permettendovi così di sentirvi subito a casa appena preso in mano il controller. Niente disorientamento dunque, se non fosse per il solo tasto X ormai dedicato al salto e quindi non più disponibile per le interazioni di conferma dei dialoghi e poco altro.
La duplice anima di Elden Ring, tra souls e open world
Chi pensava che l’open-world appiccicato ad un Souls fosse un azzardo potrebbe di certo ricredersi. Nell’immaginario miyazakiano, fatto di cicli che si susseguono in un flusso costante di catastrofi e mondi che mangiano e digeriscono altri mondi, di ere semi-infinite che depositano strati di macerie le une sulle altre, cosa poteva esserci di meglio che un open-world che permetta infine di respirare a narici spalancate quell’atmosfera da mondo persistente tanto cara agli sviluppatori di MMORPG e RPG in generale? Parliamo dunque della capacità di simulare un mondo che sembri esistere anche senza la presenza del videogiocatore.
Con questa formula, From Software si avvicina paradossalmente più a quella che è solita accompagnare un gioco di ruolo classico, online o meno, e non a un qualcosa di veramente nuovo. Paradossalmente, ancora, From Software riprende alcuni elementi da sempre presenti nei giochi di ruolo occidentali: la mappa, il salto, la cavalcatura. E li va ad aggiungere alla propria ben rifinita formula a causa della scelta d’implementare l’open-world, negando in un certo qual modo l’operazione di sottrazione fatta anni prima con Demon’s Souls o il primo Dark Souls, dove questi stessi elementi erano stati evidentemente scartati concettualmente per sperimentare un approccio nuovo e più punitivo di gioco di ruolo.
L’assenza della mappa, che si accompagnava ad una maestria nella gestione degli ambienti di gioco, diventava una caratteristica capace di arricchire il level design, nonostante fosse pur sempre una sottrazione, una mancanza, una cosa in meno a disposizione del videogiocatore. In sintesi, questo modo di agire, faceva diventare quella mancanza una sovrastruttura con cui il videogiocatore doveva costantemente confrontarsi. La maestria progettuale di From Software è sempre stata connessa, cioè messa al servizio, dell’intelligenza minimalista dell’autore Miyazaki.
Questa volta però, l’operazione è in un certo modo inversa. Più che puntare a privare il videogiocatore, concede: aggiunge, fornisce strumenti, ma con parsimonia e lasciando al videogiocatore un approccio più libero in un mondo aperto. E la stessa mappa compone un caso a sé: va conquistata, ritrovandone i frammenti. In un open-world infatti, a parte rare eccezioni, è impensabile non avere a disposizione uno strumento di orientamento.
La mappa di gioco ha una certa verticalità che si esprime in scogliere, fortezze e alture varie da cui è possibile saltare con la cavalcatura, e addirittura risalire sfruttando alcune correnti d’aria ascensionali che sospingono il personaggio controllato dal videogiocatore verso l’alto. I danni da caduta, a differenza dei precedenti videogiochi targati From Software, sono di molto attenuati, anche se non del tutto assenti: il tutto proprio per permettere un’agilità maggiore nell’esplorazione della mappa e per sfruttare meglio l’introduzione del salto. Questo modo di intendere l’open-world da parte di Miyazaki crea di certo una qualche dissonanza tra Elden Ring ed i precedenti titoli, ma allo stesso modo rende coerente il nuovo videogioco giapponese con se stesso. L’esplorazione risulta infatti naturale e fluida; saltare dal cavallo in corsa, sfidare alcuni nemici, tornare tra i cespugli e dileguarsi verso una caverna da esplorare, approcciare un corteo di soldati in colonna, derubarne i tesori per poi arrivare ad una fortezza da conquistare sconfiggendone infine il signore del castello.
È il souls-like al suo meglio, un combinato calibrato di tutti i titoli From Software finora usciti sul mercato.
Nonostante questi stravolgimenti, non è difficile classificare immediatamente – a dirla tutta, pure confortevolmente e con una certa dose di sicurezza – Elden Ring come un Souls. Entrare infatti in uno qualsiasi dei dungeon sparsi nella densa mappa di gioco non fa altro che accrescere tale sensazione, proprio perché in questi luoghi è impossibile non riconoscere l’impronta creativa di From Software. Sensazione che diventa definitiva entrando, ad esempio, nella fortezza di Grantempesta, dove ogni centimetro quadrato è chiaramente stato preso in cura dai designer From Software.
I vari dungeon – che non sono procedurali come si ipotizzava in un primo momento, a mo de i calici di Bloodborne per intenderci – rimangono certamente delle appendici dell’open-world, ma sono anche perfettamente integrati nel flusso di gioco.
Si passa, senza soluzione di continuità, dall’esplorazione libera di una regione – magari al galoppo di Torrente, il destriero cornuto – all’infilarsi naturalmente in una caverna buia che porta sottoterra, senza nessun tipo di esitazione o cambio di stato apparente.
L’open-world concepito da From Software è basato però sul combattimento: l’esplorazione stessa è mediata dalla presenza dei nemici, che comportano una gestione minuziosa delle proprie risorse, incidendo sull’approccio al mondo di gioco. Anche l’impatto della cavalcatura non va sottovalutato, in quanto aiuta (e di parecchio) a smaltire gli spostamenti, rendendoli davvero agili e veloci. La stamina del personaggio non viene utilizzata nel mondo aperto, ma solo in combattimento; inoltre è possibile viaggiare da un sito di grazia all’altro sin da subito. L’open-world di Elden Ring è coerente con il gameplay di un Souls. Una ronda di nemici trovata sulla mappa di gioco, se sconfitta, premia riempiendo le fiaschette di salute e mana, permettendo così di proseguire l’esplorazione. Sconfiggendo un mini-boss si ottengono, o piuttosto si ereditano, delle abilità da aggiungere alle proprie. Sparsi per la mappa è possibile trovare delle ceneri di guerra, capaci di aggiungere un bonus sotto forma di affinità alla propria arma. Il mondo aperto diventa quindi la riserva di caccia per quanto riguarda risorse, potenziamenti, esperienza per il personaggio. E tutto questo non è altro che una sorta di evoluzione dell’hub di gioco che diventa l’intera mappa.
Risulta quindi subito chiaro che l’open-world in Elden Ring serva come tramite per arrivare eventualmente alla formula definitiva di un Souls. Miyazaki punta da anni a migliorare la ricetta,e forse vuole adesso il Souls omnicomprensivo. Ma, probabilmente, si dovrà prima scontrare con la fanbase dei puristi a colpi di backstab. A tal proposito sarà molto interessante scoprire nella versione completa del videogioco, quale sarà lo scotto che Elden Ring pagherà per avere in cambio l’open-world. Se ce ne sarà uno.
Di paesaggi, estetica e bellezze/bruttezze varie
Nonostante Elden Ring presenti il classico setting dark-fantasy di From Software, è impossibile non notarne in parte i paesaggi inaspettati, luminosi e bucolici che certamente si trasformano presto in antri bui, cavernosi e putridi. I nemici, umanoidi e soldateschi alla luce del sole, diventano deformi sottoterra, insieme a ratti, scheletri e troll. I prati, i fiori e la fauna selvaggia, lasciano il posto agli acquitrini, le muffe e le aberrazioni. Come è tipico dell’immaginario miyazakiano le creature umanoidi sono tutte più grandi, più grosse, quasi affette da gigantismo. Una condizione che costringe il videogiocatore ad uno status gulliveriano, che crea come sempre timore, amplifica la sensazione di pericolo e disperazione nei mondi in perenne decadenza immaginati da From Software.
A questo si aggiunge un chiaro immaginario cristiano fatto di arti umani usate come reliquie. Dita torte, dita avvizzite, dita sanguinanti, lingue mozzate, crocifissi – in Elden Ring tutti oggetti utili al gameplay – richiamano da vicino le reliquie sacre, e in maggioranza false, molto diffuse in commercio nel medioevo europeo. La stessa grazia che è in effetti linfa del mondo di gioco e che si tramuta in vita per il personaggio attraverso il recupero della salute, non è altro che un riferimento a quello stesso mondo medievale. Dove, in effetti, proprio quelle reliquie, erano strumenti utili a raggiungere per l’appunto lo stato di grazia divina.
Continuando ad analizzare l’estetica di Elden Ring, alcuni elementi, come gli alberi luminosi giganti, sembrano appartenere più ad un contesto quasi elfico piuttosto che al medioevo fantasy e oscuro di Miyazaki; appaiono lontani sia dall’immaginario dell’autore giapponese che da quello ancor meno classic fantasy di George R. R. Martin. Anche la fauna selvaggia sembra quasi non far parte di quel mondo; caprette, talpe e pinguini si mimetizzano poco con i mondi in rovina a cui ci hanno abituato gli artisti di From Software.
Nonostante ogni elemento sia familiare in Elden Ring, anche a causa della presenza di alcuni asset riutilizzati nel processo di sviluppo da precedenti lavori, molto, se non tutto, sa in un certo modo di nuovo. Non è il caso del sistema multiplayer, che invece è letteralmente preso di peso dai precedenti lavori della casa giapponese. Come ci si poteva largamente aspettare, sono presenti pvp, co-op, invasioni ed evocazioni di altri videogiocatori. Come sempre, è possibile lasciare messaggi per gli altri mondi. Di base, il test voluto dalla software house giapponese serviva proprio a calibrare questi aspetti, a rilevare bug e così via. Dunque, apparentemente, niente di particolarmente fresco.
In definitiva, per quel che abbiamo potuto provare, Elden Ring è tutto il Souls che si poteva volere, con in più una coerente concezione aperta del mondo di gioco, un ciclo giorno/notte tipico dei mondi aperti, una buona quantità di innovazioni nella formula e un gameplay che promette di essere ai massimi livelli mai raggiunti dalla casa giapponese.
Dark Souls è morto. Viva Elden Ring.
VV