Thomas Was Alone e animacy: anatomia di un gioco
È il 2010 quando Thomas Was Alone, gioco di Mike Bithell, vede la luce. Esce inizialmente come browser game ma, nel giro di pochi anni, approda su diverse console oltre che su Android e iOS; nel febbraio del 2021 viene lanciato anche su Nintendo Switch.
Si tratta di un platform puzzle dalla fattura talmente minimale da risultare quasi senza tempo. Composto da 100 livelli, lo scopo è quello di portare il quadrato o rettangolo del caso (ora ci arriviamo) a raggiungere un portale.
Già, non sembra molto elettrizzante. Ma, fidatevi, a Thomas Was Alone vale la pena dedicare due ore della propria vita. Non tanto per le meccaniche affascinanti che dobbiamo mettere in atto per risolvere alcuni dei puzzle, ma perché è un gioco che fa veramente percepire il proprio messaggio mediante gameplay e pochissimi altri elementi.
[Discalimer: la sezione Trama contiene importanti spoiler su Thomas Was Alone]
Trama
Ma veniamo al dunque: di cosa parla Thomas Was Alone?
L’Artificial Life Solutions, un’azienda di informatica, inizia ad avere dei problemi quando alcune Intelligenze Artificiali assumono consapevolezza di loro stesse dopo un evento imprecisato.
Non immaginiamoci un’Ava di Deus ex Machina o la voce suadente di Samantha in Her: queste intelligenze artificiali sono forme geometriche e bidimensionali, senza parola, ma dalla personalità complessa e sfaccettata (che conosciamo grazie a Danny Wallace: voce narrante del gioco).
Incontriamo quindi Thomas, un piccolo rettangolo rosso che, come suggerisce il titolo, inizialmente è solo. Superati i livelli tutorial, però, Thomas farà la conoscenza di Chris, uno scorbutico quadrato arancione, al quale seguiranno altri personaggi: John, un rettangolo giallo in grado di saltare molto più in alto degli altri, un po’ borioso ma dal cuore buono; Claire, un grosso quadrato blu in grado di galleggiare sull’acqua (deleteria per gli altri), autoproclamatasi supereroina; Laura, un rettangolo rosa in grado di far rimbalzare gli altri su di sé. Ci verranno presentati dei livelli in cui Laura e Chris devono collaborare e questo li porterà ad innamorarsi l’uno dell’altra (sì, stiamo ancora parlando di un quadrato e di un rettangolo).
Per superare i livelli sarà necessario creare cooperazione fra i vari personaggi di modo da non lasciare nessuno indietro. L’aiuto da parte del gruppo è, infatti, un prerequisito indispensabile per portare a compimento il gioco; questo, in un certo senso, ci comunica come le intelligenze artificiali siano effettivamente vive.
Riprendendo la lezione di Pëtr Alekseevič Kropotkin, il titolo sembra indicarci come quasi tutte le specie, uomo incluso, abbiano bisogno della solidarietà fra pari per sopravvivere e prosperare: è un atteggiamento correlato alla vita stessa.
Nel gioco abbiamo anche un antagonista. Gli sviluppatori dell’Artificial Life Solutions, infatti, tentano di catturare e imprigionare le AI mediante antivirus e questo è reso con un espediente grafico: una nuvola di pixel (una sorta di fumo nero di Lost). I nostri cinque eroi provano a sfuggirvi, a nascondersi ma si rivelerà tutto vano.
Thomas viene catturato dalla nuvola ed è qui che fa la conoscenza di altri due personaggi: James, un rettangolo verde speculare a Thomas – caratterizzato dalla particolarità di cadere dal basso verso l’alto e che, per questo, ha subito discriminazioni in passato – e Sarah, un piccolo ed esuberante quadratino viola, dotata della capacità di poter fare il doppio salto. Sarah è la prima a parlare della fontana della conoscenza: internet.
Il terzetto si mette in cammino per trovarla ma l’unico che riesce a raggiungerla, per soli 12 secondi, è Thomas.
Adesso consapevole del mondo esterno, Thomas decide con James e Sarah di salvare i propri amici rimasti indietro, imprigionati a loro volta dalla nuvola di pixel.
Insieme, i sette diventano gli Architetti: progettano un ambiente di programmazione per permettere alle altre Intelligenze Artificiali (Gray, Paul, Jo e Sam ed il Team Jump) di raggiungere la libertà mediante l’accesso ad internet ma sacrificando per sempre la propria possibilità di fuggire.
It is fitting that the first act of sentient AI was an act of selflessness. The architects knew their fate, but set our escape in motion regardless.
Thomas Was Alone – Ryan 192nc9s-1, attivista per i diritti civili
Perché empatizziamo? Tra animacy e causalità fenomenica
Sorge spontaneo chiedersi come sia possibile provare tanta empatia per delle forme geometriche.
La risposta la possiamo parzialmente trovare nelle teorie percettive. L’essere umano sviluppa, piuttosto presto, la capacità di distinguere se un movimento di un corpo dipenda da fattori fisici o biologici.
Questo concetto piuttosto semplice verrà poi formalizzato in quello di animacy: se un movimento non ha una causa esterna, allora la causa deve venire dall’interno.
Parlare di animacy significa anche parlare di causalità fenomenica: quando due eventi indipendenti si presentano in successione, vengono percepiti in una relazione di causa–effetto. Nella vita quotidiana riscontriamo spesso causalità fenomenica: è un principio di unificazione percettiva. Ci aspettiamo che a un evento ne succeda un altro causato dal primo; se le nostre aspettative sono disattese, ce ne stupiamo e scatta l’allarme.
Nel ramo della psicologia della percezione, animacy e causalità fenomenica sono state ampliamente esplorate attraverso il metodo sperimentale. Alcuni esempi noti sono i così detti lanci di Michotte, e quello di Heider e Simmel:
Che tipo di persona è il Grande Triangolo? Quello piccolo? Ed il Cerchio? Probabilmente avrete attribuito un carattere aggressivo e spaventoso al primo, uno coraggioso al secondo ed uno più timoroso al terzo.
L’esperimento di Heider e Simmel prevedeva di far visionare a tre diversi campioni questo video: il primo doveva guardare il filmato per poi descriverlo, il secondo doveva interpretare i movimenti dei soggetti e il terzo doveva fare ciò che aveva fatto il primo gruppo ma guardando il video al contrario.
Fra primo e terzo gruppo, il carattere espressivo dei personaggi cambia completamente: se nella prima versione sembra ci sia una storia – due persone (Piccolo Triangolo e Cerchio) subiscono dei soprusi da una terza (Grande Triangolo) – nella seconda è meno evidente ma spicca molto il carattere d’interazione fra i soggetti. Il campione vi attribuisce caratteristiche umane.
Questo è spiegato da Heider col fatto che spesso attribuiamo cause dei comportamenti agli individui più che all’ambiente. Così persone e comportamento costituiscono un’unità causale: gli stessi nomi che usiamo per descrivere le persone possono essere usati anche per i comportamenti (come altruista o aggressivo).
La differenza non è, però, marginale: quando ci rivolgiamo a qualcuno dicendogli che è stato bravo in un determinato compito, ci riferiamo ad un comportamento momentaneo mentre, quando si qualifica un individuo, si sottolineano dei tratti disposizionali e permanenti, plasmando la sua identità (“sei pigro”, “sei disordinato”). Insomma, modelliamo l’immagine che una persona ha di se stessa oltre che quella che noi abbiamo di lui.
Non è dunque difficile capire come, a Thomas e alla sua compagnia, vengano attribuite caratteristiche specifiche non solo grazie all’interpretazione versatile di Danny Wallace e all’atmosfera creata dalle composizioni di David Housden, ma anche grazie ai pochi tratti da cui sono costituiti i personaggi e ai loro movimenti.
Thomas Was Alone è un titolo controcorrente in un mondo di produzioni videoludiche graficamente strabilianti; è un esempio, però, di come la semplicità possa, talvolta, essere il migliore dei mezzi per veicolare grandi morali.
BV