ECHO: la perfezione è aliena
Echo, forse per eccessiva onestà intellettuale, per meticolosità o per scherzo, esprime tutto sé stesso già nel titolo. L’eco è doppiezza e inganno: dove lo specchio riflette una nostra versione ribaltata, il suono può ammaliarci, illudendoci di sentire quello che vogliamo ma non restituendoci mai una copia perfetta. L’eco è riverbero, è increspatura, è conseguenza. Questo concetto copre tutto quello che il gioco ha da offrire, dalle meccaniche ludiche al design visivo, fino al messaggio.
La prima opera di Ultra Ultra, studio di Copenaghen composto da otto membri più due freelancer, si presenta subito pensata meticolosamente. Un qualcosa dove, per caso o per volontà, tutto si incastra al meglio delle possibilità del piccolo team che l’ha creata.
Le premesse narrative sono semplici, quasi banali, e la scommessa è evidente: prendere come spunto la branca di fantascienza esistenziale e filosofica europea trasformandola in qualcosa di ancora più conciso, coinvolgendo il giocatore in una rappresentazione solo apparentemente manichea, dove bianco e nero si alternano e si mescolano ripetutamente.
La fuga è la menzogna
[DISCLAIMER: l’articolo presenta degli spoiler, tutti espressi nella prima ora di gioco. Nell’ultimo paragrafo si fa esplicito riferimento al finale]
Interpretiamo En1, una ragazza in fuga, una creatura modificata geneticamente e mentalmente da un culto presieduto da una figura che lei chiama “Nonno”. Il Nonno altri non è che un patriarca privo di scrupoli che crea e sceglie le varianti o, come le chiama lui, le “Risorse” più meritevoli di raggiungere il Palazzo, un luogo mitico capace di garantire la vita eterna.
En, dimostrando un libero arbitrio che non dovrebbe avere, si ribella e scappa dall’Eden artificiale creato dal Nonno scegliendo una vita di espedienti e raggiri resi facili dal suo essere ingegnerizzata, dal suo essere un individuo superiore.
Tutto cambia quando Foster2, un mercenario esperto in recuperi di ogni tipo, viene assunto per riprenderla e decide invece di sacrificarsi e permetterle ancora una volta di scappare. Questo gesto la spinge ad affrontare le proprie responsabilità spingendola verso un viaggio di cento anni nel fantomatico Palazzo, con la speranza di poter riportare in vita l’unica persona che le abbia dimostrato compassione. Qui la prima bugia, o forse sarebbe più appropriato definirla distorsione. En è pienamente consapevole che così facendo non stia facendo altro che assolvere il compito per cui è stata concepita, e che le sue capacità manipolatorie abbiano convinto Foster a salvarla; eppure, ridare la vita a un individuo che non sia il patriarca, è il massimo gesto di ribellione che può permettersi.
“En”, Enki Bilal, 2017.
Fearful simmetry
Il Palazzo si scoprirà essere un intero pianeta, completamente modellato su una struttura perfetta come un cristallo. Le contraddizioni però continuano a succedersi. Il pianeta non è infatti che un guscio vuoto secondo London, l’intelligenza artificiale della nave di Foster che per tutto il gioco farà da contraltare emozionale, pur nella sua estrema logicità, al pragmatismo inumano di En.
Le costruzioni di cui è composto stanno lentamente cadendo in pezzi, quasi a voler mostrare che un Paradiso è inutile senza nessuno che lo abiti o che tutto, compresa la speranza, è soggetto a senescenza
“Echo”, Nihei Tsutomu, 2017.
En si fa strada tra gli strati superiori degli edifici in un mondo che strizza l’occhio alle superstrutture di Nihei Tsutomu e del suo “Blame!”, fino a quando non riesce a entrare in uno di essi trovandosi in una perversa rivisitazione del neoclassicismo. Il contesto è simile a un libero di “Metal Hurlant”3, una breve storia a fumetti che in poche pagine creava universi credibili a completa disposizione dell’osservatore.
Lo stesso design dei personaggi e degli elementi sci-fi ricordano tanto Enki Bilal quanto Gimenez e i suoi Metabaroni. Le stanze sono perfettamente e spaventosamente simmetriche, infinite. Echo riesce a rendere alieni elementi a noi comuni, come vasi o tavoli, inserendoli in un contesto incomprensibile.
Presto si intuisce che il Palazzo cerca di creare un ambiente tanto accogliente quanto repulsivo nei confronti del suo ospite. L’intelligenza che ne decide le azioni, di cui poco sapremo pur riuscendo a raccogliere vari collezionabili (ovviamente audio, ché l’occhio è ingannatore), e che ne illustreranno la storia, è simile a quella di una pianta carnivora o di qualsiasi altro organismo che imiti un ambiente familiare per ingannare la sua vittima.
“Guarda, ho creato dei fiori per te. Non ti piacciono?”
Poco dopo averne varcato le soglie il Palazzo metterà in campo la sua difesa finale, l’idea trasfigurante tanto a livello di gameplay quanto narrativo. Dopo aver appreso abbastanza informazioni su En inizierà a creare dei suoi cloni, gli Echo del titolo, che agiranno in base alle azioni che noi stessi compieremo.
Ogni gesto, che sia aprire una porta, usare un ascensore, nascondersi fino alle più offensive come stordire o sparare saranno da essi memorizzate. Come, del resto, risulteranno liberi di usare le nostre stesse mosse per difendersi e attaccare, trasformando quello che all’apparenza sembra un banale stealth in un puzzle ambientale. Un gioco di scacchi dove i neri muovono contemporaneamente contro altri neri e dove l’avversario non siamo altri che noi stessi.
fra le mute tombe del monumentale,
non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità.
Baustelle, Monumentale dall’album Fantasma, 2013
Questo meccanismo di apprendimento è regolato da quello che, narrativamente, viene giustificato come un malfunzionamento del sistema di difesa. Imparate un certo numero di mosse, il Palazzo resetterà il ciclo “spegnendosi”: ci renderà, cioè, liberi di comportarci come vogliamo nelle fasi di buio, presentandoci il conto con la successiva fase di luce, dove gli Echo ricorderanno tutto quello che avremo fatto. Questo concetto, all’apparenza semplice, genera tutto l’insieme di considerazioni, afferenti sia al ludico che ad ampio spettro.
“Posso lasciarti un opuscolo che parla di Dio?”
Sarebbe semplice, in un’orgia iconologica alla Panofsky, inserire nell’opera tutti i riferimenti psicologici e religiosi che una natura dualistica di questo tipo giustificherebbe: l’archetipo dell’ombra di Jung, cioè la somma delle caratteristiche personali che l’individuo vuole nascondere agli altri e a sé stesso perché lo porterebbe a commettere azioni malvagie4. Il Samsara induista, l’eterna ruota di morte e rinascita causata dal dolore subito e ricevuto, nell’illusione del Maya; altro non sarebbe che il Palazzo stesso. Per non parlare del karma, volendo restare a oriente, o di penitenza, espiazione per tornare a riferimenti culturali a noi più vicini.
Il Palazzo è Dio, come si ostina a credere il Nonno, perché genera e ridà la vita. Il Palazzo è il destino, come desidera con tutta sé stessa En, perché è la sua ultima speranza di salvezza e riscatto e l’ultimo posto in cui può mostrarsi come gli altri vorrebbero che fosse. Il Palazzo è l’alieno, è l’incomprensibile, è un’intelligenza che sempre è stata e sempre sarà.
Lo stile neoclassico che lo caratterizza non è un caso. Echo racconta il suo falso dualismo attraverso tutta l’architettura Illuminista: quindi troviamo le “Carceri di Invenzione” di Piranesi, che simboleggiano l’essere eterni prigionieri; in più, quell’aggiunta di Panopticon perfezionato dall’essere noi stessi i nostri carcerieri, fino ad arrivare a Boulée e al suo culto divino.
“Carceri VII”, Giovanni Batista Piranesi (o Nihei Tsutomu), 1760.
Come scrivono Rabreau e Morin,
I suoi progetti per edifici religiosi, metropoli, templi, chiese riflettono le nuove forme di religiosità che si manifestarono con lo spirito dell’Illuminismo, il culto della Natura o dell’Essere Supremo, il culto della Ragione Scientifica e dei Grandi Uomini, la religione civile, il misticismo massonico, eccetera. Tutte queste tendenze si compenetrano in una pseudo-religione inventata dall’architetto. L’architettura sacra di Boullée illustra il suo desiderio di applicare la sua concezione del progresso sociale alla religione.
Cos’è se non la sintesi di ciò che sia En che il Nonno credono, rivelandosi così l’una fin troppo simile all’altro?
“Projet de cathédrale métropolitaine en forme de croix grecque avec un centre bombé”, Étienne-Louis Boullée, 1782.
Echo è però grande fantascienza, e per quanto ci permetta di vagare con la mente in cerca di teorie, in parte auto assolutorie, ci mette di fronte al semplice fatto compiuto: non siamo che il risultato delle azioni compiute da noi stessi e dell’ambiente in cui siamo vissuti. L’eco non è uno specchio, non stiamo osservando una versione rovesciata di noi stessi da cui possiamo distogliere lo sguardo quando la vista ci diventa insostenibile.
L’eco è quel riverbero che continueremo costantemente a sentire e che ci ricorderà ciò che abbiamo fatto nelle e delle nostre vite, così come En si dimostra schiava di quella che dovrebbe essere la sua maggiore libertà e cioè la possibilità di scelta.
Così parlò Zarathustra
Per quanto l’opera parta da presupposti piuttosto meccanicisti e nichilisti, alla fine lascia un messaggio di speranza. Pure se intrappolati in una ricerca che non avrà mai fine né risposte, possiamo scegliere in ogni momento di compiere qualcosa che ci rappresenti davvero. Qualcuno la interpreterà come trascendenza, qualcun altro come spinta biologica che ci porta a voler continuare a esistere nel ricordo di altri, come meme kojimiani.
“Cattedrale Spaziale”, Ultra Ultra, 2017.
La decisione presa da En alla fine del gioco, il suo sacrificarsi per ridare la vita a Foster, può essere sì vista come la massima espressione di sé stessi ma è anche voglia di spezzare il cerchio, con un ultimo rimando citazionista a “2001: Odissea nello spazio” (Kubrick, 1968). En decide di non trasformarsi in un essere divino, e nessuno suonerà “Also sprach Zarathustra Op. 30” per lei.
Resta però il sottile dubbio che gli autori, fedeli al loro assunto iniziale, lo considerino comunque un gesto controverso e in parte egoista.
Resuscitare un povero Cristo, letteralmente, a duecento anni di distanza dalla sua vita precedente per un proprio desiderio di espiazione: bene ma non benissimo.
Echo non è perfetto nell’esecuzione ma lo è nel suo essere compiuto; in effetti, il suo difetto più grande è che sia l’unico gioco di Ultra Ultra, che ha chiuso nel 2019. Uno studio che con pochissime risorse, un unico modello poligonale e un talento purissimo nel rappresentare un inconcepibile infinito attraverso il copy and paste di una generica libreria di elementi grafici, ha cercato, ed è in parte riuscito, a porre profonde domande esistenziali.
EF
NOTE:
1 “En” in svedese significa uno. Ogni elemento in Echo ha un suo peso sia narrativo che esperienziale.
2 Letteralmente “l’adottante”.
3 Metal Hurlant fu una rivista francese dedicata alla fantascienza al fantasy nata nel 1975 per volontà di Jean Giraud e Philippe Druillet. Ebbe anche una versione americana conosciuta come Heavy Metal e fu pubblicata per un breve periodo anche in Italia.
4 “Il libro rosso. Liber Novus” di Carl Gustave Jung, traduzione di Anna Maria Massimiello, Bollati Boringhieri 2012.