Immortality o sulla consumazione di se stessi
[DISCLAIMER: L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SU IMMORTALITY]
Sunset Boulevard (Billy Wilder, 1950) si apre con l’inquadratura del cadavere galleggiante di uno sceneggiatore, nella piscina di una grande villa hollywoodiana. Questa rimane, con pochissime concorrenti, l’immagine probabilmente più attraente che si possa trovare di quel cinema, per simbolismo o per auto-compiacimento degli autori stessi. La morte dello sceneggiatore all’inizio di un film, del resto, non è altro che l’invasione di un sottile meccanismo della psiche umana nell’intimo del processo creativo. Anzi, un vero e proprio impulso distruttivo, capace peraltro di raggiungere apici decisamente più alti del corrispettivo creativo. Si potrebbe definire senz’altro un lapsus nel normale racconto del cinema classico americano, che ha pure il merito di mostrare la natura quantomeno doppia, perversa e distruttiva della più alta forma di aspirazione umana.
Gloria Swanson interpreta l’eterna diva del cinema muto, che, non a caso, coincide anche con la reale carriera dell’attrice. Si tratta dell’epoca d’oro della fabbrica dei sogni, in cui, per intenderci, il cinema aveva massimo fulgore nonché influenza nell’opinione pubblica. La stella del cinema era un modello positivo e irraggiungibile, archetipo artificiale per eccellenza, che mostrava il proprio splendore solo attraverso il filtro del medium cinematografico. Era dunque l’immagine stessa del sogno americano fabbricato ante litteram in studio.
Giochiamo con Billy Wilder & co.
Ed è proprio a questo punto che interviene il lapsus: lo sceneggiatore annegato – morto effettivamente già dalla prima scena del film, ma si tratta in realtà di un flash forward – simboleggia la fine dell’impulso creativo, che viene sostituito da quello distruttivo. Gloria Swanson diventa solo una faccia, un oggetto scenico che assume valore unicamente nelle opere immortali fissate su pellicola. Tutto il resto non è altro che contorno che nasconde l’incanto. La diva, a fine carriera, diviene pazza di dolore per la perdita di quell’istante unico e ripetibile solo al cinema e, nell’attesa, si consuma. Sarebbe a dire che l’artista, in generale e in quanto tale, non fa altro che soffrire della propria assenza. E dunque, si immola sul rogo costruito sul sacro altare dell’arte.
Ora, si potrebbe giustamente obiettare che difficilmente Gloria Swanson, Cecil B. deMille e compagnia, si possano smaltare di modernismo. Bene, è sicuramente vero. Ma, forse, basterebbe solo invertire il processo di montaggio del cinema, come intende fare Sam Barlow, guardare nel senso inverso le pellicole e scoprire il lato invisibile dello stato delle cose.
Ora, considerate Gloria Swanson che continua a crogiolarsi nel suo unico passato glorioso, portata a spasso dall’autista, a bordo della sua Isotta Fraschini 8a, per l’eternità; confrontatela con Marissa Marcel che, dal canto suo, scompare dalle scene per rimanere impressa, unicamente e per sempre, in pochi metri di pellicola mal tagliata. Insomma, disegnate mentalmente il tracciato comune dell’immortalità. Immaginatelo, perché il punto di arrivo di tutto infatti, non è altro che questo, fermare il tempo, lasciare una traccia di sé nel mondo. Almeno dal punto di vista di quelli che ancora oggi, come noi, esercitano una forma primitiva di reiezione nei confronti della morte.
Ora giochiamo con Sam Barlow & co.
Il punto di questa lunga premessa, è che sembra impossibile a chi scrive anche solo iniziare a parlare di Immortality (Sam Barlow, Half Mermaid Productions, 2022) senza citare un immortale classico del cinema come Sunset Boulevard; e peraltro, tenendolo a mente come vero e proprio riferimento generale, in grado di aiutarci a inquadrare la nostra comprensione. Non tanto da un punto di vista stilistico, quanto piuttosto su un piano interpretativo della natura intima dell’arte in quanto fenomeno umano.
Sam Barlow, l’autore di Immortality, naturalmente non è nuovo a questo genere di utilizzo laterale del linguaggio cinematografico. L’autore sa come smontare un linguaggio e come proporre al videogiocatore il capirlo e ricomporlo. Perché in effetti – forse portando a termine un piccolo tradimento nei confronti del medium di appartenenza – di grammatica cinematografica si tratta, ma utilizzata alla stregua di un rompicapo all’interno di un contenitore certamente videoludico.
Immortality, come videogioco, potrebbe sembrare un semplice tetris di scene da trovare e, al limite, mettere in ordine. Ma Immortality in quanto cinema, è l’esplosione del linguaggio stesso. Sam Barlow ci serve su un piatto d’argento il cinema nudo e crudo, già disossato, senza alcuna decorazione e sovrastruttura. Un medium dentro l’altro. Scarno, metodico e marginale il primo. Malinconico, mistico e incomprensibile il secondo.
Allo stesso tempo, però, Immortality diventa sorprendentemente ludico, in tutti i sensi. Non tanto sul piano che si definirebbe generalmente gameplay, quanto a un livello forse più alto. Perché gioca – certo, attraverso strumenti basilari, quelli del montaggio – con l’aspettativa doppia del videogiocatore e dello spettatore. Creando così una consapevole sensazione di controllo sul mondo di gioco.
Ad ogni modo, Immortality non può essere in nessun caso considerato cinema – anche se agisce come il cinema, mima il cinema, si fa crisalide e contenitore di immagini in movimento – perché si comporta in tal modo al solo scopo di far videogiocare lo spettatore. E questa potrebbe pure sembrare una sottile contraddizione, ma prendetela invece come un’intenzionale provocazione.
A proposito di provocazioni.
Di cosa parliamo quando parliamo di Immortality
Immortality, dunque. L’ultimo videogioco di Sam Barlow (Her Story, 2019, Telling Lies, 2015 e prima come lead designer di Climax Studios, Silent Hill: Origins, 2007 e Silent Hill: Shattered Memories, 2009) è in definitiva un puzzle game di natura, forse al limite, un poco controversa.
Di fatti, non fa altro che mettere a disposizione del videogiocatore alcuni frammenti di pellicola (il cosiddetto found footage) appartenenti a tre diversi film mai rilasciati al cinema, che hanno, come unica correlazione tra di essi, l’interpretazione di un ruolo da parte dell’attrice prematuramente scomparsa Marissa Marcel. I tre film – Ambrosio (1968) come medium del peccato, Minsky (1970) come medium della violenza, Two of Everything (1999) come medium dell’alter ego – sono un simulacro di mezze verità in cui il videogiocatore acquisisce la capacità di elaborare le varie scene, gestendole come se si trovasse in sala di montaggio. Avanti, indietro, fermo-immagine e un singolo input di ricerca di punti d’interesse e conferma, sono la componente unica del gameplay. Ma questi pochi comandi, che potrebbero sembrare scarni e quantomeno banali ad un’analisi pregiudiziale, si rivelano essere talmente potenti, nel contesto della grammatica utilizzata dall’autore, da rendere il videogiocatore onnipotente di fronte alla scoperta della verità degli eventi di gioco. Si tratta solo di impegnare il tempo adeguato e ogni segreto di Immortality verrà svelato, proprio ogni singolo nodo verrà al pettine, senza l’utilizzo di nessun tipo di abilità particolare.
Questo tipo di interazione, rompendo completamente il rapporto classico tra spettatore e film nel medium cinematografico, permette al videogiocatore di impersonare allo stesso tempo una funzione sia passiva che attiva. Permette di entrare e uscire dalla quarta parete continuamente, senza la minima remora riguardo quel tacito accordo tra opera e spettatore chiamato normalmente sospensione dell’incredulità. Quest’ultima diventa, letteralmente, un concetto che non ci riguarda più. Entrare e uscire dal quadro si diceva, proprio a creare uno spazio terzo che si situa esattamente tra il salotto di casa di David Lynch e una strana idea precostituita di quello che il cinema o il videogioco possono non essere.
Prendiamoci pure in giro.
Sam Barlow sgancia completamente il videogiocatore da qualsiasi velleità illusoria connessa alla magia del cinema, restituendola quantomeno trascurabile, perché ne smonta il linguaggio, rendendolo quindi visibile al videogiocatore. Allo stesso tempo, mette in opera il procedimento esattamente contrario riguardo il linguaggio videoludico, nascondendolo dietro l’utilizzo di un sistema d’interazione striminzito e alienante per sua stessa natura. Desertificandolo di opzioni e profondità.
Arrivare a conoscere fino in fondo i misteri di Marissa Marcel, il suo contesto lavorativo e i tre film da lei interpretati, si traduce infatti nel continuo zoomare e scrutare, fotogramma per fotogramma, alla ricerca di punti di interesse da cliccare, auspicando che possano portarci al frammento di pellicola successivo e non uno già visto. Per poi illudersi ancora, nella speranza di completare una sorta di cronologia filmica, che in ogni caso diventa impossibile vista la narrativa dei tre film, completamente rotta e rimarginata nei buchi di trama con spezzoni di contorno: interviste, scene sul set, riprese delle prove degli attori e altro ancora.
Questo tipo di procedimento fisso, può risultare alienante, almeno alla lunga, se accostato alla natura intrinseca del gesto, cioè l’atto di guardare e riguardare continuamente le scene in questione. A questo si può aggiungere una sorta di inquietudine, che nasce invece dalla meccanica che serve a scoprire i frammenti di film nascosti all’interno delle pellicole. Infatti, durante la normale visione delle scene, può capitare di sentire un suono basso e sordo che stride particolarmente con il resto del flusso audiovisivo. È in quel momento che si possono trovare, riavvolgendo all’indietro la pellicola con attenzione, alcune scene nascoste altrimenti invisibili. Si tratta generalmente delle scene in cui fa la sua apparizione la componente soprannaturale del racconto di Immortality, nella forma di due esseri non-umani che coesistono ai protagonisti immaginati da Sam Barlow.
Montage brutal e soprannaturale
Una cosa è chiara da subito – a dire il vero proprio già dai primissimi istanti – videogiocando Immortality: si percepisce un mistero latente che sovrasta ogni livello cognitivo. È presente naturalmente nello svolgersi degli eventi, nello svolgersi del gameplay, nelle immagini, nei suoni e nell’interpretazione stessa del mondo di gioco. Si crea addirittura nella percezione propria al videogiocatore, che viene continuamente stimolata da input discordanti e contraddicenti.
Basterebbe citare anche solo il menù iniziale dell’ultima opera di Sam Barlow, per essere folgorati immediatamente dalla potenza dell’immagine. Anche senza tener conto dell’impatto fortissimo di matrice lynchiana che emana, è impossibile non cogliere la connotazione soprannaturale già da questa prima schermata, in cui Marissa Marcel – magnificamente interpretata dall’attrice franco-americana Manon Gage – entra in scena sorridente, protendendosi verso uno sgabello tipico da audizione.
Lynch hai fatto tu questa roba?
Come si accennava, il menù iniziale di Immortality ha già in sé diverse componenti che sono l’essenza dell’opera: per prima cosa, scorrendo tra le varie opzioni del menù, il movimento di Marissa Marcel risulta alterato nel tempo. Infatti, i fotogrammi non scorrono in senso cronologico ma appaiono disturbati, come se ogni tanto qualche frammento saltasse via. Il tutto risulta macchinoso e artificiale proprio per la mancanza di fluidità del gesto, che dovrebbe apparire invece così naturale, e al limite banale, nella realtà. In secondo luogo, lo sgabello da audizione mette subito in chiaro che Marissa Marcel è un’attrice. A un livello primordiale ci sta confidando che mente. Per ultimo, lo sgabello rimane sempre vuoto, un chiaro rimando simbolico alla scomparsa dell’attrice, nonché di generica assenza. Proprio quella di cui si parlava in premessa all’articolo, riguardo la sofferenza dell’artista che deriverebbe dalla propria mancanza.
Un aspetto particolarmente interessante, di cui vale la pena accennare, è la sinonimia che si attiva inaspettatamente nel rapporto tra montaggio e soprannaturale. Definiamola temporaneamente come una sinergia inconsapevole, ma solo perché non sappiamo quanto possa essere un aspetto voluto nella concettualizzazione dell’opera da parte degli autori.
Montage brutal è un’associazione di immagini inattese, raccordi sorprendenti e bizzarrie di sorta che restituiscono una sensazione generalmente grottesca nello spettatore. Si nota ben presto, anche grazie all’atmosfera generale che pervade Immortality, che l’operazione compiuta dal videogiocatore nell’opera di Sam Barlow, cioè il gameplay, non fa altro che creare aberrazioni del genere attraverso l’associazione spesso casuale di vari spezzoni di girato. Questo fenomeno accentua, mediamente, la sensazione di stare manipolando materiale in cui sono spesso riprese situazioni abbastanza comuni, ma con la sgradevole sensazione che quello che si vede non sia mai tutto ciò che davvero è presente nella scena.
Si ha, attraverso questo sbandamento percettivo, l’impressione che l’invisibile sia sempre presente e, anzi, coesistente al mondo raccontato da Sam Barlow. Come in quegli horror psicologici, dove buona parte del terrore proviene direttamente dalla propria mente che immagina o addirittura simula qualcosa che non è per niente, o quasi, mostrato nell’opera stessa. Del resto, l’immagine in quanto tale, crea dei quadri cognitivi che orientano in continuazione la nostra interpretazione del reale e del fittivo.
È sexy, è moderno…
Aggiungiamo – come a ingrassare questo tipo di atmosfera creata dal montage brutal e, nel caso di Immortality, gestito dallo stesso videogiocatore – anche i continui rimandi a una sfera religiosa quasi parossistica, con apparizioni di demoni e madonne dal gusto decisamente retrò. Un pervadente senso di colpa di stampo cattolico, che unisce in un unico fil rouge tutti e tre i film e che va degradando di gravità, dal peccato mortale di Ambrosio (1968, mai distribuito) – in cui il frate protagonista scopre i piaceri della carne grazie all’aiuto di una certa donna, interpretata da Marissa Marcel – al semplice utilizzo del sesso come oggetto di scambio.
In generale si potrebbe fare un discorso a parte solo per quanto riguarda il tema religioso e spirituale di Immortality. Sam Barlow, non a caso, inventa un film come Ambrosio, fondato sulla scelta esistenziale tra la vita terrena e la vita del dopo vita. La prima sottoposta alle leggi della natura, mentre la seconda a quelle divine. Non fosse altro, perché si tratta di una scelta morale tenace nell’accompagnare il percorso e la storia dell’uomo civilizzato. La domanda è: a quale tipo di immortalità si vuole accedere, quella di Dio e dunque dell’oltretomba oppure quella meno eterea e piuttosto storica del ricordo terreno e del corpo?
Ambrosio affronta il tema frontalmente, riuscendo nel compito di descrivere la faticosa intermediazione tra Cielo e Terra. Trascendente e immanente, dunque. Un problema classico che tutte le religioni si sono poste prima o poi.
Come rielaborare il Faust.
I simbolismi messi in scena da Sam Barlow (assieme ai co-autori Barry Gifford, Amelia Gray, Allan Scott) in Immortality sono davvero innumerevoli, ma si potrebbero racchiudere in dei gruppi di appartenenza ben precisi: il doppio e la doppiezza. La rinascita, la ripetizione e la conservazione di se stessi. Il reale, il visibile e l’invisibile agli occhi. La deliberata confusione tra l’accezione fisica e spirituale di immortalità. Tutto è impregnato di una sorta di disillusione che sembra provenire dalla possessione diretta della verità. Ogni personaggio, infatti, presto o tardi interagirà in modo quasi sconveniente, si direbbe quasi fuori copione, mettendo così in discussione davvero ogni cosa.
Ancora, sul simbolismo: l’utilizzo dell’innocenza di una Marissa Marcel ancora giovanissima, come chiave per spingerla a scatenare un’adeguata carica erotica sul set, rappresenta in pieno la concezione contemporanea del gesto artistico, secondo cui è proprio l’innocenza a essere nemica dell’arte.
i simbolismi diventano difficili da contare già dopo qualche ora
Le Muse
In questo ultimo specifico contesto, quello della carica erotica, si nota in Immortality una fortissima allusione che riguarda appunto lo sfruttamento dell’innocenza e come questa sia assolutamente sostanziale alla necessità di fare arte. Marissa Marcel viene presentata, nel primo provino per il film Ambrosio del 1968, come una ragazzina indifesa e impreparata a quello che l’aspetta. Come una qualsiasi Shelley Duvall sul set di Shining (Stanley Kubrick, 1980), Marissa Marcel riceve continuamente incitazioni, da parte del regista, che la stuzzicano sul piano personale, per ottenerne un effetto sul set.
Sarebbe forse il caso di citare anche Maria Schneider, nel film Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972) in cui una situazione simile si produce sul set nella “famosa scena del burro”. Si è molto dibattuto in passato su questo tema, particolarmente nei casi di Shining e Ultimo tango a Parigi, come si accennava poco prima. Si è discusso se insomma, per descriverla in brutale sintesi, sia o meno giusto arrivare a fare del male alle persone per fare arte. L’ambiente del cinema, come descritto in Immortality, è una sofisticata metafora su più livelli di quello che rappresenta il concetto di innocenza per l’arte: in definitiva, nient’altro che un campo da invadere, conquistare e saccheggiare. Dunque, se crediamo a Immortality, potremmo pure azzardare en passant di posizionare Sam Barlow dalla parte di Kubrick e Bertolucci.
The one è sinonimo di irrequietezza…
Marissa Marcel, scivola dunque da un ruolo casto – fuori dal set – a uno di ammaliatrice faustiana in poche scene, segnando peraltro un percorso preciso, costellato di cattolico peccato. Non c’è bisogno di dire quanto questo passaggio sia decisivo nel rendere il personaggio (o meglio dire il meta-personaggio, dato che anche Marissa Marcel è un ruolo inventato), il doppelgänger accogliente di un essere soprannaturale, avido e parassitario come the one.
Dunque, l’essere in questione diventa il mezzo con cui l’artista (Marissa Marcel) trasfigura nella sua stessa arte (the one) e trascende dunque nell’immortalità; che di nuovo, è anche l’obiettivo ultimo del mistero cattolico.
…e tutto ciò che è metafisico è un’illusione.
Tornando al soprannaturale, la seconda musa di Immortality è per l’appunto the one. Un essere etereo e immortale che si infila nei corpi e nelle vite di persone che ritiene in qualche modo interessanti. Oltre ad essere una fenomenale performance d’attrice, a opera di una incredibile Charlotta Mohlin, rappresenta simbolicamente l’intero spettro del sentimento umano.
In particolar modo, Sam Barlow utilizza the one proprio come personificazione della foga dell’arte, la stessa di cui si discuteva in premessa a questo articolo. Charlotta Mohlin interpreta quindi lo spirito dell’artista totale in potenza, ma dalla prospettiva quasi unica del sentimento. Dalla gioia della contemplazione alla violenza della creazione, interpreta in tutto e per tutto la sofferenza e l’impeto della creazione artistica.
L’essere the one, infine – una cosa simile doveva abitare pure Gloria Swanson e chissà quanti altri in passato – è anche una chiara e definitiva rappresentazione dell’alter-ego.
Come rimettere il latte versato (su cui si è pianto) nel suo contenitore
È notorio che l’entropia dell’universo e le leggi della termodinamica ci impediscano di tornare indietro nel tempo. Naturale. Nonostante la maggior parte di noi vorrebbe poterlo fare, non si può. È una legge di natura. Partendo da questo presupposto è facilmente intuibile dove, ciò che è invisibile agli occhi, potrebbe nascondersi. Ora torniamo un attimo con la mente a Gloria Swanson e al suo Viale del Tramonto: perché si potrebbe trovare ancora un senso alla famosa risposta nella quale dice che lei, riferendosi a se stessa, è rimasta grande, è il cinema ad essere diventato piccolo.
Ogni tanto chieditelo.
In Immortality, il cinema diventa in effetti un luogo minuscolo e contenuto, dove tutto volendo è alla portata del videogiocatore. Tutto è scopribile, perché tutto può essere non solo, visto e rivisto, ma soprattutto perché lo scorrere naturale del tempo è alla mercé dei voleri del videogiocatore. Riavvolgere il tempo, tornare indietro è l’unico modo per vedere il soprannaturale, un’intuizione a nostro avviso particolarmente brillante da parte degli autori. Anche perché tornare indietro nel tempo, in questo caso non vuol dire rifare, ma limitarsi a rivedere. Serve quindi solo alla comprensione, a capire il mondo.
Immortality è una creatura che ti fissa, ti ipnotizza, mentre la mente non fa altro che suggerirti queste parole in sequenza: sangue, arte, invisibile, misticismo, astrazione religiosa, ricordo, immortalità.
“Non è più possibile l’ingannarci o il dissimulare. La filosofia che ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile. O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto.”
Operette morali, Frammento sul suicidio, di Giacomo Leopardi, a cura di Walter Binni e Enrico Ghidetti
Tutte le opere, vol. I, Firenze: Sansoni Editore, 1969
La giusta fine.
Per finire, Immortality, racconta della consumazione di se stessi. Ci descrive, noi umani affetti da umane passioni, come candele che bruciano nel tempo. È anche per questo motivo che the one confessa, in un’intervista, come quello di bruciare sia il modo migliore di morire, perché si ha la minore probabilità di ricomporsi. Bruciamo con l’unico combustibile dell’arte e con l’unico obiettivo del ricordo proprio perché la natura ci impedisce il contrario. Lasciare traccia di sé dopo la propria scomparsa, diventa infatti l’unico mezzo privo di rimpianto.
VV