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Playdead: il silenzio è di chi lo riempie

Prima che sorga l’alba vegliamo nell’attesa, tace il creato e canta nel silenzio il Mistero

Incipit di Prima che sorga l’alba, inno delle monache Trappiste di Vitorchiano

Le monache appartenenti alla comunità di Vitorchiano dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza – meglio conosciuto come Ordine Trappista1 – cantano questo inno nel primo dei sette momenti comuni di preghiera giornaliera, alle tre e mezza del mattino. Molto prima dell’alba, in un momento ovviamente di silenzio assoluto, le monache si ritrovano per ricordarsi che in quel silenzio è più facile riconoscere, abbracciare e rapportarsi con il “Mistero”, cioè con Dio, un Dio inconoscibile se non per Sua stessa iniziativa.

Per le monache di Vitorchiano, il silenzio è un momento privilegiato, lontano dal rumore, dalle distrazioni e da pensieri mondani (per quanto possano essere mondani i pensieri di un gruppo di monache di clausura). Non basta il silenzio di per sé, però: non è per tutti questo momento privilegiato, e non lo è a tutte le condizioni. Affinché lo sia è necessaria l’attesa, la predisposizione a farsi invadere dall’esterno senza riempire di cianfrusaglie quello spazio così sacro.

Le monache, insomma, riconoscono la necessità di uno spazio da riempire da qualcosa d’altro, e prima dell’alba si pongono in attesa di questo inconoscibile che si mostra nel silenzio, qualcosa che spogli dalle piccole pretese personali e colmi di senso il mondo. Per le monache il silenzio è il luogo d’azione del senso e del Mistero ma, anche uscendo dal trascendente più stretto, è possibile concordare che il silenzio sia spesso fondamentale a tutti noi per riflettere, mettere in ordine, pensare, laddove il rumore ci costringe a distrarci, quando non viene utilizzato appositamente a questo scopo.

Nel mondo dei videogiochi è Playdead ad aver meglio saputo giocare con il silenzio, creandolo e riempiendolo con i suoi Limbo (2010)e Inside (2016). Nei suoi (finora) due titoli, il silenzio è un’arma potentissima, uno strumento narrativo e ambientale. Il silenzio di Playdead non è un escamotage, una semplificazione del racconto, ma è un’assenza che diviene spazio d’azione per il giocatore, parlandogli in continuazione, con tono mai gentile e talvolta anche opprimente.

L’essenza di Limbo, in un’immagine.

La software house danese è stata fondata nel 2006 da Arnt Jensen e Dino Patti, due developer delusi dalle loro esperienze lavorative precedenti nel mondo dei videogiochi. Jensen, dopo un periodo relativamente breve come Concept Artist in IO Interactive, si era scontrato con la complicata routine della vita in una grande azienda, dove è difficile lasciare che la propria creatività si metta in mostra e porti frutto.

Lavorando nel tempo libero ad alcune concept art destinate a diventare la base per Limbo, Jensen si accorse di non poter continuare da solo, e riuscì in qualche modo a far salire Dino Patti a bordo del progetto. Quest’ultimo, dopo aver lavorato allo sviluppo di giochi non indimenticabili per MediaMobsters/Sirius Games2, si era ritrovato in una situazione simile, sentendosi schiacciato tanto dalla durezza dei ritmi, quanto dai limiti imposti dalle necessità economiche dell’azienda per cui lavorava.

Playdead nasce quindi da questo nucleo, ed è particolarmente interessante notare come l’elemento alla base di questa unione sia un naturale desiderio di creatività, o meglio l’amore intrinseco per la creazione di qualcosa di nuovo e proprio, che emerge nonostante o forse proprio a causa della aridità quotidiana, del vivere che taglia le gambe descritto da Cesare Pavese3, vissuto nel contesto di una realtà corporate percepita come opprimente e totalizzante. 

Da progetto individuale Limbo diverrà via via più grande e complesso, e conseguentemente lo stesso team di sviluppo si estese di pari passo con le ambizioni: fra tutte, l’aggiunta più rilevante è certamente quella di Jeppe Carlsen, che nel giro di poco tempo passò da essere un semplice programmatore a Lead Gameplay Designer di tutto il gioco, per via del suo ormai indiscutibile genio (come vedremo più avanti).

Ed è proprio da Limbo che è necessario partire, tenendo bene a mente che, nel tempo, le due opere di Playdead hanno creato epigoni, più o meno direttamente connessi all’immaginario e al carattere dei suoi giochi. In questo contributo sono analizzati soprattutto Somerville (Jumpship, 2022) e COCOON (Geometric Interactive, 2023); dopo aver scoperto quale sia l’ingrediente segreto di Playdead, è tempo di capire quanto e come sia stato ripreso – e utilizzato – dai suoi parenti, vicini e lontani.

Urla nel silenzio, dentro l’angoscia

Limbo è un titolo ludicamente essenziale, formato da un susseguirsi ben ritmato di puzzle nel contesto di un platform 2D. I puzzle sono una combinazione convincente ed estremamente varia di interazioni ambientali e platforming incentrato su fisica e tempismo. Proprio l’ottima riuscita e la varietà del tutto riesce a dare lustro al gameplay, che sembra rimescolare continuamente le carte dei propri elementi base per creare sequenze diverse l’una dall’altra.

La forza clamorosa di Limbo non risiede però nei puzzle ben torniti, quando nel suo contesto narrativo e nel suo setting: dal primo all’ultimo istante di gioco si è completamente coperti da un mistero opprimente e ipnotico. Nei panni di un ragazzino che non parlerà per tutta la durata del titolo, ci si sente ciechi rispetto all’identità, allo stato e alle intenzioni del PG, e ci si muove in uno spazio d’ombra perpetua dove i volti e i confini non sono mai perfettamente definiti.

Insomma, è un lavoro che punta sulla vaghezza e sul malessere come chiave di lettura di ogni mossa.

Uno dei concetti chiave di Arnt su questo gioco è che sarebbe dovuto essere più ambiguo, e ogni giocatore avrebbe avuto le sue impressioni. L’intero concetto delle visuali, l’orizzonte sempre sfumato, consente di proiettare le tue considerazioni attraverso gli spazi. Ho provato a fare lo stesso con il suono, mediante l’utilizzo del rumore e delle strutture–inizi a sentire cose che non sono lì.

Martin Stig Andersen, Audio Director, Composer e Sound Designer di Limbo e Inside – Intervista a IGN.com, 2010 – traduzione di Alfredo Savy

In questo contesto di mistero e angoscia, il nostro sguardo finisce catturato dagli orrori continui proposti dall’ambientazione, ricco di morte, desolazione e abitato da NPC muti quanto il protagonista, probabilmente in continua lotta per la sopravvivenza in un mondo con nessuna propensione al perdono.

I puzzle stessi sono spesso finalizzati a scappare da qualche orrore per proseguire in un viaggio apparentemente disperato; e così, senza capire bene cosa stia accadendo, si finisce spesso per procedere con la stessa incertezza del protagonista muto, accompagnati da una musica ambientale strettamente essenziale ma mai veramente assente.

Le poche figure presenti in Limbo saranno altrettanto mute.

È proprio la colonna sonora ad essere, forse paradossalmente o forse ovviamente, il miglior esempio di un silenzio che non sia puro vuoto. Martin Stig Andersen, Composer e Sound Designer fa notare che:

Ci sono molte persone che pensano che non ci sia musica in Limbo. Se leggete le review è come se non ci sia alcuna musica nel gioco. Penso sia molto interessante.

Martin Stig Andersen, da un’intervista a Designing Sound, 2011

Questa sensazione di assenza, si può dire perfettamente studiata, estremamente coerente con l’idea di vaghezza e mistero alla base del titolo, è un ingrediente fondamentale per la ricetta Playdead. Se infatti è vero che in Limbo non c’è una colonna sonora “tradizionale”, con melodie ben identificabili, il gioco ha un ricchissimo ventaglio di musiche e suoni evocativi ma sfuggenti, di elementi calibrati per colpire nel vuoto. Non nonostante il vuoto ma, più propriamente, attraverso di esso.

Gli effetti sonori più immediatamente percepibili sono un riflesso della desolazione: i rimbombi dei nostri passi sulla terra o sul metallo, oppure lo sferragliare delle mortali attrezzature di mostruose fabbriche in cui si vaga senza chiara meta. Andersen però comunica molto attraverso il vuoto, attraverso la rimozione, come testimoniato dalla sequenza dell’inseguimento dal ragno gigante, forse la più spaventosa del titolo:

Ho sperimentato dando un po’ più di rumore agli altri personaggi. È come se fossero più spaventosi quando non hanno voce. L’inseguimento del ragno era molto più drammatico quando ho tolto tutti i suoni, così da avere solo un mondo (fatto) di suoni ovattati. L’unico suono che il ragno emette è quando cammina nell’acqua, il che non ha molto senso. Diventa semplicemente molto più intenso che fare qualcosa di grande.

Martin Stig Andersen, Audio Director, Composer e Sound Designer di Limbo e Inside – Intervista a IGN.com, 2010 – Traduzione di Lara Dal Cappello

Una sequenza in cui la paura è incrementata da effetti ambientali ovattati e il suono del ragno inspiegabilmente presente solo quando attraversa l’acqua per brevi istanti, aumentando la tensione complessiva. Una combo micidiale, apparentemente controintuitiva, che esemplifica al meglio quella che è l’alchimia Playdead.

Tutto quanto descritto finora per Limbo è esponenzialmente vero per Inside, una sorta di seguito spirituale uscito nel 2016 e, a opinione di chi scrive, uno dei migliori titoli del decennio4.

Nascosti e spaventati, ma non sappiamo veramente da chi.

Inside è a tutti gli effetti eccezionale e rappresenta una evoluzione diretta di Limbo, mantenendone quasi del tutto inalterata la struttura ludica, raffinandola ai massimi livelli e in più esaltando il rapporto, o meglio addirittura l’interazione, fra silenzio e gameplay. Anche in Inside si procede a tentoni nei panni di un ragazzino, ma mentre in Limbo il mistero rimaneva fondamentalmente stabile, in Inside si percepisce una sorta di progressione, di discesa nell’abisso con la nostra involontaria complicità.

Dalla foresta al paesino fino al laboratorio e ai sotterranei, ogni passo è più grave del precedente, ogni contesto più disumano. Si assiste a esperimenti inquietanti e prima di rendersene conto le azioni del fruitore si mescolano con gli esperimenti stessi tanto che, proseguendo nell’avventura, avanzeranno di pari passo dubbi sempre più forti sulle intenzioni del controllato, come se fossero diverse da quelle del controllore, come se nella sua mutezza sempre più inquietante non fossimo noi a controllare lui ma, al contrario fosse lui a controllare noi, esattamente come controlla gli uomini vittime di tremendi esperimenti con l’ausilio di misteriosi macchinari.

Mentre sullo sfondo si assiste a orrori inconoscibili, mai descritti neanche con una pallida nota di testo e nemmeno tramite cutscene, ci ritroveremo in prima persona a manovrare uomini come cavie, distruggere laboratori, scampare con meticolosa precisione a macchinari assassini, senza che sorga una voce a dirci perché questo tormento. Inside è un gioco senza speranza, un gioco che dal suo silenzio estraniante estrae forme, grigi incubi, fino all’incredibile finale che conferma la presenza di un’ombra gigantesca su tutto il nostro agire ma senza mai tratteggiarne puntualmente i confini.

È interessante notare che, in questo contesto, il tropo del protagonista silente viene impiegato all’opposto del suo utilizzo più tradizionale. Se tipicamente la silenziosità del protagonista viene utilizzata per facilitare l’immersività nel gioco e la sovrapposizione fra giocatore e personaggio su tutti Link, nella serie di The Legend of Zelda), nei giochi Playdead la volontà è esattamente opposta, e la mutezza viene utilizzata per creare distanza, inconoscibilità e mistero.

Il silenzio non è una scorciatoia

Sembra evidente che la somma di enigmi e platforming sia l’elemento che caratterizza ludicamente i giochi Playdead. A questi, come abbondantemente chiarito, è legato l’utilizzo del silenzio e del mistero, per estraniare il giocatore e impedirgli di padroneggiare davvero l’avventura al di fuori dei puri meccanismi ludici.

Se questo è così chiaro sulla carta, evidentemente è difficile da replicare all’atto pratico. Ci ha provato per esempio Planet of Lana (Wishfully, 2023), un discreto puzzle-platform 2D i cui autori citano esplicitamente Limbo e Inside fra le proprie ispirazioni ma che, pur intrattenendo, arriva abbastanza lontano dal risultato sperato.

Nonostante i bellissimi colori sgargianti, anche Planet of Lana ha risvolti spaventosi.

Il caso più plateale di emulazione fallita è però rappresentato da Somerville, che pur replicando tentativamente gli stilemi di Limbo e Inside manca completamente gli obiettivi che si prefigge, nonostante sia stato realizzato addirittura da Dino Patti, co-founder di Playdead stessa.

L’ambientazione è semplice ma adatta allo scopo: un’invasione aliena dalle motivazioni misteriose sta facendo sparire la popolazione, mentre il protagonista si trova separato dalla sua famiglia5. Sulla scena giungono degli “eroi” dalle motivazioni mai chiarite, che supporteranno l’avatar nella sua corsa verso il ricongiungimento con la famiglia e il riscatto del pianeta. Sulla strada del PG troviamo i consueti enigmi, sempre basati su interazioni ambientali e platforming, questa volta in un ambiente tridimensionale. Il tutto, naturalmente, senza che una singola parola venga pronunciata dai personaggi, e senza che nulla di quanto accade venga chiarito sufficientemente.

Ecco, gli ingredienti sembrano quelli richiesti, ma i problemi sono soverchianti. In primis è la parte ludica a stonare: gli enigmi di Inside erano sempre contemporaneamente intuitivi e complessi, caratterizzati da una varietà impressionante. In Somerville questo standard di bellezza e rifinitura non è mai raggiunto neanche lontanamente, e anzi le più importanti difficoltà nella progressione le incontriamo scontrandoci con la fisica non particolarmente precisa del titolo.

Non è comunque questo il problema più grave. Quello che manca davvero è la seconda parte, il rapporto con il silenzio e il mistero. La mutezza dei personaggi era in Limbo e soprattutto Inside un elemento connaturato al gameplay, che rivestiva di profondità. Togliendo l’incomprensibilità delle nostre azioni dall’incedere del protagonista di Inside, semplicemente non avremmo potuto godere del racconto e non ci saremmo sentiti in dubbio su noi stessi e sul perché delle nostre azioni. Conoscendo il fine ultimo del ragazzino, forse, avremmo potuto avere la libertà di smettere di giocare, rompendo il velato miscuglio di ruoli fra controllato e controllore che sta al cuore della corsa del PG.

In Somerville non c’è niente di tutto questo. Il silenzio è un semplice muro interposto fra noi e la comprensione di quanto accade nel mondo, finendo per essere addirittura un limite all’empatia che si sarebbe voluta creare con il PG e la sua famiglia dispersa. Non c’è alcun vantaggio comunicativo, né in termini di comprensione degli avvenimenti né di impatto emotivo, nel non capire cosa succede fra l’uomo e la sua famiglia, o fra l’uomo e i misteriosi eroi che lo circondano.

Una famiglia a cui ci si sarebbe potuti affezionare. Purtroppo è impossibile.

È così che in Somerville il silenzio è puro vuoto, senza valore aggiunto. Questo vuoto ci aiuta però a capire meglio il segreto dei giochi Playdead, e non è un caso che anche in questo caso il valore del silenzio emerga per differenza, in negativo. La caduta di Somerville ci parla: non basta prendere degli enigmi e appiccicargli addosso un silenzio inconsistente e di contorno per replicare il successo di Limbo e Inside. Il silenzio di per sé non offre nulla al giocatore, se non la tiepida soddisfazione di farci dipanare i fotogrammi nascosti per comprendere appieno quanto stia accadendo nel mondo di gioco, magari per raggiungere un finale segreto.

Il silenzio come elemento di game design è tutt’altro che un escamotage, una scorciatoia per veicolare emozioni. Va padroneggiato per farne spazio d’azione, per far parlare il gioco con il mistero, altrimenti l’effetto che si rischia di ottenere è semplicemente il calare dall’alto un enigma che sembra piuttosto un quiz su un gioco che ha altri obiettivi, altro contenuto.

Fuori dal BOZZOLO

Se Dino Patti sembra non aver imparato la sua stessa lezione, lo stesso non si può dire di Jeppe Carlsen, l’esuberante Lead Gameplay Designer di Limbo e Inside. Anche lui separatosi da Playdead, nel settembre 2023 ha rilasciato COCOON con la sua nuova software house Geometric Interactive.

Carlsen ha evidentemente un’altra indole, altri desideri rispetto a Jensen e Patti. Da Lead Gameplay Designer il suo ruolo era quello di studiare puzzle e meccaniche, costruendo così lo scheletro a sostegno della carne, composta dal mistero e dall’alienazione del gioco, e formando un unico corpo armonico. Il suo compito nei giochi Playdead (soprattutto in Inside) è certamente riuscito alla perfezione, considerando il perfetto equilibrio dei titoli e lo strettissimo legame fra puzzle e tono dei due giochi.

In questo senso COCOON è il perfetto figlio di Carlsen: dall’inizio alla fine del titolo assistiamo ad un susseguirsi di puzzle stupefacenti, che combinano complessità e intuitività a vette mai raggiunte nemmeno dallo stesso Inside, da cui il gioco si allontana per struttura e meccaniche. Abbandonando il puzzle-platforming 2D e mettendo quasi completamente da parte le meccaniche basate sulla fisica, COCOON costringe il giocatore a ragionare sull’utilizzo di abilità legate ad alcune sfere, al cui interno sono nascosti mondi in cui potremo entrare, portandoci dietro altre sfere con altri poteri da estrarre al momento opportuno.

Più complicato a dirsi che a giocarsi, garantito, ma ancora più complicato da pensare. Carlsen compie un vero e proprio capolavoro visionario, aggiungendo layer su layer di complessità nel procedere del gioco, eppure rendendo in breve tempo il giocatore abile a padroneggiare meccaniche estremamente intricate. Si tratta di uno dei migliori puzzle game dei tempi recenti, nonché uno dei migliori titoli in assoluto del 2023.

Nonostante il focus sulle meccaniche, comunque, è innegabile quanto su Carlsen sia ben impressa l’impronta Playdead anche al di fuori degli elementi che lui stesso ha creato per la software house danese., in primo luogo, l’approccio minimalista al gameplay. Nonostante l’intricata architettura dei livelli e dei mondi interdipendenti, tutto il gioco viene completato con l’ausilio di un solo tasto. Inoltre, di nuovo, il silenzio e il mistero degli eventi.

Come nei giochi Playdead, si è calati in un mondo misterioso ed alieno, e ci si ritrova a muoversi con incredibile naturalezza in un contesto di cui non si conosce nulla fino alla fine, dominato da leggi fisiche incomprensibili. Il personaggio giocante, un umanoide-coleottero piuttosto operoso, sembra avere un chiarissimo compito in mente, che il fruitore, al contrario, può afferrare solo marginalmente. Viene, infatti, compreso solo come abbia vagamente a che fare con la rinascita dei vari mondi che vengono trasportati e in cui ci si muove.

Un assaggio del setting e degli articolati puzzle.

Non solo silenzio e mistero, ma anche un velo di angoscia, di inquietudine. C’è qualcosa che non funziona in questo universo, ci sono tracce di spaventose macchine ricche di infiniti cavi quasi provenissero dall’universo di Matrix (Wachowski, 1999), che anche qui sembrano avere a che fare con il tenere in vita creature per scopi misteriosi. Di bellezza, nonostante la ricchezza delle ambientazioni in certi frangenti, ce n’è davvero poca.

A differenza che in Limbo e Inside, però, questo aspetto non si fonde mai troppo con il gameplay, e non si pone mai al cuore della produzione. L’interesse di Carlsen è la meccanica in sé, e il muto contesto non ruberà mai il posto a nient’altro, rappresentando però un valore aggiunto piuttosto evidente al titolo, senza mai risultare incoerente.

In questo senso COCOON ha fatto tesoro della formula Playdead, da cui estrae profondo valore, senza però poter rientrare completamente nella categoria di quelli che, con notevole sforzo di fantasia, si potrebbe definire Playdeadlike, al contrario di Somerville o del citato Planet of Lana.

Una lezione che potrebbe portare frutti

Il magnetismo di Limbo e Inside è un dato di fatto. La difficoltà nel replicarne la formula, anche. Eppure un utilizzo misurato della ricette Playdead può essere un grande valore aggiunto anche senza la necessità di ricalcarne pedissequamente le atmosfere, senza pretendere l’indistricabile intreccio fra il mistero e lo stesso gameplay: è quello che accade in COCOON in fondo.

Bisogna per forza mettere al centro il tormento, il dolore e l’angoscia per essere come Playdead? No, non per forza. Potrebbe bastare l’utilizzo ponderato del mistero e dello sconosciuto. Una “cura Playdead” avrebbe fatto profondamente bene per esempio a Jusant, (DON’T NOD, 2023), un gioco radicalmente diverso da Limbo/Inside e che pure ha però ampi tratti in comune con loro.

L’arrampicata di Jusant è piuttosto ben riuscita. Peccato ci sia poco altro.

Il più importante ed evidente è proprio il silenzio e il mistero che circonda gli accadimenti del mondo di gioco. Il suo scenario desolato e arido sarebbe il perfetto sposo per una narrazione à la Playdead: la protagonista deve infatti arrampicarsi sui fianchi ripidi di una montagna che sembra infinita, lungo le cui sporgenze si è sviluppata una civiltà che si è però dileguata, scappata alla ricerca di un’acqua un tempo abbondante e che oggi sembra quasi sparita dal mondo.

Jusant è un’ottima avventura rilassante che vorrebbe fondarsi sul mistero che attanaglia il mondo nel silenzio della sua protagonista, ma ha un limite piuttosto evidente nella gestione del suo racconto. Le vestigia degli insediamenti umani sul fiano della montagna si vedono ma non si vivono, troppo somiglianti l’un l’altra e raramente parta attiva del percorso. La componente narrativa risulta quindi affidata quasi unicamente a messaggi di testo sparsi per i livelli, con una narrazione ambientale minimale e schiva, secondo uno schema più consono ad un gioco che non abbia la pretesa di imperniarsi su un setting così unico e caratteristico.

Davvero: della ricetta Playdead avrebbe beneficiato Jusant, ma evidentemente la calibrazione dei suoi elementi costitutivi è ancora molto difficile da padroneggiare per altre software house. Una sorte parzialmente simile a quella di From Software, che ha visto un enorme numero di emuli replicarne i paradigmi con successo variabile. In alcuni casi però la formula cosiddetta Soulslike è stata indossata da titoli ricchi e meritevoli: un destino che speriamo capiti presto anche ai Playdeadlike.

FSF


NOTE:

1 L’Ordine Trappista, conosciuto a livello internazionale soprattutto per la produzione di birra, è relativamente noto in Italia per la produzione di ottime marmellate e confetture.

2 Gangland, 2004, ed Escape from Paradise City, 2007.

3 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, 1947.

4 Si veda in proposito il pezzo di Alfredo Savy proprio per POP-EYE.

5 Presupposti peraltro praticamente identici a quelli del già citato Planet of Lana.


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