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Tunic è una sfida all’abisso della contemporaneità digitale

La nostalgia è un sentimento controverso. Il rimpianto per il passato può essere infatti dettato, più che da un giudizio di merito su problematiche reali del presente, da un malcelato desiderio di tornare a un periodo più semplice per sé, un non-luogo dove i problemi non erano percepiti, le difficoltà avevano scala ridotta e la morte sembrava talmente lontana da esistere solo per gli altri. Un altro problema della nostalgia è che vende, e come tutto quello che vende è presto mercificata, riprodotta artatamente, svilita. Nel mondo del gaming lo si vede ormai ovunque e continuamente, tanto che è inutile indugiare ad elencarne i casi specifici: il fenomeno è naturalmente vivissimo in tutti i contesti umani.

La nostalgia però può anche essere uno strumento utile, una bacchetta da rabdomante per individuare quanto si sia perso nel tempo, e che meriterebbe di essere recuperato. Tunic nasce precisamente da questo senso di nostalgia, dalla scoperta che nel corso del tempo qualcosa è andato tremendamente perduto. Che cosa sia questa cosa che Tunic prova a recuperare, però, è meno scontato di quanto sembri.

Reinventare la ruota

Intendiamoci: il programmatico recupero del passato è un obiettivo manifesto di Tunic. Basta avere una minimale memoria storica del videogame per rendersi conto di quanto sia chiara l’intenzione di riportare a nuovo un set di meccaniche, platealmente ripreso dai primissimi Zelda per NES, che in tempi recenti è sembrato andare perduto. Che questo sia il desiderio lo si capisce fin dalla prima schermata, fin dal titolo del gioco.1

Per non dilungarci nello spiegarne il perché useremo le dirette parole del creatore stesso di Tunic, Andrew Shouldice:

The core of it was the desire to make a game that captured the same feelings of playing a game as a kid. Say, a NES game. Playing the game, flipping through the manual, and trying to understand this cryptic world. There are lots of games out there that try to evoke nostalgia because they look, and play, and sound like classic games. But it was really that feeling of wonder and exploring the unknown that I wanted to capture.

Andrew Shouldice, intervista a Gamerant.

Il recupero effettuato in Tunic non è quindi cosmetico. Non si fa carne tramite un pretenzioso comparto grafico di stampo retrò né trapiantando tout court usurate meccaniche di gameplay, ma va al cuore della grandiosità dell’esperienza: il senso di libertà e di mistero, la forza della scoperta continua totalmente dipendente dalle scelte e dalle intuizioni del giocatore.

I richiami visivi a Zelda sono costanti per tutta l’avventura.

Ad ulteriore testimonianza della opportunità di questa operazione ci sono le mosse della stessa Nintendo che, nel 20172, dopo un periodo relativamente di stanca della serie Zelda, fece uscire quel rivoluzionario Breath of the Wild la cui grandezza sta, in larghissima parte, nell’aver trasportato nel presente queste stesse peculiarità.

Nostalgia della realtà

La nostalgia di Tunic però non è semplicemente rivolta ad un modo antico di fare videogiochi. Il sentimento alla base è più profondo ed universale, e ci parla di un desiderio di realtà e di fisicità ineliminabile dal cuore dell’uomo, ma che la contemporaneità digitale ostacola e tenta perpetuamente di estirparci.
È questo che rende Tunic un’esperienza pregna e memorabile.

Il coloratissimo mondo di gioco.

In Tunic, questo desiderio di solidità prende diverse forme. La prima e più immediata all’occhio è la veste grafica: il colorato mondo low-poly, con i suoi giochi di luce e la sua struttura a livelli orizzontali sovrapposti, ricorda le sembianze di un diorama o, meglio, di un libro pop-up. L’impatto visivo è quindi straordinariamente plastico, quasi tattile, ed è un ulteriore rimando anche al tentativo di Shouldice di riportare in vita le sensazioni provate durante l’infanzia.

Lavatevi le mani prima di maneggiarlo.

Una seconda e ancor più importante forma di questa ribellione alla tirannia dell’informazione digitale, è l’ormai celebre manuale d’istruzioni presente all’interno del titolo.

Il manuale, composto da una cinquantina di pagine sparse nel mondo di gioco, va ricostruito man mano che si avanza nell’avventura e presenta al suo interno un mare di suggerimenti e indicazioni, tanto sui comandi (facendoci scoprire magari dopo ore di gioco meccaniche disponibili dall’inizio ma quasi impossibili da concepire autonomamente) quanto sulla lore, fornendoci poi mappe, indizi, carezze.

Aldilà dell’originalità della soluzione, la chiave di volta di questo manuale è il suo essere oggetto, oggetto fisico inserito in un contesto digitale. È un libretto vero, fatto di pagine strappate da ricomporre: è sgualcito, scolorito ai bordi, presenta tagli e strappi e appunti in corsivo. È fisico anche nella sua navigazione, che scorre pagina dopo pagina accompagnata da una animazione che vuole in tutto e per tutto restituire la fisicità dell’esperienza.

Presenta, per dirlo con le parole di Byung-chul Han, le caratteristiche di un vero e proprio oggetto e non di una pura informazione digitale:

La parola oggetto viene dal verbo latino obicere, che significa opporre, contrapporre, obiettare. In essa è insita la negatività della resistenza. Originariamente, l’oggetto è qualcosa che mi oppone resistenza, mi si contrappone e mi resiste. […] Gli oggetti digitali non possiedono la negatività dell’obicere. Non li percepisco in quanto resistenza.

da “Le non cose: Come abbiamo smesso di vivere il reale” di Byung-chul Han, Simone Aglan-Buttazzi.

Diversamente dagli oggetti puramente digitali, dunque, il manuale di istruzioni di Tunic oppone resistenza, richiede una conoscenza sensoriale e quasi tattile. Le informazioni di cui si fa portatore vengono scoperte solo impegnandosi in una relazione diretta con esso, perché le indicazioni sono nascoste al suo interno anche e soprattutto per forma non scritta, dato che la lingua parlata (e scritta) nel mondo di Tunic non viene mai tradotta e resterà sempre inintelligibile e misteriosa.

La contemporaneità digitale invece ci impone indicatori, segnali, tutorial, anche wiki dedicate a ogni angolo di umanamente sperimentabile, sottraendo così ogni carattere di riottosità alla realtà e, in ultima analisi, annullando l’altro e derubricando il mistero a residuo del passato. La digitalizzazione è in primo luogo informazione, ubiqua informazione la cui onnipresente disponibilità ha caratteri pornografici.

La qualità dell’obicere viene così a mancare del tutto: Tunic rifiuta questa pornografia del sempre disponibile e la sostituisce con l’erotismo della realtà oggettuale, sempre velata di un mistero irriducibile. La relazione che si crea con il manuale di istruzioni di Tunic ricorda quindi quella descritta da Antoine Roquentin, protagonista della Nausea di Sartre:

Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di piú. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive.

da “La Nausea”, di Jean-Paul Sartre.

It’s dangerous to go alone

La nostalgia della realtà è anche, in Tunic, la nostalgia della comunità. Nei piani di Shouldice vi era proprio anche questo: provare a reinstillare il desiderio di vivere il gioco all’interno di una comunità il più possibile reale e carnale. Con le parole di Harris Foster, Senior Community Manager di Finji, producer di Tunic:

It has a feeling of mystery that I haven’t felt in 15 years. We have the internet now, which makes these things way easier, but Tunic makes you want to get out there and talk to your friends about it.

La misteriosità insita nell’incedere seguendo le indicazioni sommarie del manuale, scritte nel suo linguaggio indecifrabile3, e tutto il progressivo disvelarsi degli aspetti più cupi e tragici del mondo di gioco, fanno venire voglia di comunicare, di relazionarci direttamente con qualcuno per condividere le esperienze vissute e aiutarci nella progressione. È questa la nostalgia di un tempo meno digitalizzato, in cui la nostra relazione con l’Altro, con gli amici di scuola, era una componente fondamentale anche del videogioco stesso.

Foster afferma quello che sembrerebbe un paradosso: Tunic ti fa venire voglia di uscire a parlarne con gli amici sebbene con Internet le cose sarebbero più facili. In realtà, più che un paradosso, è proprio la facilità della Rete a scatenare, in un gioco dall’indole “erotica” e non “pornografica”, il desiderio di condivisione diretta, fisica e reale con l’Altro. In questo senso, Tunic prova a costruire Comunità, ovvero gruppi di persone prossime che si fanno culla di cultura. È l’opposto della community imposta dai giganti del mondo digitale, che della comunità è solamente una mercificazione e commercializzazione, e quindi in ultima analisi uno svilimento.

Aprire quel magnifico portone dorato è uno di quei momenti che vorrete condividere.

Questo tentativo è di nuovo testimoniato dal noto Discord creato dai developer specificatamente per i reviewer, invitati al suo interno prima del lancio. Anche in fase di embargo, evidentemente, Shouldice non poteva concepire Tunic senza la sua dimensione fortemente comunitaria.

Riscoprire per riconquistare

[DISCLAIMER: da qui in poi l’articolo contiene spoiler su Tunic]

La riscoperta della realtà e della comunità non si ferma però né al libretto né all’incoraggiato e suscitato desiderio di relazione con uno o più amici. Nell’ultimo quarto del gioco queste dinamiche si contestualizzano all’interno dell’avventura stessa del nostro volpino protagonista, e riverberano nelle azioni che ci si trova a dover compiere.

Nello scorrere del gioco ci troveremo infatti a perdere letteralmente il nostro corpo fisico, vagando come spettri nel mondo. Durante questa fase il mondo sarà trasfigurato: la palette passerà da vividi colori naturali (su tutti il verde di alberi e prati) a colori elettrici: azzurri e viola che non stonerebbero sulle insegne al neon della Los Angeles di Blade Runner, o ancor meglio nell’universo di Tron. Inoltre, il mondo si popolerà di svariate volpi nostre simili. Questi personaggi sconsolati, sparsi in gran numero nel mondo di gioco, saranno comunque tutte monadi indistinte, e anzi sarà proprio la loro quantità a rafforzare l’effetto di isolamento, in quanto parleranno tutte quel linguaggio indecifrabile già citato.

Così tante persone (o volpi) e così poco da dirsi: enfatizzato dal contesto estetico che fortemente rimanda al virtuale, quello rappresentato è davvero il mondo virtuale delle community, dove ognuno produce sé stesso piuttosto che rapportarsi all’altro.

A salvarci da questo impasse sarà allora la riscoperta di sé e del proprio corpo. Saremo, infatti, chiamati a recuperare le nostre caratteristiche fisiche, i nostri upgrade conquistati nel corso dell’avventura fino a quel momento, in un percorso che culminerà proprio con il riportare mondo al contesto iniziale, permettendoci così di completare la nostra missione salvifica; missione che, per dirsi veramente completa, dovrà di nuovo affidarsi al nostro ormai amato manuale di istruzioni. Esaminandone ogni centimetro potremo infatti scoprire ancora nuovi segreti e indizi, che infine ci porteranno a completare il manuale stesso e sbloccare il vero finale.

Sarà proprio utilizzando il manuale completo che, nelle parole del gioco stesso, potremo “condividere la nostra conoscenza” con l’Erede, il boss finale del gioco il quale, invece di sfidarci a duello, al tocco del manuale riconquisterà il proprio corpo, esattamente come già successo al protagonista. Si inginocchierà, poi, di fronte alla nostra volpe in una posa simile a quella che assumeva subito dopo averci sconfitto in battaglia, quasi perdono di quanto ci faceva morire.

Invece di un cupo duello dal triste destino, dunque, l’epilogo definitivo scioglie la costante ambivalenza del gioco, sempre sospeso fra giocosità e angoscia, e regala immagini di pura letizia, ricche di momenti spesi, in compagnia del nuovo amico trovato, ad esperire il magnifico mondo del gioco, annusandone i fiori, visitandone gli angoli sperduti e a riposando all’ombra dei suoi grandi alberi.

La conclusione di Tunic è quindi il trionfo della realtà e della relazione con l’Altro, contro l’atomizzazione della contemporaneità ultradigitalizzata e strabordante di community. E poco importa che si stia parlando di un videogioco. Poco importa che Shouldice ha provato a fare comunità partendo da Discord, che naturalmente è esso stesso un canale digitale, così come poco importa se, in fondo, il manuale di istruzioni è digitale anch’esso. Ancora: Tunic è distribuito unicamente per via digitale, e pure attraverso il Game Pass, ovvero il canale di distribuzione meno fisico in assoluto, tanto da non darci nemmeno l’effettiva proprietà del titolo.

Gira a destra per girare a destra.

Poco importa, dicevamo: l’esperimento è predigitale nelle intenzioni, anche se il tentativo resterà inevitabilmente ironico. Dopotutto è emblematico che internet, come era ovvio aspettarsi, abbia preso e sputato Tunic, producendosi nelle consuete, minuziose guide che ne violentano gli intenti. Tutto questo sembrerà paradossale, ma come afferma l’anonimo curatore della Fondazione Elia Spallanzani4 molto spesso i cosiddetti paradossi non sono altro che ovvietà mascherate dal linguaggio.
Paradossalmente.

FSF


NOTE:

1 La tunica del titolo è un chiaro riferimento a quella indossata da Link, pressoché identica a quella indossata dalla volpe protagonista.

2 Vale la pena di ricordare che lo sviluppo di Tunic è partito nel 2015, due anni prima dell’uscita di BOTW.

3 Più o meno; in realtà qualcuno dovrebbe averlo decifrato.

4 per esempio in questo pezzo.


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