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Tag: manga

Di fumetti, graphic novel e lotte terminologiche

Di fumetti, graphic novel e lotte terminologiche

  • Lara Dal Cappello

  • 21 novembre 2022
  • nonleggere

Vi sarà capitato di vedere, in giro per l’internet o magari addirittura dal vivo (che fortuna), questo cartello, e non aver saputo bene come reagire: lacrime amare? Risatina nervosa? O un rassegnato sospiro? Personalmente, la prima reazione è stata la perplessità. Poi è scattato il nervoso. Solo dopo qualche minuto ho deciso di adottare un approccio più zen e pensare alla questione in modo più critico.

Davvero nuvole parlanti vi pare più decoroso di fumetti?

Ma innanzitutto, diamo un contesto: il cartello in questione è stato posto in una libreria Feltrinelli a fine 2020, anno in cui i fumetti hanno visto una sorta di rinascita, iniziando a venire presi in considerazione anche da chi non li aveva mai letti prima, grazie a una serie di fattori. La pandemia e la noia hanno spinto molti a ricercare nuovi hobby e passatempi, che per una parte hanno trovato luogo nella lettura, compresa quella di fumetti; case editrici come Bao Publishing, Tunué, Coconino e molte altre hanno dato un nuovo volto al fumetto, ma anche fenomeni come Bookstagram e, successivamente, BookTok (di cui abbiamo parlato anche qui) hanno contribuito alla crescita del fenomeno.

Insieme alla crescita delle vendite di fumetti, è nata però anche una sorta di lotta terminologica, con la nascita – o per meglio dire, la ripresadel termine graphic novel. Questa new wave del fumetto presenta infatti delle apparenti differenze rispetto alla comune concezione di fumetto: si tratta, per la maggior parte, di volumi autoconclusivi con un intreccio sviluppato, che non hanno nulla da invidiare a un romanzo. Da qui, il termine romanzo grafico. E da qui, la confusione terminologica, soprattutto per i neofiti lettori di fumetti, ha iniziato a prendere svolte impensabili. Ne è appunto una prova il cartello che abbiamo visto poc’anzi. Ma fumetti e graphic novel sono davvero due cose diverse? Lo sappiamo tutti, credo: la risposta è no. O meglio, non proprio. I graphic novel sono fumetti a tutti gli effetti, anche se non tutti i fumetti sono graphic novel. Potremmo piuttosto dire che si tratta di un sottogenere del fumetto, o di un certo tipo di fumetto.

La domanda che mi sono posta, e di cui vorrei discutere con voi in questo mio primo editoriale, non è quindi se fumetti e graphic novel siano o meno la stessa cosa, perché questo è già stato chiarito più volte e non è certo un’opinione che i romanzi grafici siano fumetti a tutti gli effetti. Quello che invece mi sono chiesta è: perché è nata questa lotta terminologica negli ultimi tempi, tra chi sostiene l’importanza di continuare a utilizzare il termine fumetto e chi, quando si parla di graphic novel, lo trova obsoleto? Ma soprattutto, ha senso discutere così tanto su questa questione terminologica? Alla me lettrice di fumetti, tutto sommato, non importa troppo sapere se quello che sto leggendo sia o meno definibile un graphic novel, e secondo quali principi. Sto leggendo un fumetto e sto leggendo una bella storia, questo è l’importante. Ma da un punto di vista sociolinguistico ho trovato la questione interessante, e dopo qualche ricerca mi sono ritrovata con forse più domande di prima, ma anche qualche risposta.

L’origine del termine graphic novel, come molti di voi sapranno, è da attribuire a Richard Kyle, che nel 1964 ha coniato il termine in un articolo pubblicato su una fanzine dedicata agli appassionati di fumetto. L’aggettivo voleva inizialmente identificare un “ramo” del fumetto europeo che ai tempi venivano pubblicati in formati diversi e su carta più pregiata rispetto ai tipici comic books. Il termine e il concetto di romanzo grafico hanno raggiunto notorietà con la pubblicazione di Contratto con Dio di Will Eisner, considerato il primo graphic novel mai pubblicato. Eppure, è in tempi recenti che il termine sembra aver acquisito un nuovo significato, tanto che io stessa ho visto molti neofiti lettori di storie a strisce confusi o forse quasi timorosi di usare il termine fumetto, definire graphic novel serie come La taverna di mezzanotte o addirittura i famosissimi Peanuts. Quindi, serie in più volumi che, se vogliamo attenerci al significato originario del termine, poco c’entrano con i romanzi grafici.

Richard Kyle e la sua fanzine: Graphic Story World, poi rinominata Wonderworld.

Se andiamo a googlare quali siano le caratteristiche tipiche di un romanzo grafico, quello che ci capita di leggere più spesso sono cose del tipo “una storia a fumetti con la struttura di un romanzo” e “volume autoconclusivo”. Fin qui, è tutto piuttosto chiaro, ma poi le cose si fanno più nebulose: “storia illustrata a cavallo tra il giornalismo, la narrativa e il fumetto”, “generalmente indirizzata a un pubblico adulto”, “si distingue dai fumetti propriamente detti per l’aderenza a temi e vicende reali”. Non vi sembra tutto un po’ troppo generico e confuso? Davvero tutti i fumetti che avete letto e chiamato graphic novel avevano queste caratteristiche? Per quanto mi riguarda, mi è capitato di chiamare graphic novel opere come Girotondo di Sergio Rossi e Agnese Innocente: un volume contenente storie brevi e indirizzato a un pubblico adolescenziale, che ha poco o niente a che fare col giornalismo.

La confusione è lecita, perché le scuole di pensiero sono tante e le informazioni sono spesso contraddittorie. La conclusione più soddisfacente a cui sono giunta è che il termine graphic novel venga usato, in questo periodo, principalmente come strategia di marketing. Negli ultimi anni, e soprattutto nell’era post-pandemica, sono tanti i lettori che si sono avvicinati al genere del fumetto, e infatti dal 2019 al 2021 la vendita di fumetti è triplicata. Possiamo davvero parlare di una rinascita del medium, che a partire dalla pandemia ha iniziato a riempire non più solo gli scaffali delle fumetterie, ma anche quelli delle librerie in cui, fino a pochi anni fa, di fumetti non si vedeva l’ombra. Ora, anche le librerie di catena dei piccoli paesini hanno un reparto manga e fumetti, e neanche tanto piccolo. Ma purtroppo, lo sappiamo, il fumetto ha avuto una storia travagliata e fino a pochissimo tempo fa non è mai stato visto di buon occhio da molte categorie di persone. Inizialmente considerato un mero prodotto di intrattenimento per bambini, è poi passato ad essere oggetto pericoloso, fonte di danni e perdizione, per poi passare di nuovo allo status di letteratura di serie B. Ma da quando molte case editrici, e successivamente i cosiddetti book influencer, hanno iniziato a presentare i loro fumetti come graphic novel, qualcosa è cambiato. Diverse categorie di lettori hanno iniziato a leggere fumetti, nelle foto sui social hanno iniziato a vedersi tavole e balloons, e anche i più scettici hanno iniziato ad incuriosirsi all’una o all’altra storia.

Certo, questa rinascita del fumetto altro non è che un fenomeno positivo. Ma quello su cui continuo a interrogarmi, forse senza mai giungere a una risposta, è se sia positivo il modo in cui è avvenuta questa rinascita. Da un lato, mi dico che chi se ne frega se tizio pensa che Gipi, Ortolani o Zerocalcare non scrivano fumetti ma graphic novel, l’importante è che si sia avvicinato al genere. Dall’altro, mi dispiace che si tema ancora così tanto di affermarsi lettori di fumetti per quello che altro non è che un pregiudizio, tenendo in considerazione solo le uscite espressamente catalogate come romanzi grafici e perdendo così l’opportunità di leggere moltissime altre, meravigliose storie.

Fumetti? Graphic novel? O entrambi?

E quindi, cari lettori, come al mio solito mi trovo davanti a un bivio, senza riuscire a capire che strada prendere. Lottare affinché il fumetto raggiunga lo status che merita anche a livello terminologico (la me linguista dice ), o lasciare che la gente li definisca come vuole, conscia che comunque stanno leggendo fumetti e che abbiamo fatto passi da gigante rispetto a pochi anni fa (la me lettrice dice, mh, forse)?

Infine, un’altra domanda mi frulla in testa: dite che se, grazie al potere che il ruolo di coordinatrice mi dona, proponessi di cambiare il nome della nostra sezione in Libri e Graphic Novel, più persone leggerebbero o entrerebbero a far parte di Pop-Eye?

Tutto sommato, spero di no.

LDC


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L’amore ci farà a pezzi: da Solanin a Florence, sola andata

L’amore ci farà a pezzi: da Solanin a Florence, sola andata

  • Alfredo Savy

  • 1 giugno 2022
  • noninteragire

Che poi, alle volte, è veramente solo questione di lampi notturni. Di quelle immagini che ti prendono, e non ti lasciano; o almeno non lo fanno per tutto il tempo che si dovrebbe dedicare al sonno. Il problema è il giorno dopo, quando le idee si schiariscono: ciò che era presente alla mente, quel collegamento così palese, non c’è più. Al contrario, diventa leggero e distante. Come quel sogno lontano a cui hai rinunciato, a cui la tua mente ha rinunciato, mentre ricostruiva i fili rossi, le tracce, i legami tra quelle due opere così diverse e distanti tra loro.
Ecco: si può dire che la connessione tra Florence e Solanin resista alla prova della mattina.

Prima le presentazioni, ove mai ce ne fosse bisogno. E le facciamo bene.
Solanin è un manga realizzato da Inio Asano (Buonanotte Punpun, La fine del mondo e prima dell’alba, Eroi), uscito sul mercato nel lontano 2005; Florence è un videogioco, sviluppato da Mountains Studio e pubblicato da Annapurna nel 2018.
Di che parlano? Meglio lasciare che lo spieghi Ian Curtis.

When routine bites hard and ambitions are low

And resentment rides high but emotions won’t grow

And we’re changing our ways, taking different roads

Then love, love will tear us apart again

Love Will Tear Us Apart, da Unknown Pleasures, Joy Division, Factory, 1980.

In questo caso, tirare in causa una delle band post-punk più influenti della storia non è solo un esercizio di stile. Florence e Solanin raccontano della morte dell’amore: e lo fanno in un modo proprio, toccante, con la musica che assume una determinata centralità in entrambi i racconti.

Joy Division live. Prendete nota della regia, servirà.

L’amore ci farà a pezzi, scandiva al microfono il per sempre ventitreenne cantautore di Stretford, UK; ed è di quel farsi fare a pezzi che queste due opere, in effetti, sono pregne. Ma anche del volersi aprire al mondo dopo un trauma, dell’alienazione del lavoro, della voglia di fuga da un certo grigiore, della crescita, della solitudine.

Insomma, a un certo punto i Joy Division si fanno New Order,

I can’t tell you where we’re going

I guess there’s just no way of knowing

True Faith, da Substence, New Order, Factory, 1987.

e la disperazione tipicamente ricollegata alla (fine della) giovinezza si trasforma in saggezza nei confronti dell’ineluttabilità delle cose, nella consapevolezza di godere di quella bellezza dell’estate sapendo che finirà, per poi ricominciare. Quelli che una volta erano Unknown Pleasures, piaceri sconosciuti figli di un inganno generazionale – bugie di una vita che sarebbe lì, pronta a lasciarsi prendere a morsi – assumono la dimensione giammai del rimpianto, ma della lezione intimamente correlata al processo di crescita. 

La violenza della passione e la gioia dell’intimità cedono il passo, in Florence e Solanin, a una riscoperta di se stessi anche e soprattutto grazie al ruolo dell’arte, vero e proprio strumento in grado di permettere l’evasione dalla morte. Quella vera e quella spirituale. Il videogiocatore e il lettore sono messi nelle condizioni di vedere tutto: errori, incomprensioni, fini e inizi. Non gli viene mai restituita una dimensione monodimensionale degli avvenimenti; una tecnica utilizzata anche in Opinioni di un clown (Böll, 1963) – e bisogna tenerlo a mente, visto che questo libro tornerà più volte, nella nostra analisi.

Far parlare il gioco, sempre una buona idea.

Eppure, oltre il messaggio, diviene centrale anche il confronto tra i due mezzi di espressione che quel messaggio, in effetti, lo veicolano. Abbiamo detto che i parallelismi tematici sono tanti e forti: la funzione della musica e dell’arte, la complessità di una relazione sentimentale, il paradigma del cambiamento. Ecco, una disamina che voglia definirsi tale non può evitare di discutere del come, oltre che del cosa. 

 E lo faremo. Oh sì che lo faremo.

Quando sei qui con me

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene spoiler su Solanin e Florence]

Il primo aspetto fondamentale per inquadrare il discorso è la particolare struttura di Florence. Il titolo di Mountains è visivamente organizzato per apparire come una graphic novel, un modo elegante per definire un fumetto auto-conclusivo dai contorni più o meno stabiliti.
Quindi, l’occasione appare particolarmente ghiotta per una comparazione con gli strumenti di questo mezzo di espressione, quelli utilizzati per restituire dei momenti altamente emotivi tramite l’uso sapiente della propria grammatica. Ovviamente, Solanin ne possiede di eccezionali.

Alcuni studi preliminari dei personaggi di Florence.

Su queste pagine, in passato, abbiamo parlato di Unpacking (Witch Beam, 2021) offrendo una soluzione interpretativa fondata su una riedizione dell’effetto Kulešov in salsa videoludica, e definendo di conseguenza una nuova geografia creativa. In questo caso, l’operazione sarà simile ma diversa allo stesso tempo; vogliamo sì evidenziare le peculiarità di queste forme d’arte, ma anche i meccanismi di “aggancio empatico” nei confronti dei fruitori.

Per farlo, è necessario partire dalla definizione di fumetto contenuta in Capire il fumetto (McCloud, 1993), uno dei testi fondamentali per comprenderne il linguaggio.

Juxtaposed pictorial and other images in deliberate sequence, intended to convey information and/or to produce an aesthetic response in the viewer.

Scott McCloud, Understanding Comics, 1983, cap. I

Data la contiguità tematica tra le due opere, possiamo non solo operare un’analisi critica del modo in cui ciascuna di esse organizza la propria messa in scena ma, grazie alla peculiare forma fumettistica di Florence, comprendere cosa succede se – come in effetti è accaduto – esiste un’ibridazione tra linguaggi.
Più banalmente: che ruolo ha il gameplay nella closure fumettistica? 2

Infatti, il lettore mette in atto un processo cognitivo denominato closure 1, in cui dal parziale ricava il totale, dallo speciale il generale, basandosi su una regola derivante dall’esperienza. Il lettore colma i vuoti tra vignetta e vignetta, partecipando in maniera profonda allo svolgimento dell’azione dal punto di vista interpretativo; attribuisce, quindi, tempo e spazio all’azione.

Pur non essendo una prerogativa del solo fumetto, è in questa forma d’arte che la closure trova il suo maggiore ambito di applicazione: è nel non detto che esplode la potenza di questo medium, rappresentato da quello che McCloud chiama, non senza eleganza, “limbo del margine”.

Da ciò consegue che, a seconda del modo in cui le vignette sono associate, si avranno diversi tipi di montaggio che corrispondono, a loro volta, a differenti modi di stimolare la closure. Ed è qui che torniamo a Solanin e Florence.

Fig. 0: Solanin. Montaggio parallelo.

Appare dunque evidente che il perno sia rappresentato dalle immagini: poste in una determinata sequenza, creano una risposta nel lettore. A differenza del cinema, in cui il racconto assume i connotati della fluidità, nel fumetto è proprio l’ordine in cui le vignette statiche si presentano a creare quella sensazione di movimento, e a garantire la fruizione.

Questa stanza non ha più pareti

Per rispondere a questa domanda, è utile partire da due momenti cruciali per gli snodi narrativi di Florence e Solanin, in cui salgono in cattedra la componente musicale e i processi di elaborazione del distacco. Sebbene sia vero che la relazione tra Florence Yeoh e Krish non veda la scomparsa fisica del compagno come quella tra Meiko e Taneda, è altrettanto corretto considerare le evoluzioni della psicologia di coppia che collocano l’esperienza della rottura di una relazione ai primi posti in una potenziale classifica dei traumi esistenziali (Holmes e Rahe, 1967).  

Dicevamo della musica. Florence e Solanin la considerano innanzitutto quale espediente narrativo per rappresentare simbolicamente il collante tra i personaggi, e come vera protagonista sia della fase di innamoramento di Florence che, agli antipodi, di quella di definitiva liberazione di Meiko. Inio Asano utilizza nella scena del concerto finale un montaggio aggressivo e composito, variando da quello cosiddetto definito da soggetto a soggetto a quello da momento a momento. 

Fig. 1: Solanin. Il concerto. Montaggio da soggetto a soggetto.

I movimenti di macchina di Asano sono rapidi e decisi, rappresentando plasticamente la tensione del gruppo, e la loro catarsi. C’è il dolore, l’esaltazione dovuta al ritmo che esplode dalle casse, la rabbia, la concentrazione, lo sbigottimento di chi assiste e, infine, il cruciale passaggio sulla sola Meiko. L’atto smette di essere ripreso nella sua complessità e la matita del mangaka si concentra unicamente sulla ragazza, a cui viene dedicato un fenomenale close-up di un singolo frammento. Sta lasciando Taneda, e questa volta per sempre; il che fa pendant con una vignetta precedente nella quale gli amici – tramite un montaggio diverso, questa volta parallelo – rivedono in lei proprio il giovane scomparso.

Attraverso l’utilizzo di questi espedienti, l’autore giapponese riesce a ricreare una sensazione di dolore espresso tramite l’arte, che assurge a punto cardinale della sintesi spaziale – temporale operata tramite closure. Il lettore non può sentire la musica, ma la avverte; non partecipa attivamente all’azione, ma la riempie di significato; il margine di McCloudiana memoria diventa un urlo senza fine. O, almeno, fino a quando la canzone non finisce davvero, e così la sequenza si conclude.

ig. 2: Solanin. Montaggio da momento a momento.

Al contrario, in Florence la musica segna un attimo di altrettanta liberazione, ma stavolta da un grigiore precedente e ossessivo. Mediante la sola pressione di un comando, il videogiocatore guida la ragazza lungo le note: il telefono si scarica, le cuffie vengono rimosse e si ricollega alla realtà. In questo caso, il gameplay funge da cordone ombelicale tra controllante e controllato, con il primo che riesce a sentire ciò che sente il secondo. 

Realizzandosi il tutto all’interno di una lunga e sola sequenza in movimento, il gameplay annulla la closure propria del fumetto ma amplifica la sensazione di benessere e fissa il momento nel tempo. Ed è incredibile notare come la stessa sequenza, riproposta in maniera rigidamente fumettistica, abbia un impatto e richieda uno sforzo totalmente differente.

Fig. 3: Florence. Senza gameplay, ricostruzione.

Dopo la morte di Taneda e l’addio di Krish, Asano e Mountains ci mostrano una lunga fase depressiva di Meiko e Florence, funzionale poi alla loro rinascita. Un termine comodo di comparazione è proprio il monumentale “Opinioni di un clown”, citato a inizio articolo.

C’è una bella parola: niente. Non pensare a niente. Non al Kanzler o al katholon, pensa al clown che piange nella vasca da bagno, al caffè che gli sgocciola sulle pantofole.

H. Böll, Opinioni di un clown, prima ed. 1963, Mondadori, 2001, cap. XIV.

Lo scrittore tedesco, con periodi cadenzati e un capitolo corto, stuzzica l’immaginazione del lettore e gli regala un quadro straziante di assoluta disperazione, alternando la figura di Maria alla situazione attuale di Hans Schnier. 

Fig. 4: Solanin. Montaggio da scena a scena.

In modo non totalmente dissimile, Inio Asano sceglie un montaggio da scena a scena ma con un singolo soggetto: mentre la giornata trascorre, Meiko rimane quasi immobile, finendo in posizione fetale.
In questo caso, è prodotto un contrasto emotivo: il lettore avverte il passaggio del tempo tramite la closure, ma capisce che Meiko è in uno stato catatonico. La tensione tra questi due elementi fa il resto.

Gli autori di Florence, invece, insistono sull’inversione delle operazioni di trasloco per creare una risposta data dal contrasto con l’inizio della convivenza e il conseguente spacchettamento; in questo caso, il gameplay funge da facilitatore della closure, arricchendo il senso e le coordinate spaziali – temporali.

Fig. 5: Florence. Superamento del lutto.

Perciò, se è vero che da un lato il gameplay costringa lo sviluppatore a condensare alcune sezioni e a evitare frammentazioni per ragioni strettamente ludiche, è altrettanto vero che possieda un impatto non trascurabile in termini di facilitazione dei processi di closure, arrivando ad amplificare certe sensazioni che il fumetto – dal canto suo – cerca di produrre tramite un uso sapiente del montaggio. 

Ma alberi

Come se tutto questo non fosse già abbastanza interessante, Solanin e Florence riescono anche a offrire un contributo alla discussione riguardo l’alienazione riconducibile al lavoro d’ufficio, e all’impatto di una certa macchinosità produttiva all’interno della ricerca esistenziale, tipica del passaggio dalla gioventù all’età adulta.

Come in “Opinioni di un clown” – che, si è capito, costituisce il tertium comparationis di quest’analisi – le dinamiche sentimentali sembrano, a tratti, un escamotage per aprirsi ai grandi temi generazionali e, contestualmente, indagare le dinamiche sociali di una Germania Ovest ipocrita e incapace di staccarsi con il passato, così Florence e Solanin appaiono particolarmente severi nei confronti della dimensione lavorativa3.

Asano tratteggia una condizione umiliante degli uffici e che spinge all’escapismo, nonché una tendenza a giudizi desolanti da parte di famiglia e addirittura coetanei. Florence, attraverso delle piccolissime sezioni di gameplay in cui è chiesto al giocatore di risolvere degli enigmi stupidissimi, cerca di restituire quella ripetitività di fondo del lavoro ad alta intensità e bassa qualifica.

Solanin e la critica al lavoro d’ufficio.

En passant, appare addirittura paradossale che due opere non specificamente orientate a una critica organica dei sistemi capitalistici, siano più efficaci e decise nel trasmettere certi messaggi di altri titoli, che pure quel compito si assumono per scelta.

L’ultimo esempio della categoria è certamente Citizen Sleeper (Jump Over The Age, 2022). Pur esulando da questa trattazione un’analisi più specifica del titolo e rinviando ad altre sedi una descrizione delle sue caratteristiche, non si può fare a meno di notare come un videogioco che parla di capitalismo interplanetario, alienazione e cicli di produzione si riveli poi estremamente accondiscendente nei confronti del giocatore. Così tanto da deviare il messaggio e far apparire il capitalismo delle corp esecrabile, mentre quello etico la società perfetta per ritrovare se stessi, contraddicendo le sue stesse meccaniche.

Florence e l’alienazione.

Ma non divaghiamo e non approfittiamo oltremodo della generosità dei nostri lettori. Se avete amato visceralmente Solanin, allora Florence vi coinvolgerà ed emozionerà; se avete apprezzato Florence, Solanin potrebbe aprirvi le porte di uno splendido mangaka qual è Inio Asano. E, magari, potrebbero offrirvi anche qualche riflessione ulteriore rispetto a quelle del nostro pezzo.

AAS


NOTE:

1 Per approfondire: Saitta, G. (2016). Tra cinema e fumetto: due usi del montaggio. ENTHYMEMA, (13), 75–107. https://doi.org/10.13130/2037-2426/6097

2 Per una definizione quantitativa di “gameplay” raccomandiamo la lettura di questo saggio scritto da Joan Soler-Adillon, che lo definisce come “insieme complesso composto da azioni del giocatore, regole, meccaniche”. Ne abbiamo già parlato in passato nell’approfondimento dedicato a Chinatown Detective Agency.

3 Il che appare paradossale, considerando ciò che è emerso su Mountains Studio e Ken Wong. Per approfondire, qui un ottimo editoriale sulla questione.


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Orrore e rifiuto, ovvero Suehiro Maruo

Orrore e rifiuto, ovvero Suehiro Maruo

  • Vincenzo Vecchio

  • 29 aprile 2022
  • nonleggere

Suehiro Maruo è un mangaka poco comune nel panorama fumettistico contemporaneo.
Riconosciuto generalmente come uno dei maestri del manga horror – il di cui debutto su carta risale agli anni Ottanta – al contrario di molti suoi colleghi non si è limitato al solo fumetto: spesso ha spaziato dall’illustrazione alla pittura, per arrivare anche alla creazione di artwork per altri oggetti pop, come copertine per dischi, per romanzi e locandine.

Possiede uno stile molto riconoscibile derivato dall’illustrazione tradizionale giapponese ukiyo-e del periodo Edo, di cui ne conserva ancora, almeno in parte, alcune tematiche. Le stesse visioni delle famose “stampe insanguinate” di Yoshitoshi, propriamente rielaborate, ritornano infatti come vividi ricordi nelle opere del maestro Maruo.

Diversi suoi tankōbon possono essere considerati, a buon diritto, dei veri e propri manifesti dell’illustrazione. La sua è un’estetica parecchio ricercata, che poggia su anatomie incredibilmente accurate, corpi magnificamente definiti, simbologie di stampo europeo rielaborate in patria, situazioni ottocentesche riportate alla modernità. Sessualità distorte, omicidi, soprannaturale. 

Serrer les dents pour resister à l’effroi.
La sofferenza è la principale manifestazione nel manga ero-guro.

Suehiro Maruo, in tankōbon come Inugami Hakase (1994), mischia in modo sfrontato forme prese di peso dal neoclassicismo e dall’estetica nazista al folklore giapponese degli yokai, saccheggiando continuamente culture diverse, ma fondendole comunque in un unico contenitore kitsch riconoscibilissimo e propriamente giapponese. Il maestro Maruo è un inventore di ucronie visive, non tanto in senso storico, quanto culturale. Un collezionista ossessionato che trova nella psico-rigida cultura del Giappone post-imperiale l’ambiente ideale per mettere in mostra, uno accanto all’altro, i suoi feticci.

Non a caso, si respira una sorta di zeitgeist sopito e forse addirittura nascosto nel tratto denso e sicuro del mangaka. Si tratta di un sentimento evidentemente proibito, proprio nel senso auto-censorio del termine. Proibito, oscuro e nascosto. È forse, in un certo modo, simile all’orrore esotico e seducente scoperto dal colonnello Kurtz in Cuore di Tenebra di Joseph Conrad e in seguito reimmaginato da Francis Ford Coppola e Marlon Brando in Apocalypse Now

Yoshitoshi – La casa solitaria sulla Brughiera di Adachi (1885)

L’orrido è metaforizzato grazie all’immagine di una lumaca che striscia lenta ma sicura sul filo del rasoio tagliandosi essa stessa nella marcia; la bava si disperde inevitabilmente sulla lama e si mischia al sangue in una innaturale e sinistra soluzione di liquidi corporei. La stessa sostanza, conosciuta ma estranea, che si trova nel profondo dell’animo umano, addirittura geneticamente presente ovunque vi sia componente antropica. Uno zeitgeist dunque, proprio perché legato ad un profondo senso comune del sinistro, dell’inquietante, del nascosto tra le pieghe della normale quotidianità. Che, proprio in quanto comune e quindi per definizione vicino a tutti, inquieta a livello personale il lettore. 

Gli elementi di predilezione di Suehiro Maruo.

Il tratto di Suehiro Maruo è netto, preciso, conciso, completo. Ombra nera, luce bianca, nessuna incertezza, come se ogni tavola fosse una stampa su legno. Ogni gesto, ogni movimento è una posa, una messa in scena di gusto teatrale che riporta inevitabilmente al teatro Kabuki del XIX secolo e alla letteratura giapponese di Edogawa Rampo. Tutto è netto, tutto è chiaro sulla tavola, tranne di sovente i significati, che al contrario sono spesso celati o dietro dialoghi ermetici, o dietro simbologie appannate di matrice pagana. Le storie nelle opere del maestro Maruo, rimangono generalmente semplici, con intrecci abbastanza lineari, che lasciano quasi tutto lo spazio alla messa in scena. Quasi che il mangaka si senta in dovere di creare il vuoto adeguato ad accogliere così tanta saturazione visiva.

Per capire bene l’immaginario di Suehiro Maruo è necessario pensare un contenitore di contenitori, ognuno dei quali è incrostato di materia rubata: Histoire de l’œil (1928) di Georges Bataille, la mitologia germanica del Nazismo, Das Cabinet des Dr. Caligari (1920) di Robert Wiene e l’espressionismo tedesco nel suo insieme, il surrealismo, il fantastico e l’orrorifico di Edgar A. Poe, le storie brevi di Edogawa Rampo, i rapporti tra uomo e uomo, uomo e animale, la sessualità nella sua interezza e impalpabilità, le incisioni su legno di Yoshitoshi, la Repubblica di Weimar attraverso le pitture di Otto Dix, la decadenza borghese, il culto del sangue, i tarocchi e l’esoterismo di fine ottocento, il paganesimo, il teatro Kabuki e la sua versione più elevata , tutto ciò che in natura si manifesta come deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile.

L’animale civilizzato

Al contrario del vampiro animalesco di Shuzo Oshimi (Happiness – Panini Comics, Planet Manga 2015 – 2019), l’eterno adolescente vestito di stracci, che salta di tetto in tetto alla ricerca spasmodica e disordinata della sua preda, quello di Suehiro Maruo (Il Vampiro che ride – Coconino Press 2014) è un animale che ama le divise studentesche, in un mondo che fa della nostalgia dell’atmosfera anni quaranta e cinquanta il suo ambiente naturale. 

Il vampiro di Maruo ha un codice morale ben definito sebbene infinitamente perverso; o forse, la causa stessa della sua perversione è da ricercarsi proprio nell’agiatezza borghese delle società ben impiantate. Proprio parlando di borghesia, i tipici temi del genere erotico-grotesque non sono altro che i passatempi preferiti della borghesia annoiata e benestante del ventesimo secolo. Perversione morale, sessuale, ipocrisia di classe, che come ricorda Pier Paolo Pasolini vengono generate da madri vili

Cimiteri, mutilazioni, amore, simbologia.

In Il Vampiro che ride, la genitrice è proprio una vecchia madre affetta da vampirismo da diverse decine di anni. Il punto di partenza sentimentale ideale per questo tipo di perversioni. E anzi, come si accennava in precedenza, le madri che Pier Paolo Pasolini definisce “vili, mediocri, servili, feroci” 1 sono per Suehiro Maruo la vera origine del mondo.

È interessante notare che anche il concetto di tempo per un vampiro non è altro che una netta metafora del privilegio borghese, quello di poter gestire il proprio tempo in funzione dei propri gusti personali e non costretti ad una vita in funzione del proprio lavoro come poteva esserlo quella delle classi più umili. La noia borghese, nelle opere del mangaka giapponese, diventa quasi il prerequisito con cui preparare il terreno e renderlo fertile per la nascita di malumori e comportamenti che inevitabilmente sfuggono alla sfera morale normalmente accettata. I protagonisti delle storie del maestro Maruo, divorati dalla noia, distorcono il proprio rapporto con la realtà, rendendola soprannaturale, surreale per l’appunto.

L’animale erotico

I personaggi di Suehiro Maruo si dipanano in atteggiamenti ai limiti della condizione clinica. Personaggi novecenteschi che scivolano nel vampirismo, liceali perversi che non conoscono altri limiti se non quelli imposti dalla coerenza della propria follia. Giovani, per lo più adolescenti, che hanno con la propria sessualità un rapporto a dir poco malsano. Protagonisti consapevoli di una crescita malata, ammantata di normalità. Donne borghesi che scoprono nell’orrore un nuovo afflato sessuale, come nel caso di Tokiko, la moglie dell’ufficiale mutilato di guerra ne Il bruco (Coconino Press – 2012). 

Il marito Sunaga, privato, a causa della  guerra, di braccia e gambe, ridotto all’immobilità e al più totale mutismo, diventa nient’altro che un oggetto di piacere per soddisfare le nuove voglie della moglie. Un tipo di voglia che si pone esattamente al confine tra disgusto e piacere, tra rifiuto e irrefrenabile curiosità. La vita della donna si consuma così in zone inesplorate tra il distorto e l’immorale. La noia borghese rimane centrale ma non è manifestata in modo chiaro; si presenta all’interno del modo estremamente dimesso di intendere il sentimento in Giappone, e cioè come appartenente alla sfera personale. La pornografia di Maruo, se come tale si vuole definire, è più un problema di solitudine dello spirito piuttosto che una questione carnale. 

Al contrario di Yasujirô Ozu – Viaggio a Tokyo (1953), Il gusto del sakè (1962), Tarda primavera (1949) – che raccontava con il suo cinema in bianco e nero una borghesia mite e dimessa, rinchiusa in una gabbia di regole sociali che era contenta di rispettare, Nagisa Ōshima racconta i privilegi di coppie votate alla sola ed esclusiva ricerca del piacere, fino ad arrivare a cercarne proprio il limite, il confine esatto tra estasi sessuale e morte per soffocamento, come in Ecco l’impero dei sensi del 1976. Il maestro Maruo sceglie invece un approccio diverso: non una definizione morale della dissoluzione, né una semplice descrizione della sessualità distorta della ricerca del piacere; Suehiro Maruo sceglie il grottesco come punto di partenza e raramente come punto di arrivo. Dunque anche la sessualità diventa grottesca, improvvisa, sconosciuta, inaspettata di certo; ma si presenta come tale in modo assolutamente naturale e spontaneo. Insomma, come se si trattasse dell’inevitabile punto d’arrivo di un sistema di valori definito a priori, il culmine dell’esistenza cercato e trovato nella corruzione. Perché in definitiva, tutto è istinto, tutto è violenza, perché tutto riporta alla sfera sessuale. Almeno per come la intendeva Freud quando si riferiva alla teoria della libido

L’erotismo di Suehiro Maruo rimane indissolubile dal macabro, inscindibile dalla morte coesistente al momento stesso dell’estasi. È in definitiva l’inevitabile coabitazione del bello e del brutto nello stesso momento storico. La stessa filosofia che applica David Lynch in Velluto Blu (1986) dove uno studente, ancora una volta uno studente, trova un orecchio mozzato all’interno di un magnifico giardino, che lo porta a scoprire un violento mondo sotterraneo e parallelo alla tranquilla cittadina di periferia che pensava di abitare fino a quell’istante. Il bello e il brutto, per il maestro Maruo e per David Lynch, sono indivisibili. È proprio in quel territorio sconosciuto, al confine tra l’uno e l’altro, che trova terreno fertile il genere érotique-grotesque.

L’animale grottesco

L’autore giapponese mette in scena il suo personale teatro dell’orrore affogato in un romanticismo sfrontato, oggettivato e fuori dal tempo. Solo i giovani e giovanissimi sono generalmente di bell’aspetto; tutti gli altri personaggi infatti, sono corrotti fin nella loro esteriorità. Si tratta di una regola quasi assoluta, che riguarda proprio la condizione di vita dei personaggi-tipo; Per Suehiro Maruo infatti il mostro non è per niente un’eccezione: al contrario, è proprio la condizione umana che mostrifica i suoi personaggi. Li rende depravati all’interno e spesso decrepiti all’esterno (ma possono esistere anche mostri bellissimi).

Paradossali e inspiegabili, i personaggi dell’immaginario del maestro Maruo, si trascinano in un Giappone fantasmatico, senza più alcuna decenza, attinente proprio alla percezione che ognuno di essi ha della propria realtà. In questo senso, Maruo si proietta in una ricerca estetica che rifiuta il normale scorrere del tempo e dello spazio all’interno del manga, delimitato diegeticamente dai quadri che si pongono come confine delle vignette mediante le quali è strutturata la pagina; e ovviamente dallo scorrere delle stesse. In questo modo, si ha come l’impressione che la percezione del tempo sia in un certo senso estranea, sembra che lo scorrere del tempo sia di difficile avanzamento se non che si sia proprio arrestato. Le scene, esattamente come succede in teatro, sembrano cristallizzate e all’esclusivo servizio del lettore. 

Nel Giappone post-imperiale di Suehiro Maruo, non è raro incontrare un pagliaccio che tenta uno stupro su un giaciglio di strada, attorniato da scolopendre e millepiedi attorcigliati in un abbraccio simbolico. Una composizione che, per l’appunto, sembra costruita dall’autore appositamente per arrestarsi alla fine del processo di maturazione e solo così proporsi al lettore. 

Allo stesso modo, le scenografie seguono un criterio di omogeneizzazione costante. Il paesaggio dei manga disegnati da Suehiro Maruo è costituito principalmente da quinte, decori che servono solo a sorreggere la prova d’attore dei propri personaggi. Decadenti, in rovina, brutaliste o barocche, ricercate e romantiche, le scene vertono sempre al racconto unico di Suehiro Maruo, quello surrealista e non-sense.

Divise studentesche, sangue, erotismo.

L’animale-occhio

L’occhio, come elemento ricorrente, ricopre un ruolo di primissimo piano nelle opere del maestro Maruo. Da strumento organico per vedere e interpretare il mondo, diventa oggetto-feticcio da leccare. Da coprire, da accecare, nascondere o mutilare. Un chiaro rifiuto, simbolico, di analizzare la realtà per come si presenta. Il primo passo per costruirne una nuova, adattata allo spirito del tempo e ai voleri dei propri fantasmi. 

Oculolinctus, ovvero gratificazione erotica grazie al feticismo dell’occhio.

L’occhio, non solo come utensile organico ma anche come sinonimo di voyeurismo, diventa il mezzo privilegiato del lettore – ma allo stesso tempo auto-punito, in quanto mutilato, ferito, accecato – per reinventare le proprie pulsioni nei confronti del mondo esterno. Come aveva già spiegato Dziga Vertov con la teoria del cine-occhio, tutto ciò che è visto dall’occhio e che può risultare conosciuto e banale, acquista un valore nuovo se filtrato dal media. Ebbene, il lettore di Maruo diventa, in senso lato, un vero e proprio voyeur piuttosto che un semplice spettatore. 

Suehiro Maruo opera quindi, attraverso il suo disegno, una ricostruzione della realtà che si avvicina più ad una complessa e distorta interpretazione dell’istinto e dell’antropologia dell’animale-uomo, piuttosto che ad un semplice parto della fantasia.

VV


NOTE:

1 P. P. Pasolini – Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano 1964


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Orrore e rifiuto, ovvero Suehiro Maruo

Suehiro Maruo è un mangaka poco comune nel panorama fumettistico contemporaneo.
Riconosciuto generalmente come uno dei maestri del manga horror – il di cui debutto su carta risale agli anni Ottanta – al contrario di molti suoi colleghi non si è limitato al solo fumetto: spesso ha spaziato dall’illustrazione alla pittura, per arrivare anche alla creazione di artwork per altri oggetti pop, come copertine per dischi, per romanzi e locandine.

Possiede uno stile molto riconoscibile derivato dall’illustrazione tradizionale giapponese ukiyo-e del periodo Edo, di cui ne conserva ancora, almeno in parte, alcune tematiche. Le stesse visioni delle famose “stampe insanguinate” di Yoshitoshi, propriamente rielaborate, ritornano infatti come vividi ricordi nelle opere del maestro Maruo.

Diversi suoi tankōbon possono essere considerati, a buon diritto, dei veri e propri manifesti dell’illustrazione. La sua è un’estetica parecchio ricercata, che poggia su anatomie incredibilmente accurate, corpi magnificamente definiti, simbologie di stampo europeo rielaborate in patria, situazioni ottocentesche riportate alla modernità. Sessualità distorte, omicidi, soprannaturale. 

La sofferenza è ovviamente una delle principali manifestazioni nel manga ero-guro.

Suehiro Maruo, in tankōbon come Inugami Hakase (1994), mischia in modo sfrontato forme prese di peso dal neoclassicismo e dall’estetica nazista al folklore giapponese degli yokai, saccheggiando continuamente culture diverse, ma fondendole comunque in un unico contenitore kitsch riconoscibilissimo e propriamente giapponese. Il maestro Maruo è un inventore di ucronie visive, non tanto in senso storico, quanto culturale. Un collezionista ossessionato che trova nella psico-rigida cultura del Giappone post-imperiale l’ambiente ideale per mettere in mostra, uno accanto all’altro, i suoi feticci.

Non a caso, si respira una sorta di zeitgeist sopito e forse addirittura nascosto nel tratto denso e sicuro del mangaka. Si tratta di un sentimento evidentemente proibito, proprio nel senso auto-censorio del termine. Proibito, oscuro e nascosto. È forse, in un certo modo, simile all’orrore esotico e seducente scoperto dal colonnello Kurtz in Cuore di Tenebra di Joseph Conrad e in seguito reimmaginato da Francis Ford Coppola e Marlon Brando in Apocalypse Now

Yoshitoshi – La casa solitaria sulla Brughiera di Adachi (1885)

L’orrido è metaforizzato grazie all’immagine di una lumaca che striscia lenta ma sicura sul filo del rasoio tagliandosi essa stessa nella marcia; la bava si disperde inevitabilmente sulla lama e si mischia al sangue in una innaturale e sinistra soluzione di liquidi corporei. La stessa sostanza, conosciuta ma estranea, che si trova nel profondo dell’animo umano, addirittura geneticamente presente ovunque vi sia componente antropica. Uno zeitgeist dunque, proprio perché legato ad un profondo senso comune del sinistro, dell’inquietante, del nascosto tra le pieghe della normale quotidianità. Che, proprio in quanto comune e quindi per definizione vicino a tutti, inquieta a livello personale il lettore. 

Gli elementi di predilezione di Suehiro Maruo

Il tratto di Suehiro Maruo è netto, preciso, conciso, completo. Ombra nera, luce bianca, nessuna incertezza, come se ogni tavola fosse una stampa su legno. Ogni gesto, ogni movimento è una posa, una messa in scena di gusto teatrale che riporta inevitabilmente al teatro Kabuki del XIX secolo e alla letteratura giapponese di Edogawa Rampo. Tutto è netto, tutto è chiaro sulla tavola, tranne di sovente i significati, che al contrario sono spesso celati o dietro dialoghi ermetici, o dietro simbologie appannate di matrice pagana. Le storie nelle opere del maestro Maruo, rimangono generalmente semplici, con intrecci abbastanza lineari, che lasciano quasi tutto lo spazio alla messa in scena. Quasi che il mangaka si senta in dovere di creare il vuoto adeguato ad accogliere così tanta saturazione visiva.

Per capire bene l’immaginario di Suehiro Maruo è necessario pensare un contenitore di contenitori, ognuno dei quali è incrostato di materia rubata: Histoire de l’œil (1928) di Georges Bataille, la mitologia germanica del Nazismo, Das Cabinet des Dr. Caligari (1920) di Robert Wiene e l’espressionismo tedesco nel suo insieme, il surrealismo, il fantastico e l’orrorifico di Edgar A. Poe, le storie brevi di Edogawa Rampo, i rapporti tra uomo e uomo, uomo e animale, la sessualità nella sua interezza e impalpabilità, le incisioni su legno di Yoshitoshi, la Repubblica di Weimar attraverso le pitture di Otto Dix, la decadenza borghese, il culto del sangue, i tarocchi e l’esoterismo di fine ottocento, il paganesimo, il teatro Kabuki e la sua versione più elevata , tutto ciò che in natura si manifesta come deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile.

La copertina del primo tankōbon di Il Vampiro che ride
L’animale civilizzato

Al contrario del vampiro animalesco di Shuzo Oshimi (Happiness – Panini Comics, Planet Manga 2015 – 2019), l’eterno adolescente vestito di stracci, che salta di tetto in tetto alla ricerca spasmodica e disordinata della sua preda, quello di Suehiro Maruo (Il Vampiro che ride – Coconino Press 2014) è un animale che ama le divise studentesche, in un mondo che fa della nostalgia dell’atmosfera anni quaranta e cinquanta il suo ambiente naturale. 

Il vampiro di Maruo ha un codice morale ben definito sebbene infinitamente perverso; o forse, la causa stessa della sua perversione è da ricercarsi proprio nell’agiatezza borghese delle società ben impiantate. Proprio parlando di borghesia, i tipici temi del genere erotico-grotesque non sono altro che i passatempi preferiti della borghesia annoiata e benestante del ventesimo secolo. Perversione morale, sessuale, ipocrisia di classe, che come ricorda Pier Paolo Pasolini vengono generate da madri vili

Cimiteri, mutilazioni, amore, simbologia

In Il Vampiro che ride, la genitrice è proprio una vecchia madre affetta da vampirismo da diverse decine di anni. Il punto di partenza sentimentale ideale per questo tipo di perversioni. E anzi, come si accennava in precedenza, le madri che Pier Paolo Pasolini definisce “vili, mediocri, servili, feroci” 1 sono per Suehiro Maruo la vera origine del mondo

È interessante notare che anche il concetto di tempo per un vampiro non è altro che una netta metafora del privilegio borghese, quello di poter gestire il proprio tempo in funzione dei propri gusti personali e non costretti ad una vita in funzione del proprio lavoro come poteva esserlo quella delle classi più umili. La noia borghese, nelle opere del mangaka giapponese, diventa quasi il prerequisito con cui preparare il terreno e renderlo fertile per la nascita di malumori e comportamenti che inevitabilmente sfuggono alla sfera morale normalmente accettata. I protagonisti delle storie del maestro Maruo, divorati dalla noia, distorcono il proprio rapporto con la realtà, rendendola soprannaturale, surreale per l’appunto.

Un’affiche teatrale di Suehiro Maruo
L’animale erotico

I personaggi di Suehiro Maruo si dipanano in atteggiamenti ai limiti della condizione clinica. Personaggi novecenteschi che scivolano nel vampirismo, liceali perversi che non conoscono altri limiti se non quelli imposti dalla coerenza della propria follia. Giovani, per lo più adolescenti, che hanno con la propria sessualità un rapporto a dir poco malsano. Protagonisti consapevoli di una crescita malata, ammantata di normalità. Donne borghesi che scoprono nell’orrore un nuovo afflato sessuale, come nel caso di Tokiko, la moglie dell’ufficiale mutilato di guerra ne Il bruco (Coconino Press – 2012). 

Il marito Sunaga, privato, a causa della  guerra, di braccia e gambe, ridotto all’immobilità e al più totale mutismo, diventa nient’altro che un oggetto di piacere per soddisfare le nuove voglie della moglie. Un tipo di voglia che si pone esattamente al confine tra disgusto e piacere, tra rifiuto e irrefrenabile curiosità. La vita della donna si consuma così in zone inesplorate tra il distorto e l’immorale. La noia borghese rimane centrale ma non è manifestata in modo chiaro; si presenta all’interno del modo estremamente dimesso di intendere il sentimento in Giappone, e cioè come appartenente alla sfera personale. La pornografia di Maruo, se come tale si vuole definire, è più un problema di solitudine dello spirito piuttosto che una questione carnale. 

Al contrario di Yasujirô Ozu – Viaggio a Tokyo (1953), Il gusto del sakè (1962), Tarda primavera (1949) – che raccontava con il suo cinema in bianco e nero una borghesia mite e dimessa, rinchiusa in una gabbia di regole sociali che era contenta di rispettare, Nagisa Ōshima racconta i privilegi di coppie votate alla sola ed esclusiva ricerca del piacere, fino ad arrivare a cercarne proprio il limite, il confine esatto tra estasi sessuale e morte per soffocamento, come in Ecco l’impero dei sensi del 1976. Il maestro Maruo sceglie invece un approccio diverso: non una definizione morale della dissoluzione, né una semplice descrizione della sessualità distorta della ricerca del piacere; Suehiro Maruo sceglie il grottesco come punto di partenza e raramente come punto di arrivo. Dunque anche la sessualità diventa grottesca, improvvisa, sconosciuta, inaspettata di certo; ma si presenta come tale in modo assolutamente naturale e spontaneo. Insomma, come se si trattasse dell’inevitabile punto d’arrivo di un sistema di valori definito a priori, il culmine dell’esistenza cercato e trovato nella corruzione. Perché in definitiva, tutto è istinto, tutto è violenza, perché tutto riporta alla sfera sessuale. Almeno per come la intendeva Freud quando si riferiva alla teoria della libido

L’erotismo di Suehiro Maruo rimane indissolubile dal macabro, inscindibile dalla morte coesistente al momento stesso dell’estasi. È in definitiva l’inevitabile coabitazione del bello e del brutto nello stesso momento storico. La stessa filosofia che applica David Lynch in Velluto Blu (1986) dove uno studente, ancora una volta uno studente, trova un orecchio mozzato all’interno di un magnifico giardino, che lo porta a scoprire un violento mondo sotterraneo e parallelo alla tranquilla cittadina di periferia che pensava di abitare fino a quell’istante. Il bello e il brutto, per il maestro Maruo e per David Lynch, sono indivisibili. È proprio in quel territorio sconosciuto, al confine tra l’uno e l’altro, che trova terreno fertile il genere érotique-grotesque.

L’occhio è continuamente martirizzato nelle opere dell’autore giapponese.
L’animale grottesco

L’autore giapponese mette in scena il suo personale teatro dell’orrore affogato in un romanticismo sfrontato, oggettivato e fuori dal tempo. Solo i giovani e giovanissimi sono generalmente di bell’aspetto; tutti gli altri personaggi infatti, sono corrotti fin nella loro esteriorità. Si tratta di una regola quasi assoluta, che riguarda proprio la condizione di vita dei personaggi-tipo; Per Suehiro Maruo infatti il mostro non è per niente un’eccezione: al contrario, è proprio la condizione umana che mostrifica i suoi personaggi. Li rende depravati all’interno e spesso decrepiti all’esterno (ma possono esistere anche mostri bellissimi).

Paradossali e inspiegabili, i personaggi dell’immaginario del maestro Maruo, si trascinano in un Giappone fantasmatico, senza più alcuna decenza, attinente proprio alla percezione che ognuno di essi ha della propria realtà. In questo senso, Maruo si proietta in una ricerca estetica che rifiuta il normale scorrere del tempo e dello spazio all’interno del manga, delimitato diegeticamente dai quadri che si pongono come confine delle vignette mediante le quali è strutturata la pagina; e ovviamente dallo scorrere delle stesse. In questo modo, si ha come l’impressione che la percezione del tempo sia in un certo senso estranea, sembra che lo scorrere del tempo sia di difficile avanzamento se non che si sia proprio arrestato. Le scene, esattamente come succede in teatro, sembrano cristallizzate e all’esclusivo servizio del lettore. 

Nel Giappone post-imperiale di Suehiro Maruo, non è raro incontrare un pagliaccio che tenta uno stupro su un giaciglio di strada, attorniato da scolopendre e millepiedi attorcigliati in un abbraccio simbolico. Una composizione che, per l’appunto, sembra costruita dall’autore appositamente per arrestarsi alla fine del processo di maturazione e solo così proporsi al lettore. 

Allo stesso modo, le scenografie seguono un criterio di omogeneizzazione costante. Il paesaggio dei manga disegnati da Suehiro Maruo è costituito principalmente da quinte, decori che servono solo a sorreggere la prova d’attore dei propri personaggi. Decadenti, in rovina, brutaliste o barocche, ricercate e romantiche, le scene vertono sempre al racconto unico di Suehiro Maruo, quello surrealista e non-sense.

Divise studentesche, sangue, erotismo
L’animale-occhio

L’occhio, come elemento ricorrente, ricopre un ruolo di primissimo piano nelle opere del maestro Maruo. Da strumento organico per vedere e interpretare il mondo, diventa oggetto-feticcio da leccare. Da coprire, da accecare, nascondere o mutilare. Un chiaro rifiuto, simbolico, di analizzare la realtà per come si presenta. Il primo passo per costruirne una nuova, adattata allo spirito del tempo e ai voleri dei propri fantasmi. 

Oculolinctus, ovvero gratificazione erotica grazie al feticismo dell’occhio

L’occhio, non solo come utensile organico ma anche come sinonimo di voyeurismo, diventa il mezzo privilegiato del lettore – ma allo stesso tempo auto-punito, in quanto mutilato, ferito, accecato – per reinventare le proprie pulsioni nei confronti del mondo esterno. Come aveva già spiegato Dziga Vertov con la teoria del cine-occhio, tutto ciò che è visto dall’occhio e che può risultare conosciuto e banale, acquista un valore nuovo se filtrato dal media. Ebbene, il lettore di Maruo diventa, in senso lato, un vero e proprio voyeur piuttosto che un semplice spettatore. 

Suehiro Maruo opera quindi, attraverso il suo disegno, una ricostruzione della realtà che si avvicina più ad una complessa e distorta interpretazione dell’istinto e dell’antropologia dell’animale-uomo, piuttosto che ad un semplice parto della fantasia.

VV

1 P. P. Pasolini – Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano 1964

La traduzione del fumetto tra sfide e compromessi

La traduzione del fumetto tra sfide e compromessi

  • Lara Dal Cappello

  • 11 aprile 2022
  • nonleggere

Senza la traduzione, sarei limitato tra i confini del mio paese. Il traduttore è il più importante alleato. È il traduttore che mi introduce al mondo.

Italo Calvino

La traduzione e il suo funzionamento vengono studiati sin dai tempi antichi: Cicerone e San Girolamo furono i primi a tentare di dare una definizione di traduzione e a spiegare come questa funzionasse. Tuttavia, è solo a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo che si inizia a parlare di traduzione come disciplina accademica, grazie al linguista James S. Holmes che, nel 1972, coniò il termine translation studies.

Da quel momento, numerosissime teorie e altrettante relative critiche in merito alla traduzione e al suo funzionamento hanno iniziato a svilupparsi in tutto il mondo: dai primi tentativi di offrire una struttura generale della disciplina, ai nuovi concetti e termini, sino alle strategie che vengono tutt’oggi usate dai traduttori nel loro lavoro.

San Girolamo, patrono dei traduttori.

Di saggi e manuali sulla traduzione se ne trovano ormai un’infinità, dai più generici ai più specifici che ricoprono diversi ambiti e specializzazioni: traduzione editoriale e letteraria, giurata, tecnico-scientifica, commerciale; eppure ancora poco, anzi pochissimo, è stato scritto sulla traduzione del fumetto.

Lo status del fumetto nel corso della storia

Il fumetto non ha mai avuto vita facile: sin dagli albori della sua comparsa è stato considerato, in molti paesi del mondo, un mero prodotto di intrattenimento infantile. Insomma, roba per bambini. Per non parlare della campagna morale di censura avvenuta negli anni ’50, con l’obiettivo di proteggere la popolazione – e in particolare i giovani – dalla presunta cattiva influenza dei fumetti. Questa scarsa considerazione per la nona arte, purtroppo lo sappiamo bene, non è ancora del tutto scomparsa. Gli stereotipi sul nerd, avido lettore di fumetti che non vede mai la luce del sole, hanno rotto le andavano forte fino a pochi anni fa.

In questi ultimi anni stiamo vedendo una riaffermazione del fumetto. In particolare i manga, ma anche i graphic novel, stanno scalando le classifiche dei libri più letti e venduti in Italia. Ma qual è il motivo di questa svolta piuttosto improvvisa? Secondo alcune statistiche, il lockdown del 2020 ha portato a scoprire o a rinnovare la passione per la lettura, compresa quella per il fumetto. Ma anche i social hanno un grande ruolo in questo. Su Instagram e TikTok è nato negli ultimi anni il fenomeno dei book influencer: lettrici e lettori che, tramite post, storie e video, condividono consigli di lettura e book haul. Sono stati scritti articoli e addirittura pubblicati dei libri su questo fenomeno, che sembra star in qualche modo rivoluzionando il mondo editoriale e avendo un grosso impatto sulle vendite. E i fumetti, in questi contenuti, si vedono sempre di più.

Come lo status del fumetto influisce sulle scelte di traduzione

Ma in tutto ciò, cosa c’entra la traduzione? Beh, lo status sociale attribuito al fumetto influisce molto sul modo in cui questo viene tradotto e sull’importanza che si attribuisce alla sua traduzione. La maggior parte dei fumetti presenti sul mercato sono traduzioni, eppure gli studi e le pubblicazioni dedicate alla traduzione del fumetto sono ancora assai pochi. Anche i passaggi dedicati a essa nei volumi sulla traduzione letteraria coprono in media due o tre pagine, spesso solo poche righe, molto raramente un intero capitolo1. Molti studi, inoltre, citano il fumetto solo come esempio per discutere la traduzione di giochi di parole, onomatopee e altre caratteristiche linguistiche spesso presenti nel fumetto ma non specifiche del medium.

Il fumetto in relazione ai translation studies venne nominato per la prima volta dal linguista Roman Jakobson nel 1960. Egli fu il primo a riconoscere l’esistenza di diverse tipologie di traduzione, suddividendole in tre categorie: quella interlinguistica, quella intralinguistica e quella intersemiotica. Per farla un po’ più semplice, si può parlare rispettivamente di riformulazione, traduzione propriamente detta (quella a cui ci riferiamo solitamente, ovvero la classica traduzione di un testo da una lingua ad un’altra) e trasmutazione. Questa prima distinzione risulta fondamentale per i due principali approcci con cui è stata affrontata la traduzione del fumetto nel corso degli anni: quello linguistico e quello semiotico.

Mentre il primo approccio si focalizza esclusivamente sulla componente verbale, il secondo prende in considerazione la relazione – e soprattutto l’interazione – tra componenti verbali e visive, nel caso specifico del fumetto tra testo e immagini.

L’approccio linguistico è strettamente legato al concetto di traduzione vincolata, nato negli anni Ottanta per indicare una traduzione che, per ragioni pratiche o commerciali, è limitata nello spazio. Il dibattito sulla traduzione del fumetto, infatti, è stato spesso caratterizzato dalla visione della presenza dei balloon come un limite alla libertà del traduttore. Per questa sua visione limitata, l’approccio linguistico è stato via via lasciato da parte in favore di quello semiotico.

A volte si pensa che il testo scritto nei balloon o nelle didascalie sia l’unica componente dei fumetti che viene tradotta, ma non è così: anche le componenti visive possono essere tradotte, e spesso lo sono. Gli aspetti del fumetto che possono essere modificati durante il processo di traduzione possono essere divisi in tre categorie: i segni tipografici (tipo e grandezza del carattere, formato e layout), i segni illustrati (colori, vignette, linee d’azione) e i segni linguistici (titoli, didascalie, dialoghi, onomatopee e narrazione). Ognuno di questi aspetti può essere soggetto a strategie di cambiamento quali la sostituzione (l’opzione standard per i segni linguistici), l’eliminazione o l’aggiunta.

La traduzione vincolata considera i balloon come un limite.

Qualche parolone: i loci della traduzione, domesticazione e straniamento

Se il traduttore sceglie di adottare un approccio semiotico, nella prima fase di traduzione del fumetto il suo compito sarà quello di identificare quattro aree di messaggi verbali, chiamate tecnicamente loci della traduzione, e per ogni area capire se il messaggio verbale debba essere tradotto o meno. Queste aree sono:

  • I balloon: il luogo principale in cui si trova il messaggio verbale, che solitamente rappresenta la modalità parlata ed è scritto in prima persona, e deve quindi essere tradotto;
  • Le didascalie: il testo presente all’inizio o alla fine della vignetta, generalmente scritto in terza persona, dà alla narrazione una dimensione letteraria. Di norma contrassegna cambiamenti nel tempo e nello spazio, ma può anche contenere commenti connessi all’immagine e viene quasi sempre tradotto;
  • I titoli: una delle loro principali funzioni è quella di essere visivamente attraenti. Spesso vengono cambiati nel passaggio da una cultura all’altra, ma nel caso in cui venga mantenuto il titolo originale, la ragione potrebbe essere quella di voler dare un tocco esotico all’opera, solitamente accompagnata da una strategia traduttiva di straniamento (che vedremo tra poco);
  • Il paratesto linguistico: i segni verbali fuori dai balloon ma interni al disegno, come iscrizioni, segnali stradali, giornali, onomatopee e, a volte, alcuni dialoghi. Il paratesto può avere entrambe le funzioni, visiva e verbale: è il traduttore a dover scegliere a quale dare la priorità.

Il primo compito del traduttore è quindi quello di identificare i loci della traduzione e prestare attenzione ai diversi tipi di interazione tra le due risorse che creano il significato, il visivo e il verbale, per l’appunto. Molti errori di traduzione, infatti, provengono proprio dal fallimento del traduttore nell’identificare l’interconnessione tra testo e immagini. Un esempio può essere dato dal significato del messaggio verbale all’interno del balloon che viene completato dal messaggio visivo. Spesso lo scopo di questa interazione è quello di generare un effetto umoristico, creando giochi di parole che non avrebbero senso se non fossero accompagnati dall’immagine.

Il rebus: l’esempio più classico di interazione tra visivo e verbale.

Altro elemento fondamentale è costituito dai riferimenti culturali che, nel fumetto come in qualsiasi opera letteraria, stanno alla base di due strategie traduttive opposte: domesticazione e straniamento. La prima è una resa orientata al testo di partenza, mentre la seconda è orientata al pubblico d’arrivo. Nel primo caso la traduzione neutralizza il testo straniero rendendolo conforme alla lingua e alla cultura d’arrivo, rendendolo più familiare e facilmente comprensibile per il fruitore finale mediante alterazioni e sostituti culturali. Uno svantaggio di questa procedura può essere la perdita d’informazioni che si verifica in alcuni casi. Lo straniamento, diversamente, mantiene intatta l’alterità del testo di partenza anche a costo di mettere in difficoltà il pubblico di destinazione o infrangere le convenzioni della lingua d’arrivo.

Nel caso del fumetto, in certi casi spetta all’editore scegliere il modo in cui portare sul mercato del proprio paese una determinata opera, ad esempio conservandone o alterandone il formato. Tuttavia, sono i traduttori che per primi si trovano di fronte a segni visivi e verbali appartenenti a una determinata cultura, e che devono pertanto scegliere se adottare una strategia addomesticante o straniante. Nella maggior parte dei casi è possibile mantenere il messaggio visivo con tutte le sue connotazioni culturali, traducendo solo il messaggio verbale, senza rischiare di perdere o stravolgere il significato. Tuttavia, come abbiamo visto, visivo e verbale in questo medium sono strettamente connessi e interagiscono tra loro, e talvolta non sono scindibili – come nel caso di rebus e giochi di parole – creando alle volte un ostacolo e una vera e propria sfida per il traduttore.

In genere, per quanto possibile, si cerca di mantenere anche nella traduzione le caratteristiche culturali ed editoriali del fumetto originale, quali ad esempio la direzione di lettura e il formato. Questa strategia viene usata principalmente nei paesi in cui il pubblico ha raggiunto una consapevolezza dell’importanza artistica del fumetto, riconoscendo che adottare una strategia domesticante e quindi attuare drastiche alterazioni del lavoro originale non sarebbe la giusta soluzione.

La strategia di straniamento implica, al massimo, piccoli aggiustamenti nel formato, come un diverso numero di pagine o una variazione della periodicità della pubblicazione, e può a volte includere l’adattamento della grafica agli standard del paese di pubblicazione – ovvero onomatopee e titoli, traducendoli e adattandoli graficamente alla pagina. Tuttavia, alcune volte questi elementi testuali sono considerati parte integrante della grafica, e il pubblico fatica a tollerare la loro traduzione. In questi casi, una strategia adottata ad esempio da alcune case editrici italiane è quella di mantenere il titolo originale aggiungendone la traduzione a piè di pagina.

Le Petit Spirou (1987) viene adattato culturalmente:

cambia anche il messaggio visivo (i titoli sul dorso dei libri).

Un caso particolare riguarda la traduzione dei manga, in particolare della direzione di lettura che nel paese d’origine va da destra verso sinistra. Nei primi anni in cui i manga vennero importati nel mercato occidentale, traduttori ed editori adottarono una strategia domesticante, invertendo il senso di lettura affinché risultasse uguale a quello occidentale, ossia da sinistra verso destra. Tuttavia, alcuni autori giapponesi la considerarono un’alterazione intollerabile e finirono per rifiutare la garanzia dei diritti di traduzione per le loro opere. Effettivamente, l’inversione di lettura crea non pochi problemi, quali la creazione di personaggi mancini: conseguenza piuttosto grave, ad esempio, nelle storie che parlano di samurai. Questi ultimi, infatti, seguono un severo codice d’onore chiamato bushido, che li obbliga a non impugnare mai la spada con la mano sinistra. Oggi, la maggior parte dei manga pubblicati in Europa viene tradotta con una strategia straniante, mantenendo quindi il senso di lettura giapponese, anche sotto le spinte e le critiche del pubblico.

Attualmente, i manga pubblicati in Italia contengono indicazioni sul senso di lettura.

Zerocalcare in inglese tra daje e culisti

I fumetti di Zerocalcare sono stati tradotti in molte lingue straniere e la questione risulta particolarmente interessante sotto diversi punti di vista.

Innanzitutto, c’è la questione del linguaggio. Il caso di Zerocalcare è particolarmente complesso, in quanto, come l’autore stesso afferma, nelle sue opere il testo prevale sul disegno. Al contrario, quest’ultimo presenta un ruolo più espressivo che narrativo, e il ritmo della narrazione dipende fortemente dai dialoghi e dal testo. Al fine di rendere il linguaggio il più autentico possibile, l’autore utilizza diverse strategie, tra cui le principali sono i tratti dialettali e i turpiloqui, allo scopo di elevare ancora di più il livello di affinità con la lingua parlata e avere a disposizione un’altra fonte d’espressività. Tradurre un dialetto in un’altra lingua non è semplice ed esistono diverse possibilità e strategie per il traduttore che si trova di fronte a questa sfida.

Forget my name è stato pubblicato per la casa editrice digitale Europe Comics nel 2015.

Zerocalcare alterna inoltre diversi registri linguistici (dal volgare, informale o colloquiale al formale, ricercato, aulico o solenne). Ognuno di questi comunica un messaggio diverso rispetto agli altri e spesso caratterizza i diversi personaggi. Le opere dell’autore abbondano inoltre di anglicismi e francesismi: nel primo caso, ciò è dovuto soprattutto alla presenza dei numerosi riferimenti alla cultura pop, ma anche all’influenza di internet nel linguaggio parlato e giovanile; nel secondo caso, il motivo è l’origine francese dell’autore. Infine, Zerocalcare fa ampio uso di neologismi, generalmente al fine di creare un effetto umoristico.

Per la traduzione inglese di Dimentica il mio nome, Carla Roncalli di Montorio ha optato per la traduzione in un inglese standard ma colloquiale, evitando quindi la strategia dialetto-per-dialetto, ma adottando alcuni accorgimenti – principalmente nel lessico – che rendessero l’espressività di una lingua parlata e giovanile e che evidenziassero l’alternanza di registri linguistici.
La sfida più difficile è stata probabilmente la traduzione di espressioni tipicamente romane, ovviamente intraducibili letteralmente e di cui non esiste un equivalente inglese. Alcune espressioni sono state tradotte con quello che sarebbe l’equivalente inglese del termine in italiano standard, mentre, dove possibile, la traduttrice ha usato espressioni colloquiali, abbreviazioni e imprecazioni tipicamente britanniche (come bloody hell e blimey).

Ma so cosa tutti vi state chiedendo: daje è stato tradotto in diversi modi a seconda del contesto, ad esempio con le espressioni you go girl! o come on!. Non disperate, l’adattamento inglese della serie Strappare lungo i bordi ha fatto cose peggiori.

La questione si complica ulteriormente con la presenza di neologismi.
Vediamo due casi interessanti:

Alcuni neologismi sono facilmente traducibili.

In questa vignetta, il neologismo bambinese viene utilizzato in un flashback che riporta all’infanzia dell’autore e si riferisce al linguaggio utilizzato dai bambini che ancora non sanno parlare, con un chiaro effetto comico. La traduzione inglese adotta una strategia simile, creando un neologismo che identifichi questa nuova “lingua”, utilizzando la radice kid– (bambino), e mantenendo il suffisso –ese. È una buona soluzione, considerando che anche in inglese si tratta di un suffisso derivativo che indica origine e provenienza, come ad esempio in Portuguese e Japanese.

Altre necessitano di strategie più complesse…

…come la creazione di nuovi neologismi.

Il secondo caso è più complesso, in quanto mescola un gioco di parole e due neologismi che, combinati insieme, suscitano un effetto comico, legandosi inoltre a un elemento visivo. I due neologismi sono culista e schifusss. Nel primo caso si tratta di una modifica del nome di professione oculista mentre il secondo termine è un’alterazione della locuzione che schifo. Il neologismo culista gioca con la parola culo e svolge una funzione umiliante verso il ragazzo a cui è diretto (che porta gli occhiali, quindi: visivo che si lega al verbale). Perciò, i livelli sui quali opera questo neologismo sono principalmente tre: la parola che ridicolizza il nome di una professione, l’impiego di una voce volgare per raggiungere tale effetto, e l’interconnessione con l’immagine attraverso gli occhiali portati dal figlio dell’oculista. La strategia adottata nella traduzione inglese è simile all’originale per la prima parte della battuta: la professione del padre cambia in physician, così che il neologismo / gioco di parole risulti essere penecian, termine che gioca con la parola penis. Vengono così mantenuti l’effetto comico, il gioco di parole e la funzione umiliante, ma viene perso il rapporto tra testo e immagine. Il termine schifusss non viene invece tradotto con un altro neologismo, ma semplicemente con l’aggettivo disgusting.

E i riferimenti culturali? Le opere di Zerocalcare abbondano di riferimenti alla cultura pop che non riguardano solo film e serie tv conosciute a livello internazionale, ma spesso si tratta di prodotti che solo i lettori italiani potranno apprezzare con una lacrimuccia di nostalgia ad accompagnare la lettura. È il caso, ad esempio, delle caramelle Rossana e del Pisolone, che nell’edizione inglese vengono rispettivamente non tradotti e tradotti letteralmente, privando il lettore anglofono di un grande pezzo di cultura italiana. Diverso è il caso seguente:

La maggior parte dei lettori anglofoni probabilmente non ha idea di chi sia la Pimpa, e tradurre la battuta letteralmente o tentare di spiegarla con una lunghissima nota a piè pagina sarebbe stato controproducente. La traduttrice ha deciso allora di optare per la (tanto discussa nel mondo dei traduttori) negoziazione, adottando una strategia domesticante che, sostituendo il riferimento culturale con un più generico e comprensibile rampant leopard, mantenesse comunque un certo effetto umoristico in relazione alle macchie rosse presenti sulla faccia dell’autore quando lontano dal suo quartiere da troppo tempo.

In conclusione,

Possiamo affermare che – nonostante alcune similitudini nelle strategie utilizzate – la traduzione del fumetto richieda particolari accorgimenti rispetto alla traduzione letteraria e necessiti di molta più attenzione e considerazione di quella che le è stata data finora. Anche al fine di evitare tragici e orripilanti errori.
Siamo certi che San Girolamo ne sarebbe contento!

LDC


NOTE:

1 Tra i più completi e interessanti, Comics in Translation di Federico Zanettin, Nuvole Migranti e La marca dello straniero di Valerio Rota.


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