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Che cosa resta di Dragon Age

Che cosa resta di Dragon Age

  • Francesco Farina

  • 2 dicembre 2022
  • noninteragire

Dragon Age: Inquisition, il polarizzante terzo capitolo della polarizzante saga fantasy made in BioWare, a otto anni dalla pubblicazione sembra quasi dimenticato, sostanzialmente nascosto sotto a un tappeto.

Questo abbandono è un qualcosa di particolarmente strano, per almeno tre motivi. Il primo è che, per l’appunto, si tratta di un titolo polarizzante, la cui qualità, al suo apparire, fu oggetto di ampio dibattito. I giochi oggetto di dibattito, tipicamente, possono continuare a suscitare dibattito anche a distanza di tempo.
In seconda battuta, è stato sviluppato da BioWare, e i titoli BioWare non vengono dimenticati; al più possono essere detestati, come in misura diversa accadde, magari ingenerosamente, per Anthem, Mass Effect: Andromeda e lo stesso Dragon Age II. Ma BioWare non si può mettere in disparte, perché ha fatto troppo, è stata troppo ed è impossibile da ignorare.
In ultimo, Dragon Age: Inquisition ha fatto incetta di “premi GOTY”, a partire dal titolo di “Game of the year 2014” alla primissima edizione del The Game Awards. È davvero strano vedere un titolo così premiato essere sostanzialmente dimenticato, anche se il consenso è che la principale ragione dell’assegnazione di questo premio a DA:I sia la sua uscita nel 2014, anno non particolarmente fecondo e schiacciato fra il mirabolante 2013 (The Last of Us, Grand Theft Auto V, BioShock Infinite) e l’ottimo 2015 (The Witcher 3: Wild Hunt, Bloodborne, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain).

A distanza di ormai otto anni dall’ultimo capitolo, dunque, vale la pena ricordare che cosa sia stata questa serie. Che cosa davvero non ha funzionato al punto da averla resa controversa e che cosa invece porti con sé in dote, di unico e irripetuto, tanto che un solido nucleo di appassionati tuttora attende il quarto capitolo, quel Dragon Age: Dreadwolf da poco uscito dalla “fase alpha”1 e di cui potremmo avere qualche notizia prossimamente. Prima, però, una breve storia della saga, già utile per sottolinearne i tratti salienti.

Eredità pesanti

I tre Dragon Age hanno tutti avuto una storia di sviluppo piuttosto travagliata. Dragon Age: Origins, uscito nel 2009, iniziò in realtà il suo sviluppo già nel 2002. Le lunghe tempistiche furono dettate da uno scarso focus iniziale sulla sua produzione: i developer erano continuamente al lavoro anche su altri titoli in sequenza: Star Wars: Knights of the Old Republic, Jade Empire e addirittura Mass Effect, la cui produzione iniziò solo nel 2004 ma terminò già nel 2007, in ampio anticipo rispetto a Origins.

Alla sua uscita, Origins rappresentava un buon ponte fra il passato degli RPG e la modernità.

Inoltre, mancava chiarezza anche relativamente alla visione alla base del titolo, tanto che in un primo momento avrebbe dovuto contenere una importante componente multiplayer, e le cose non si aggiustarono finché Dan Tudge, game director del titolo, non chiarì una volta per tutte che cosa sarebbe dovuta diventare la stella polare della produzione, il suo mantra: traghettare nella contemporaneità il mondo degli RPG fantasy isometrici, diventando il successore spirituale di Baldur’s Gate2.

Proprio quei Baldur’s Gate che avevano di fatto messo BioWare sulla cartina delle software house. Un successo colossale e non esattamente previsto, soprattutto nel contesto dei primi anni ’90, tanto che i founder stessi di BioWare praticavano la propria professione di medici addirittura durante lo sviluppo di Baldur’s Gate. Se, sulla carta, modernizzare Baldur’s Gate potrebbe sembrare come una idea scontata, per i suoi creatori, in realtà, portare a compimento un’opera del genere è tutt’altro che banale per almeno due motivi. Il primo: Baldur’s Gate è stato un instant classic, un mostro sacro con una fanbase estesa e radicata, e innovare titoli come questo è sempre un’operazione più che ostica.

La parentela fra Dragon Age e Baldur’s Gate è riscontrabile già a prima vista.

Il secondo: mantenere viva la fiamma di Baldur’s Gate all’interno di un contesto più moderno era una vera e propria esibizione di equilibrismo. A maggior ragione, lo era in quanto doveva bilanciarsi con una importante forza centrifuga: la spinta all’action, a scapito del “ruolismo old school”, che stava iniziando a diffondersi a macchia d’olio e che era ampiamente in espansione fra i più importanti esponenti del genere3 e naturalmente anche all’interno della stessa BioWare, prese sempre più piede da Neverwinter Nights (2002) fino al già citato Mass Effect (2007).

 L’obiettivo, comunque, fu centrato perfettamente, e Dragon Age: Origins non poté che confermare la imponente capacità di BioWare di creare RPG di spessore assoluto, rendendo onore alla ricchezza narrativa di Baldur’s Gate abbinandola a un comparto ludico profondo, estremamente tattico e versatile, che rispettava a pieno gli stilemi dell’RPG tradizionale pur dinamizzandolo fortemente e dotandolo di una interfaccia intuitiva ed efficiente anche su console.

Il caos dopo le origini

La componente action, e sicuramente la volontà di Electronic Arts di popolarizzare la serie e di uscire dalla “nicchia” degli RPG, esplose in BioWare a partire da Mass Effect 2 (2010) in avanti4. Se però Mass Effect, per natura e vocazione, era il campo perfetto per una evoluzione su queste direttrici, per Dragon Age la cosa era meno scontata: per adattare al contesto action un RPG fantasy ancora di stampo piuttosto tradizionale si sarebbe corso il rischio di annacquare una struttura ludica consolidata, scontentando tanto i puristi quanto un pubblico più casual e di renderli incapaci di riconoscere il prodotto finale.

Ciononostante, il cambiamento fu messo in atto senza grossi compromessi. Dragon Age II venne alla luce: furono molto snellite le dinamiche, eliminata la visuale a volo d’uccello per le pause strategiche, semplificati i talenti e la gestione dell’equipaggiamento dei personaggi giocabili e una serie di altre semplificazioni volte a rendere tutta l’esperienza più immediata e diretta. Alla prova dei fatti, il gameplay più scenografico e meno strategico pensato per Dragon Age II tenne botta, pur senza grossi squilli e nonostante l’estrema ritrosia di molti fan che ancora lo considerano un fallimento.

Per l’intero corso di Dragon Age II saremo chiamati a fare da ago della bilancia nel conflitto fra maghi e templari.

In compenso i compromessi risultarono inevitabili su letteralmente tutto il resto: per non farsi mancare nulla, EA impose dei ritmi di produzione impensabili, chiedendo l’uscita sul mercato in poco più di 12 mesi. Ciò costrinse BioWare a trasformare in gioco standalone quello che nasceva come il secondo DLC “primario” di Origins, originariamente chiamato Dragon Age: Exodus. Anche il nome fu semplificato per essere maggiormente riconoscibile come seguito, perdendo anche il riferimento biblico e abortendo il parallelo Origins/Genesis.

Inoltre, le diverse razze e origini del primo titolo vennero eliminate e sostituite da un’unica origine umana. In ultimo, i tempi ristretti portarono BioWare a prendere una decisione imponente: costruire l’intero gioco intorno a una singola città ristretta da rivisitare a ripetizione, in aggiunta a poche altre location esterne caratterizzate da un riciclo di asset oltre ogni limite di sopportazione. Tutti elementi che, naturalmente, azzopparono la qualità del titolo e pesarono enormemente sul giudizio del pubblico e della stampa di settore.

Dragon Age: Inquisition, uscito circa tre anni dopo il secondo capitolo, si trovò quindi a dover ricercare una via per tornare a conquistare pubblico e critica. Per farlo, scelse di aumentare la componente strategica degli scontri, pur senza toccare le vette di Origins, e di ribaltare il tavolo relativamente alla mappa di gioco, dicendo addio alla singola location spezzettata per abbracciare un sistema a open level molto vasto, simile a quello che in seguito fu adottato per lo sfortunato Andromeda. Se è vero che sicuramente l’operazione di rilancio riuscì, quantomeno in parte, è necessario notare come il percorso per arrivarci fu costellato di difficoltà almeno quanto il predecessore, se non di più. In questo caso, la spada di Damocle sul progetto non fu tanto la tabella di marcia, quanto il cambio di motore grafico5, passato dall’Eclipse, di creazione BioWare, al Frostbite di DICE.

L’Inquisitore, il protagonista di Inquisition, ci porta a riflettere per tutto il gioco sul concetto di “predestinato”.

La scelta, fondamentalmente imposta di EA per ragioni di efficienza di gruppo6, si rivelò estremamente problematica per BioWare. Il Frostbite era stato creato specificatamente per Battlefield, e dunque per un FPS a trazione multiplayer online, e mancava quindi di tutte quelle feature indispensabili per la realizzazione di un RPG che BioWare dovette ricreare da zero: la gestione delle statistiche, le cutscene, le conversazioni con gli NPC, animazioni e modelli per animali quadrupedi e addirittura i salvataggi sono stati costruiti ad hoc, adattandosi a un ecosistema non proprietario perdipiù in continua evoluzione per mano di DICE, con notevoli impatti sui tempi e la serenità degli sviluppatori7.

Nonostante tutto, e nonostante anche qualche scelta piuttosto confusionaria nella gestione delle enormi aree di gioco stracolme di asfissianti fetch quest, Inquisition finì per riscuotere il successo descritto in apertura, diventando addirittura il gioco più venduto nella storia di BioWare8, mentre oggi sale l’attesa per il quarto capitolo.

Ma cosa ha permesso di mantenere popolare la saga? Perché una produzione così apparentemente discontinua genera ancora molta attesa? Che cosa ci ha lasciato, insomma, Dragon Age: Inquisition da meritare attenzione dopo otto anni? La risposta non si può trovare nella nostalgia verso Baldur’s Gate, gemma della nostra gioventù, perché i legami con quel mondo si sono via via affievoliti. Nemmeno è riscontrabile in una fortunata miscela di strategia e azione, perché alla prova dei fatti l’evoluzione action del gameplay, pur nel complesso riuscita, non ha mai fatto gridare al miracolo. In ultima analisi, la risposta è la mitopoiesi.

La mitopoiesi

La mitopoiesi è, in senso stretto, la creazione di miti. All’alba del suo apparire9 faceva riferimento al processo di costruzione dei miti antichi; fu poi J.R.R. Tolkien ad appropriarsene e a dar lei un significato nuovo, afferente alla costruzione “artificiale” di un corpus unitario di miti e storie, che Tolkien collegava inscindibilmente al suo concetto di sub-creazione:

But, said Lewis, myths are lies, even though lies breathed through silver.
No, said Tolkien, they are not.
“We have come from God, and inevitably the myths woven by us, though they contain error, will also reflect a splintered fragment of the true light, the eternal truth that is with God. Indeed only by myth-making, only by becoming a ‘sub-creator’ and inventing stories, can Man aspire to the state of perfection that he knew before the Fall.

Dialogo del 1931 fra C.S. Lewis e J.R.R. Tolkien, riportato da Humphrey Carpenter in “J.R.R. Tolkien. A biography”, 1977

Per Tolkien, uomo profondamente cattolico, la sub-creazione era praticamente un compito umano, un’opportunità per esercitare le capacità divine e una forma di culto, un modo per le creature di esprimere l’immagine divina in loro diventando essi stessi creatori10. Di fatto, la sub-creazione è decisiva anche all’interno dell’opera di Tolkien, se è vero che l’intero universo viene sub-creato dagli Ainur che continuano il processo di creazione di Eru Ilùvatar attraverso il canto da lui insegnato. Non dovrebbe quindi sorprendere, considerando il compito fondamentalmente devozionale e missionario che Tolkien assegnava al suo scrivere, che una parte largamente maggioritaria dei suoi scritti non fosse affatto destinata alla pubblicazione ma fu solo ricostruita postuma da suo figlio Christopher, con un complessissimo processo di ricerca e accordo dei manoscritti lasciati dal padre11.

Insomma, la mitopoiesi è da intendersi come dedizione totale alla creazione del mito, lo strumento per mettere a frutto il proprio talento e dar pienezza alla propria statura umana. Non ci è dato sapere se David Gaider, lead writer e principale responsabile di tutto il worldbuilding di Dragon Age, condivida con Tolkien una qualche forma di devozione religiosa, ma certamente è religioso il suo approccio alla creazione del Thedas, il setting della serie12, che peraltro deve certamente più che qualcosa a Tolkien stesso in in quanto a ispirazione13.

“Though all the crannies of the world we filled
with Elves and Goblins, though we dared to build
Gods and their houses out of dark and light,
and sowed the seed of dragons, ’twas our right
(used or misused). The right has not decayed.”

Mythopoeia, contenuta in “Albero e Foglia” a partire dal 1988, J.R.R Tolkien

La penna di Gaider è infatti tesa a costruire un mondo reale, vivo, esistente. È pura volontà creativa, che parte dalla volontà di avere qualcosa di proprio, marcato BioWare, e contemporaneamente di poterlo far vivere a pieno ai giocatori. A dispetto infatti del desiderio, già descritto, di voler modernizzare Baldur’s Gate, la principale molla dietro lo sforzo creativo di BioWare è stata in realtà il poter gestire un mondo proprio14, il poterlo creare da zero, così da avere per le mani la creatura perfetta per il role playing, laddove invece i Baldur’s Gate (e Neverwinter Nights) erano legati ai Forgotten Realms di Dungeon & Dragons, e quindi alle relative strutture e folklore.  

Bosco Atro, illustrato da Tolkien, presente in “The Art of the Hobbit by J.R.R Tolkien”, 2012. Il bianco e nero rende alla perfezione l’idea di un mondo sub-creato tramite inchiostro.

Un mondo costruito ad hoc per un RPG fantasy è un mondo che permette al giocatore tanto di calarsi in lontani contesti di fantasia quanto di confrontarsi con la propria weltanschauung, di metterla concretamente alla prova in situazioni verosimili, reali, presenti. È questo il grande obiettivo di Gaider: attraverso un mondo impossibile costringere il giocatore a dar conto a se stesso delle proprie convinzioni. Lo vediamo, di nuovo, sul tema della fede:

[Faith] is indeed something we wanted to explore, so that meant setting up a world where the big questions don’t have ready answers. Nobody knows for certain what happens after you die. Nobody knows for certain if the Maker exists, or what the truth of the ancient past really was. There are different viewpoints, and we wanted to make sure that each of them could be held by a reasonable person. Dragon Age: Inquisition was the first time we allowed the player to express how they personally related to those viewpoints, in a way that didn’t force them to one decision or the other. That was, in fact, one of the fundamental parts of our theme.

David Gaider, intervista con John Learned, USGamer

Worldbuilding per sfidare worldview

La chiave di volta è questa: dare all’utente la possibilità di riflettere le proprie convinzioni nelle scelte di gioco, nel carattere impresso al proprio alter ego digitale. Se le convinzioni in materia di fede (anche naturalmente in caso di totale assenza della stessa) sono un banco di prova fenomenale per esercitare questo paragone personale, sarebbe assolutamente limitante pensare che Dragon Age sia solo questo. Naturalmente è molto di più: le sfide nel corso dei tre giochi sono ad ampio spettro, e vanno dalla politica all’etica, declinate in un contesto fantasy mai del tutto disancorato dalla nostra realtà contemporanea.

Il giocatore sarà libero di credere che il potere unico di cui dispone gli sia stato consegnato per volontà divina.

Non si tratta di pure dichiarazioni di intenti: alla prova dei fatti l’obiettivo è perfettamente centrato. I tre Dragon Age hanno ciascuno un tema centrale archetipico, non particolarmente originale in sé e per sé. Origins tratta di un ordine sacro destinato a sacrificarsi per salvare il mondo dal male, Dragon Age II parla del complesso rapporto fra libertà individuali e sicurezza, mentre Inquisition è una articolata riflessione sul peso e la responsabilità del potere. Ma al netto di questi topoi fondamentali, il vero cuore narrativo della serie sono le complicate conseguenze politiche, etiche, religiose delle azioni del giocatore sul mondo, che prendono carne nei rapporti con i compagni del party e svariati altri NPC, quasi tutti scritti magistralmente e credibili nelle loro motivazioni e nelle loro reazioni allo sconfinato esercizio della nostra agency.

Così, pur senza sottovalutare la battaglia fra bene e male in cui il protagonista volente o nolente si trova catapultato, i momenti più forti di Origins toccano questioni politiche ed etiche: chi sosterremo nella corsa alla corona di Orzammar, la città nanica? L’ultratradizionalista, affabile Harrowmont o il progressista e spregiudicato Bhelen? Daremo una clamorosa occasione di redenzione a Loghain, l’usurpatore del trono, una volta comprese le sue motivazioni, allontanando per sempre il nostro più stretto alleato?

In Dragon Age II tocchiamo con mano il peso della rivoluzione, quando un nostro compagno distruggerà la Chiesa locale in un atto di terrorismo, eventualmente con nostra corresponsabilità.

La lista, per tutti i capitoli, è piuttosto lunga. I quesiti più pregnanti, quelli che più ci mettono alla prova, sono però quelli che riguardano combinazioni di dilemmi morali ed eventi impossibili, in quanto inscindibilmente legati al contesto fantasy. Sarà qui che il legame fra il medium videoludico e le dinamiche RPG esprimerà il massimo, esaltando entrambe le componenti e mostrando, se ancora ce ne fosse il bisogno, l’unicità del videogioco come mezzo espressivo.

Ci sono esempi perfetti in tutti e tre i titoli. In Origins saremo chiamati a scegliere se salvarci la vita e risparmiarci il sacrificio ultimo, concependo un bambino con l’unico scopo di ingabbiare l’anima demoniaca dell’Archdemon, il mostro a capo delle forze nemiche. Ne varrà la pena o sarà un atto di estrema crudeltà verso un bambino innocente, consegnato poi ad una strega per scopi misteriosi?
In Dragon Age II, la tradizionale dicotomia fra libertà e sicurezza prende il volto dei maghi che l’establishment politico e religioso vuole mantenere rinchiusi in appositi circoli, per tenere il resto della popolazione al sicuro dai pericoli che la magia sistematicamente porta al Thedas.
Inquisition da questo punto di vista riesce addirittura a staccarsi qualitativamente dai due predecessori, costruendo l’intera esperienza di gioco sulla vertiginosa posizione di guida spirituale, morale e politica che il giocatore si trova a ricoprire, per caso o scelta del Creatore a seconda della propria libera interpretazione.

La sub-creazione del Thedas

La grandezza di Dragon Age, il suo lascito, non sono dunque né nel suo gameplay, benché tipicamente solido, né nelle storie che va a raccontare, per quanto riuscite. Ma è invece in questa complessa interazione fra un mondo credibile, nel suo coerente contesto fantasy, e gli stralci di vita che il giocatore infonde al suo interno. La chiave, come detto, è la maestria di Gaider (e certamente di tutto il team di scrittura) e la percepibile volontà di sub-creare un mondo vero, credibile. Gaider vuole creare, vuole infondere se stesso in un oggetto terzo per dargli la vita, come se fosse un figlio.

Guardando agli esiti, e all’attenzione per i temi ultimi dell’esistenza, mentre osserviamo l’opera di Gaider ci sembra di scorgere un po’ lo stesso sentimento di Andrej Tarkovskij15 verso l’arte:

La destinazione funzionale dell’arte non consiste affatto, come talvolta ritengono gli artisti stessi, nell’instillare pensieri, nel contagiare con delle idee, nel servire da esempio. Lo scopo dell’arte consiste nel preparare l’uomo alla morte, nell’arare e rendere soffice la sua anima in modo che sia atta a rivolgersi al bene.

“Scolpire il tempo”, Andrj Tarkovskij, 1985

Nel suo caso, il maestro russo sicuramente aveva nel cuore soprattutto l’arte cinematografica, ma anche nel mondo videoludico possiamo certamente dire che spesso assistiamo al contrario. Non è raro vedere giochi che si adoperano per dipingere un mondo adatto ai più banali pensieri della contemporaneità, per accontentare e assecondare le idee più comuni sul mercato.

È questo il modo più ruffiano possibile per risolvere l’ambiguo rapporto di tensione, tutto interno al mondo videoludico, fra interazione del videogiocatore ed esiti predeterminati dai developer. Cospargere il gioco di pedagogia spicciola è la strada più facile in assoluto, ma non certo l’unica, per dar corpo a un mondo soddisfacente e pieno.

Questa ambiguità non è per forza un male da scacciare, ma può essere anche occasione di riflessione sul medium stesso. Lo hanno fatto con risultati eccezionali prima BioShock e poi Hotline Miami, due dei videogiochi tematicamente più importanti della storia dell’industria. Più recentemente anche Ron Gilbert, un vero decano dell’industria, con la consapevolezza dettata dalla sua enorme esperienza ha dato un suo contributo al tema in Return to Monkey Island. Con mano paterna conduce il giocatore, anche mostrandogli l’incoerenza delle sue azioni e delle sue pretese, e lo porta fino alla rivelazione finale: caro giocatore, Monkey Island è il mio parco giochi, l’ho costruito apposta per te, prendi coscienza della mia creazione e così te lo potrai godere a pieno.

Gaider fa un’operazione diversa: al giocatore consegna un mondo condiviso, reale, sub-creato, e gli permette di viverlo per mezzo delle questioni e dei drammi reali che scatena. È questo il lascito di Dragon Age, è questo che ci attendiamo da Dreadwolf16, ed è sempre per questo che questa serie non verrà dimenticata tanto facilmente.

FSF


NOTE:

1 Con ogni probabilità, vedremo qualche informazione sul titolo il prossimo 4 dicembre, il cosiddetto “Dragon Age day”, così chiamato per via della stilizzazione della data in D4, sulla falsariga del 7 novembre che è invece considerato il “Mass Effect day”.

2 Per approfondimenti, è possibile leggere qui una retrospettiva di Mike Laidlaw, creative director della serie.

3 Si pensi alle serie Bethesda, con The Elder Scrolls: Oblivion (2006) e Fallout 3 (2008).

4 Per approfondire l’unicità e lo splendore di Mass Effect 2, vi consigliamo il nostro articolo in tema.

5 Come confermato dallo stesso Laidlaw, in questo thread di Twitter.

6 Perlomeno secondo Patrick Soderlund, all’epoca Executive Vice President di Electronic Arts, in questa intervistaem a engadget nel 2013.

7 Per approfondire, si consiglia lo speciale su USGamer.

8 Perlomeno secondo Mark Darrah, per lungo tempo Executive Producer della serie.

9 Secondo il Merriam-Webster è per la prima volta registrato nel 1846.

10 Per approfondimenti si consiglia “Sub-Creation or Smuggled Theology: Tolkien contra Lewis on Christian Fantasy” di David C. Downing.

11 Per questo motivo diversi osservatori, fra cui per esempio la Società Tolkeniana Italiana, considerano Christopher vero e proprio co-autore di molti dei libri del padre, come Il Silmarillion.

12 Thedas sta per “The Dragon Age Setting”. Originale.

13 Lo rivela lo stesso Gaider, in questa intervista.

14 Lo rivelano i ragazzi di GVMERS in questa breve retrospettiva.

15 In questo articolo trovate un approfondimento sul pensiero di Tarkovskij e su come può illuminare il nostro medium.

16 Nella speranza che l’addio di David Gaider, che ha lasciato BioWare nel 2016 dopo 17 anni, non incida eccessivamente sulla direzione narrativa della serie.


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“È invecchiato male”: Tarkovskij risponde al videogioco

“È invecchiato male”: Tarkovskij risponde al videogioco

  • Luca Rungi

  • 25 novembre 2022
  • noninteragire

Sicuramente, qualche volta, vi sarà capitato di sentire l’espressione “è invecchiato male”, riferita magari a un titolo del passato riguardo il sistema dei controlli, della grafica o della struttura generale legata alle meccaniche di gioco. Più di una volta, inoltre, avrete discusso magari con altri appassionati di come la tecnologia ricopra un ruolo importante nel medium del videogioco, e ciò è senz’altro vero. L’errore però, a questo punto, potrebbe essere duplice. Un attimo che ci arriviamo, insieme ad Andrej Tarkovskij.

  1. Iniziare a considerare questa questione tecnologica come un carattere fortemente esclusivo del videogioco.
  2. Attribuire a questo aspetto un’importanza eccessiva, che poi si traduce, con tutta probabilità, in un approccio acritico ogniqualvolta si affronti un qualsiasi titolo legato al cosiddetto retrogaming.

Per “approccio acritico” intendiamo qui un inquadramento che, di fatto, riporta tutti i videogiochi esistenti all’istante in cui se ne parla, compiendo quindi un’operazione che fa tabula rasa del contesto socioculturale, tecnologico, videoludico (in termini di aspettative generali) e anche, perché no, di quello politico. Ci torneremo tra poco.

Shin Megami Tensei (Atlus, 1992) non è “invecchiato male”, ma rispecchia perfettamente le aspettative di un dungeon crawler/JRPG su Super Famicom del periodo. Anche se, inutile negarlo, graficamente mostra un po’ il fianco.

È interessante anche notare, sempre riguardo il secondo punto, come lo stesso glossario che si è sviluppato intorno al videogioco pare incoraggiare certe posizioni (il termine retrogaming, per la precisione). Ma si tratta davvero della percezione corretta? O è forse opportuno correggere il tiro? Ma soprattutto… i videogiochi, o qualsiasi opera appartenente a qualsiasi mezzo di espressione, possono davvero invecchiare?

Se il videogioco è davvero arte…

Se il videogioco è arte a tutto tondo, occorrerà senz’altro munirsi di strumenti critici e di un approccio altrettanto critico atto (e adatto) ad affrontarlo. Ma poi, il videogioco è sempre stato arte? Il regista russo Andrej Tarkovskij, nel suo saggio “Scolpire il tempo“, colmo di spunti di riflessione potenti e che tornerà più volte in questo articolo, si pone lo stesso interrogativo riguardo il cinema, a cui ha dedicato tutto se stesso nell’arco della sua vita:

L’avanzata sulla strada della presa di coscienza di se stesso da parte del cinema è stata frenata fin dall’inizio dalla sua posizione ambigua, a mezza strada tra l’arte e l’industria, dal peccato originale della sua nascita come fenomeno da baraccone.

“Scolpire il tempo”, Andrej Tarkovskij, a cura di Vittorio Nadai, 1988, Ubulibri, p. 94

Ci rendiamo conto di come applicare l’espressione “fenomeno da baraccone” alle primissime espressioni del videogioco sia piuttosto forte, ma una volta rimosse le lentine della nostalgia sarebbe ipocrita non vederci un fondo di verità: dopotutto, chi doveva lanciare sul mercato questi prodotti sul mercato non era molto lontano nei toni che impiegava a questo scopo.

È molto difficile anche non proiettare queste considerazioni puntuali e precise sull’ambivalenza del videogioco, tuttora vivida. Per quanto “Scolpire il tempo” parli, a tutti gli effetti, della settima arte, alcune riflessioni in esso contenute possono rivelarsi estremamente affascinanti e utili anche nel mettere a fuoco il videoludo e verranno richiamate puntualmente al momento opportuno.

Visto che lo chiameremo in causa più volte è giusto anche farvi vedere quanto era bello Andrej Tarkovskij, oltre che brillante.

Essendo l’ultimo medium ad aver fatto la sua comparsa, sarebbe un errore estraniarlo da qualsiasi considerazione trans-mediale in virtù semplicemente di ciò che lo contraddistingue dagli altri: l’interattività. E qui parte il nostro primo interrogativo: è stata davvero l’interazione a nobilitare il videogioco fin dagli albori? O è forse stata, almeno in un primo momento, più l’inclusione graduale di certi temi a fargli fare il salto da “balocco interattivo” a mezzo di espressione a tutto tondo?

Naturalmente, con questo non intendiamo che il videogioco sia arte solo quando ha qualcosa di importante da dirci: la disciplina del game design, grazie sia alla tecnologia che a nuove modalità di fruizione, ha saputo esprimersi nel tempo in maniere inedite e, perché no, artistiche nel corso della ancora breve storia del videogioco. Ma una trattazione organica significherebbe allontanarsi troppo dallo scopo del pezzo.

Per quanto “Metal Gear Solid” (Konami, 1998) abbia, di fatto, modelli dei personaggi privi di espressioni facciali, grazie ad animazioni certosine e a un doppiaggio in lingua inglese di qualità il giocatore riesce a completare il quadro durante la fruizione.

Oltre all’interattività, un altro fattore che potrebbe erroneamente spingere il videogioco verso questa alienazione dagli altri mezzi espressivi che lo hanno preceduto è la velocità del progresso tecnologico di cui si è potuto avvalere. Ciò potrebbe suggerire che il legame intrinseco e inscindibile tra il videogioco e la tecnologia sia un fenomeno unico e senza precedenti, giungendo quindi a una conclusione istintiva, inesatta e, forse, quasi “romantica”. I videogiochi sono solo una delle tante realtà che si sono avvalse della rapida crescita della tecnologia degli ultimi decenni.

La tecnologia, infatti, ha sempre contraddistinto e segnato tutte le arti nella Storia. Parliamo, per esempio, della musica

Il temperamento equabile e la pixel art

Non parleremo della musica dei videogiochi e neanche dell’invenzione del microfono, della radio o di figure quali Karlheinz Stockhausen. Troppo semplice, troppo contemporaneo. Per far capire quanto la tecnologia sia tutt’altro di dominio esclusivo del videogioco torniamo indietro invece di diversi secoli, ai tempi di Johann Sebastian Bach e di Domenico Scarlatti. Già allora, infatti, i compositori dovevano tenere conto di alcuni limiti tecnologici e tecnici piuttosto stringenti:

Al tempo delle prime composizioni di Bach (nel 1703 circa) il temperamento equabile (…) non aveva ancora ottenuto un consenso generale. Nel sistema di accordatura allora in uso la musica in genere si limitava a utilizzare le tonalità più semplici, e cioè quelle che avevano al massimo due o tre alterazioni in chiave. Le tonalità e le note cromatiche più distanti sul circolo delle quinte erano troppo stonate per poter essere usate con efficacia. Il temperamento equabile eliminò queste limitazioni, distribuendo equamente sulla scala cromatica i difetti collettivi di intonazione e rendendo ogni intervallo (tranne l’ottava) non intonato per una proporzione costante ma tollerabile. (…) Bach stesso fece molto per rendere popolare il temperamento equabile (…) componendo i due volumi del “Clavicembalo ben temperato” (1722, 1744) (…).

“Armonia”, Mark Devoto, edizione italiana a cura di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay, 1996, p. 445

Tuttavia, il limite non era solo tecnico in quanto legato all’accordatura delle 12 note, ma anche squisitamente tecnologico. Il pianoforte è a tutti gli effetti una conquista che è passata per stadi graduali. Il clavicembalo, suo antenato, ha contraddistinto gran parte della musica barocca. Rispetto al pianoforte tuttavia, oltre a una estensione inferiore, è completamente privo della cosiddetta dinamica: la pressione di un tasto riproduce infatti sempre la nota corrispondente con la stessa sonorità a prescindere dal tocco dell’esecutore. Ciò esclude, di fatto, un fattore divenuto poi fondamentale dell’estesissimo repertorio pianistico, con tanto di annotazione dedicata sulle partiture. Inoltre, anche altri strumenti sono dovuti passare per stadi prima, addirittura, di essere annoverati a pieno titolo nelle composizioni orchestrali o di scala inferiore e sempre per ragioni, appunto, tecnologiche legate alla loro costruzione.

Domenico Scarlatti (1685-1757) è un compositore e clavicembalista napoletano generalmente poco conosciuto, ma le radici della sua influenza sono molto profonde e vanno a toccare altri grandi nomi più che noti tra cui Wolfang Amadeus Mozart e Ludwig Van Beethoven, per arrivare sino ai compositori del periodo romantico. Ciò dimostra un aspetto molto interessante e intrigante: per quanto i limiti siano stringenti, l’ingegno può sempre provvedere a trasformarli in punti di forza e carattere. La musica barocca, infatti, è spesso molto ricca di ornamenti (provare ad ascoltare questo brano, per farvi un’idea), talvolta impossibili da riprodurre su pianoforte oggi fedelmente in quanto coscientemente costruiti e basati su ciò che era un limite tecnologico che contraddistingueva lo strumento di partenza.

Domenico Scarlatti in un ritratto di Domingo Antonio Velasco.

Tornando al discorso del ruolo della tecnologia nel videogioco, è facile e quasi divertente iniziare a tracciare dei paralleli, come tra l’impossibilità di allontanarsi troppo dalla tonalità musicale di partenza e una palette di colori altrettanto limitata per ragioni di spazio che ha contraddistinto moltissime produzioni videoludiche. Il fatto che gli  sviluppatori in passato non potessero andare oltre un certo livello di dettaglio grafico, invece, potrebbe essere accomunato, con un pizzico di fantasia, all’impossibilità del clavicembalo di esprimere dinamiche graduali e diversificate. In ciascuno di questi casi, la tecnologia dettava un limite entro cui muovere il proprio ingegno, la propria vocazione. E tuttavia, ciò non ha impedito a Domenico Scarlatti, per richiamarlo in causa, di inserire nelle sue sonate una gamma sconfinata di sfumature emotive, proprio come per ciascun giocatore è stato possibile definire nella propria mente l’espressione esatta di Solid Snake nell’immagine mostrata in precedenza durante la sua fruizione.

Scarlatti, in particolare, è noto per le sue 555 sonate per clavicembalo a struttura bipartita1. Nonostante i limiti entro cui doveva sottostare il nostro Mimmo (così chiamato dalla famiglia), queste composizioni dalle mille sfumature sono tutt’oggi studiate (incluso da chi scrive), suonate ai concerti sia su clavicembalo che pianoforte e, come già detto, fonte di ispirazione per compositori importantissimi nella storia della musica apparsi sulla scena anche secoli dopo. La sonata K6 di Scarlatti è stata persino ripresa dal francese Igorrr per il suo brano “blastone”, con cui spaventare i vostri vicini: “Damaged Wig”.

È il momento di concludere questo capitolo con una delle domande provocatorie che ci piacciono tanto: è forse giusto dire che le sonate di Scarlatti, così come la musica classica e i primi film realizzati agli albori del cinema, sono “invecchiate”? Certo che no! Le opere non invecchiano e non potranno mai farlo. Il concetto di “invecchiare male”, quindi, risulta fallace fin dal principio: se il processo in sé non può verificarsi, tanto meno potrà farlo una sua ipotetica variante qualitativa.

Vecchi si nasce, non si diventa

Invecchiano le intenzioni di essere espressivi, moderni. Non si può diventar tali, se tali non si è già.

“Scolpire il tempo”, p. 94

Queste parole vanno un attimo interpretate alla luce di come Andrej Tarkovskij intendeva l’arte cinematografica: il suo obiettivo principe era quello di mostrare la verità. Con il termine “verità”, Tarkovskij intende il fatto di riuscire a imprimere sulla pellicola qualcosa di autentico, assolutamente non artificioso e quanto più genuino, impregnato di tutte quelle cose semplici che rendono però ogni istante della vita un attimo irripetibile, scandito e governato dal tempo. Quando parla di “intenzioni di essere espressivi, moderni” in senso negativo, quindi, probabilmente intende l’inclusione di forzature e di artificiosità nel proprio lavoro che remano contro questo obiettivo volto alla genuinità da imprimere sulla celluloide.

“Shadow Man” (Acclaim Studios Teesside, 1999) non è “invecchiato male”, è sempre stato un gioco mediocre. Ciò non lede il fatto che ne possiate avere un ricordo intimo e appassionato, ma, anzi, lo nobilita in quanto vostro e particolare.

Volendo cercare un parallelo nel videogioco, potremmo probabilmente trovarlo in tutti quei titoli che nella loro ricerca, appunto, del “moderno” a tutti i costi hanno superato quella linea che demarca il confine tra un buon risultato e qualcosa che, fin dalla sua pubblicazione, poteva risultare grottesco e controproducente all’utenza. La parte che ci interessa di più, tuttavia, è il fatto dell’impossibilità che le opere invecchino nel tempo quale processo naturale.

Naturalmente, gli estremi sono sempre cattivi consiglieri: proprio come è dannoso e acritico affrontare qualsiasi videogioco (o opera in generale) a prescindere dal suo contesto (o “contesti”, come abbiamo anticipato in apertura), lo è anche sfruttare questo aspetto come una scusa per un approccio garantista e votato a una rivalutazione priva di fondamento. I videogiochi, quando vengono pubblicati, possono essere giudicati come più o meno validi secondo i criteri che fanno parte proprio del contesto da tenere in considerazione.

La sfida di un approccio critico alla questione è, infatti, quello di capire quali fossero le aspettative, per esempio, legate a un certo genere o banalmente riguardo anche il punto di vista grafico o della giocabilità nel senso più ampio. Si tratta, insomma, di un’operazione che permette di acquisire una prima chiave di lettura, di collocare un’opera videoludica nel posto che gli spetta prima di dissertarne. Nulla di nuovo sotto il sole, avete ragione. Eppure, per quanto ovvio, pare non sia così difficile scordarsi di questi criteri.

Andrej Tarkovskij conosce molto bene i rischi di un approccio superficiale e votato esclusivamente all’osservazione del presente, e ce lo dimostra in questo passaggio:

Sovente scambiamo il nocciolo del problema con il complesso dei procedimenti formali oggi di moda, per di più spesso presi a prestito dalle arti affini. A questo punto istantaneamente cadiamo sotto il dominio dei pregiudizi del momento, temporanei e casuali. Allora diventa possibile affermare oggi, ad esempio, che “il flash back è il non plus ultra della novità”, e domani dichiarare con altrettanta sicumera che ogni scarto temporale è sinonimo di arretratezza e rappresenta il passato (…).

Ibidem

“Mizzurna Falls” (Human Entertainment, 1998) meriterebbe un articolo a parte: una ragazza sparisce nel nulla e noi abbiamo 7 giorni di indagini da affrontare, in cui ogni personaggio segue la propria routine diversa giorno per giorno, con tanto di sorprese non da poco. Un gioco d’avanguardia, seppur grezzo.

Il processo che prova a collocare un’opera al contesto che gli appartiene, in un certo senso, si può ricollegare anche all’approccio standard che un fruitore appassionato e rispettoso compie quasi istintivamente quando affronta qualsiasi opera in generale. È facile e si è tentati di pensare come la responsabilità stia tutta nei suoi fautori mentre, di contro, chi le esperisce non ne abbia alcuna. È evidente, al tempo stesso, come questa concezione faccia comodo solo a chi non vede l’ora di scaricare tutta la responsabilità su quei soggetti completamente inermi e incapaci di difendersi, del tutto in balia dei nostri, ammettiamolo, capricci: i videogiochi stessi (nonché le opere in generale).

Se si vuole che il videogioco venga considerato un’espressione artistica a tutto tondo, tra le prime cose da fare, oltre al suo inquadramento contestuale, vi è anche sicuramente una presa di responsabilità da parte dei fruitori quando decidono di decodificare, di interpretare qualcosa (cioè, “volgarmente”, giocare). Ma, a questo punto, c’è un altro fattore che entra prepotentemente in campo.

Il katamari emotivo innato

Quando fruiamo di un’opera qualsiasi, essa entra in contatto con le nostre corde, diverse proprio in virtù di ciò per ciascuno di noi. Esse sono dettate da una galassia di fattori personali più o meno del momento, più o meno temporanei o ormai fissati nel nostro carattere e sensibilità ma, tuttavia, ciascuno è egualmente importante nel suo ruolo ogniqualvolta questa galassia, o anche, perché no, katamari2 (塊魂), viene chiamata in causa quando iniziamo a decodificare quello che è in fin dei conti la galassia di un’altra persona (o un insieme organico di galassie3, nelle migliori delle ipotesi, nel caso dei videogiochi).

(…) il valore di questa o quell’opera d’arte è in notevole misura relativo in rapporto a colui che la percepisce.

Si è soliti pensare che l’importanza dell’opera d’arte si manifesta nel suo rapporto con gli uomini, nella realizzazione di un contatto con la società. In senso generale ciò è vero, ma il paradosso consiste nel fatto che in questo contesto l’opera d’arte si ritrova in una dipendenza totale da coloro che la percepiscono: che sono in grado, o non sono in grado, di stendere i fili che collegano quella data opera (…) col mondo in generale (…), che a sua volta si trova in determinati, specifici, rapporti con la realtà.

Ibidem, p. 43-44, sottolineature di chi scrive

Abbiamo già anticipato l’importanza della responsabilità dei fruitori quando decidono di decodificare un’opera, riportata anche in questo estratto del regista russo. Puntiamo ora quindi la nostra attenzione sull’apporto personale con cui ciascuno di noi interviene durante la fruizione. Si tratta di un carico innegabile e di una certa entità, in cui possiamo ricondurre elementi quali:

  • Stato d’animo del momento o del periodo;
  • Livello delle aspettative personali squisitamente arbitrario, con conseguente creazione del modello su cui andremo a fare un paragone durante la fruizione stessa;
  • Dimestichezza, grado di affezione e propensione verso il genere videoludico di appartenenza;
  • Grado di sensibilità riguardo eventuali tematiche o scelte estetiche operate nell’opera;
  • Altri titoli affrontati di recente o in passato ancora vividi;
  • Livello del desiderio della fruizione e di quanto impegno si è disposti a investire, in termini di tempo e attenzione, nel corso della stessa;

Vedete quella sfera sullo sfondo piena di cose? Ecco, quello è il vostro katamari
(immagine di copertina di Katamari Damacy).

Ora immaginate tutto questo katamari emotivo che si schianta sul gioco che avete appena avviato, un’operazione che si verifica puntualmente a prescindere che ne siate consapevoli o meno. E, proprio come in Katamari Damacy di Keita Takahashi (Namco, 2004), è possibile per noi assorbire l’opera o sentirsi respinti (in parte o del tutto) a fronte dei fattori personali elencati poco fa. Forse, con la propria sensibilità, è anche possibile rendere questo scontro il più morbido possibile per evitare giudizi affrettati, ma non divaghiamo. Non è un caso, forse, che in “Scolpire il tempo” troviamo anche questo passaggio:

Per una percezione pura dell’opera d’arte è necessaria una non dozzinale capacità di giudizio originale, indipendente e ‘innocente’. Solitamente, invece, l’uomo cerca una conferma della propria opinione in un contesto di fenomeni e di esempi a lui noti, e l’opera d’arte viene valutata in rapporto e per analogia con l’intento soggettivo o con le facoltà personali.

Ibidem, p. 44-45

Questo concetto di una percezione “innocente” è molto affascinante, in quanto stabilisce potenzialmente un approccio privo di pregiudizi e aspettative particolari potenzialmente controproducenti, così come la presa di coscienza riguardo le proprie insicurezze e della ricerca conseguente di una conferma del nostro pensiero piuttosto che di un dibattito che potrebbe metterci in discussione. Andrej Tarkovskij, inoltre, anticipa senza saperlo, probabilmente parlando dei critici influenti, la figura degli influencer di spicco presi, purtroppo, talvolta come riferimento dagli utenti:

Una relativamente obiettiva specie di possibilità di valutazione emerge soltanto dalla varietà delle interpretazioni. E il valore gerarchico di questa o quella opera d’arte agli occhi delle masse, agli occhi della maggioranza, sovente viene determinato da circostanze abbastanza casuali, ad esempio, da quanto sia stata fortunata quella data opera d’arte nel trovare i propri esegeti. Oppure ancora: la cerchia delle predilezioni estetiche di questa o quella persona talora può caratterizzare per gli altri non tanto tali opere in sé, quanto l’individualità del soggetto che le percepisce.

Ibidem, p. 44, sottolineatura di chi scrive

Se il proprio apporto personale durante la fruizione è veramente così importante, allora viene quasi naturale iniziare a pensare a un’altra questione, ovvero quella legata alle recensioni pubblicate intorno al lancio sul mercato di qualsivoglia titolo. Affrontiamo la questione brevemente prima di concludere, e sempre con una bella domanda provocatoria.

Le recensioni sono critica?

A fronte delle considerazioni riguardo l’apporto personale del paragrafo precedente, pensandoci bene, le recensioni dei videogiochi potrebbero essere più un modo per indagare sui gusti e la sensibilità di chi le ha scritte piuttosto che un mezzo utile a comprendere se un dato titolo sia più o meno valido anche per noi. Questo fattore è legato, come è facile immaginare, sempre al katamari emotivo di ciascuno che, inevitabilmente, andrà a colpire anche la fruizione di chi ha affrontato un gioco per redarne una valutazione in via ufficiale, senza possibilità di scampo (ma le cose talvolta possono complicarsi ulteriormente).

Se escludiamo i livelli finali un po’ raffazzonati, e anche un po’ frustranti, Castlevania 64 (Konami, 1999) è tutt’altro che un brutto gioco. In particolare, sorprende una gestione certosina della telecamera e l’infallibilità con cui il nostro avatar si aggrappa alle superfici.

Questo comporta probabilmente un ridimensionamento drastico ma inevitabile del ruolo stesso delle recensioni. Per tradurlo in termini un po’ bruschi, le recensioni videoludiche non possono probabilmente ambire a essere critica, in quanto, per definizione, sono destinate a essere redatte  e poi “consumate” dagli utenti in previsione della pubblicazione di un dato titolo. Si trovano, forse, a metà tra l’essere esigenze commerciali (per far parlare di un gioco da un lato, per sfruttare l’attenzione dell’utenza con tempismo dall’altro) e cartine tornasole per l’utenza più bisognosa dei riscontri altrui prima di proseguire o meno con un acquisto, forse per sopperire a una mancanza di sicurezza o di una coscienza critica propria matura.

E anche qui, Andrej Tarkovskij fa spavento agli orologi svizzeri per quanto è puntuale:

Per la personalità sviluppata in senso estetico e spirituale non esistono valutazioni stereotipate, sedicentemente obiettive. Chi sono questi giudici che, in nome di un giudizio e di una valutazione obiettivi, pretendono di elevarsi aldisopra dell’opinione generale? In compenso la situazione delle relazioni tra l’artista e lo spettatore obiettivamente esistente testimonia del fatto che soggettivamente sono interessate all’arte categorie numerosissime di persone.

Ibidem, p. 82

In questo senso, sempre a proposito delle recensioni e per concludere il discorso, non può esistere una “scelta giusta” di un redattore da assegnare a un dato videogioco in sede di recensione, in quanto ciascuna scelta non potrà che essere profondamente e irrimediabilmente in difetto rispetto alla miriade di lettori con cui andrà a interfacciarsi una volta pubblicata. Se lo scopo delle recensioni videoludiche è ancora esclusivamente quello di far capire se un dato gioco piacerà o meno agli altri, allora condividono tutte lo stesso destino: il fallimento.

Il patto tacito

La comunicazione richiede sempre degli sforzi. Senza sforzo, senza un appassionato desiderio, la comprensione di un uomo da parte di un altro uomo è semplicemente impossibile.

Ibidem, p. 96

È difficile immaginare una sintesi più adatta all’impegno che ci prendiamo ogniqualvolta decidiamo di guardare un film, di giocare a un videogioco, di leggere un libro o un fumetto o ascoltare della musica. L’atto di decodifica e interpretazione che mettiamo puntualmente in atto è, appunto, non solo uno sforzo di comprensione dell’opera in questione a tutto tondo, ma anche il rispetto di un patto non scritto che prevede il non stravolgimento delle mire dell’opera originarie, uno “stare al gioco”.

Illbleed (Crazy Games, 2001) ricevette recensioni poco entusiaste. Eppure, per quel che aveva da offrire il survival horror di quegli anni, l’idea di rendere l’ambientazione stessa un nemico insidioso e pieno di risorse grazie alle trappole da scovare tramite i sensi (e all’”Horror Monitor”) è ancora molto intrigante.

Come già discusso, la fruizione è un processo fondamentale che ci carica di una responsabilità spesso sottovalutata ma tuttavia innegabile: tutte le opere, in fondo, sono “vive” e scatenano le energie investite in esse da chi le ha rese possibili proprio in quegli istanti. Quando ne discutiamo in seguito, probabilmente stiamo impiegando i ricordi della nostra fruizione filtrata attraverso la nostra sensibilità, e non l’opera in sé. Al tempo stesso, siamo investiti puntualmente dal nostro carico emotivo che andrà a influenzare la nostra percezione, creando una combinazione unica volta per volta, negli scontri tra i nostri katamari e quelli di chi ha reso ogni opera dell’ingegno possibile.

E in tutto ciò, è bene ribadire come sia importante la capacità di contestualizzare, di collocare un’opera nel posto che gli spetta in modo da “sintonizzare” la nostra fruizione evitando pregiudizi controproducenti e sterili, cercando di farci una nostra idea ma con un minimo di approccio critico. Tutto ciò, naturalmente e come già detto, nel caso si sia interessati ad affrontare e a rendere il videogioco qualcosa di serio, potente, dignitoso e con una storia ancora molto giovane. Insomma, un’arte a tutti gli effetti.

LR


NOTE:

1 Si tratta di un tipo di sonata composta da due parti ben distinte nella struttura generale della composizione, definibili come A e B. Quando eseguita, si prevede spesso uno schema di ripetizioni di tipo AABB.

2 La sfera che in Katamari Damacy diventa sempre più grande man mano che accorpa oggetti (ma non solo) sempre più grandi. Il tutto è da intendersi assolutamente in chiave comica più che spaventosa, ma il punto tuttavia è avere chiaro che per katamari emotivo qui si intende un insieme eterogeneo di fattori squisitamente soggettivi di varia natura che ciascuno possiede e scatena al momento della fruizione di qualsiasi opera.

3 In questo articolo ci sono già abbastanza citazioni. Perdonerete quindi un piccolo riassunto indiretto del concetto di “organico” usato da Tarkovskij, qui da intendere come un’opera in cui i confini delle personalità che hanno offerto il loro ingegno e lavoro alla creazione di essa (un film nel suo caso, un videogioco nel nostro) scompaiono, in quanto hanno operato in perfetta simbiosi e intesa e verso un obiettivo comune.


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The Stanley Parable, il Sein-zum-Tode di Davey Wreden

The Stanley Parable, il Sein-zum-Tode di Davey Wreden

  • Edoardo Fumo

  • 18 novembre 2022
  • noninteragire

Quante volte accade che le cose platealmente manifeste non siano viste? Perché si tende a cercare significati reconditi quando la chiave interpretativa è già evidente? The Stanley Parable: Ultra Deluxe è il tentativo decennale di un uomo, di un artista, di superare i limiti di un linguaggio.
Sacrificandosi per lasciare un’eredità e per rispondere a una domanda: si può essere davvero?

Source

Anno 2011. Il ventiduenne Davey Wreden pubblica una mod per Half Life 2 intitolata The Stanley Parable. È un esperimento finemente goliardico dove, in poco più di un’ora, viene utilizzato il genere allora molto in voga degli FPS per creare un’esperienza esclusivamente narrativa. Il fulcro del racconto è la storia di Stanley, un impiegato trovatosi improvvisamente da solo nella sua azienda. Unico suo compagno un onnipresente “Narratore”, un Virgilio che è alternativamente antagonista, guida, commentatore metafisico capace di rompere la quarta parete1. La mod ha una risonanza mediatica immediata, parecchie testate dell’epoca ne intuiscono l’acume e il passaparola fa il resto, facendola scaricare da novantamila persone in poche ore.

The Stanley Parable, 2011.

Anno 2013. Con la collaborazione del programmatore William Pugh, esperto del motore grafico Source, The Stanley Parable esce in versione commerciale. Il gioco assume la sua estetica definitiva, così anonima e disumanizzata da diventare iconica (tanto da ispirare a distanza di dieci anni prodotti come la serie televisiva di Apple TV Severance2) e da divertissement postmoderno si modifica in qualcos’altro.

Il Teatro

L’incipit è lo stesso: Stanley, in attesa di svolgere il suo lavoro ripetitivo e, accortosi di essere completamente solo, da spettatore diventa attore: sarà, cioè, controllato dal giocatore e seguito dal Narratore in ogni sua azione.

I ruoli diventano presto sfumati e si notano i primi accenni di rottura nel proceduralismo di Alexander R. Galloway, piccole brecce che conducono a una fondamentale riflessione sull’esistenzialismo.
Galloway, nel suo “Gaming: Essays on Algorithmic Culture”, divide l’azione di un videogioco in compartimenti precisi3. Il fruitore compierà azioni nel modo più naturale possibile secondo il contesto creato dagli autori: tirerà leve, aprirà porte, salirà scale secondo le regole del mondo finzionale in cui si trova, diegeticamente. Eppure, avrà anche interazioni con menu, interfacce, indicatori extra-diegetici che lo renderanno consapevole di trovarsi in un’interpretazione di una realtà.

The Stanley Parable va oltre questo concetto già dalla sua presentazione: ci pone nei panni di un personaggio che preme dei tasti senza sapere perché, semplicemente per “esistere”. Il movimento iniziale della cinematica parte da lontano, mostrandoci Stanley e una sezione del suo ufficio, per poi farci entrare nella sua testa spostando la visuale in prima persona e sostituendoci di fatto a lui. Viviamo direttamente il suo punto di vista, in quanto anche i giocatori, in quel momento, sono di fronte allo schermo di un computer in attesa di un comando, di un input che indichi quali bottoni premere per dimostrare di essere reali.

Ma si può essere davvero reali in una storia scritta da altri? Da qui emerge la natura fortemente teatrale, ispirata tanto dal “teatro nel teatro” pirandelliano quanto dallo psicodramma di Jacob Davi Moreno e dal “teatro dell’assurdo” di Samuel Beckett.

Wreden mostra il dietro le quinte di un videogioco, ne visitiamo sezioni ancora in costruzione come quando in “Ciascuno a suo modo” (Pirandello, 1924) gli attori, a sipario calato, discutono nel foyer e nei corridoi del teatro cosa hanno appena visto e, nella continua finzione dei ruoli, diventano ora critici, ora giornalisti, ora protagonisti di una vicenda ispirata a fatti realmente accaduti. Si può decidere anche di restare immobili, con tanto di Narratore incalzante e dubbioso sull’identità di Stanley, quasi timoroso di dover affrontare non un personaggio scriptato ma una persona che potrebbe diventare variabile ingestibile, rafforzando così il legame tra avatar e giocatore ma subdolamente costringendolo in una struttura narrativa da cui non può fuggire.

L’Ontologia

[DISCLAIMER: da qui in poi seguiranno SPOILER]

The Stanley Parable è quindi un gioco che riflette su se stesso e su come l’utente ne fruisca, sul modo in cui si possa cercare la trascendenza come “essere”, in un microcosmo costruito dove tutte le scelte sono già decise ma che esistono solo tramite il nostro intervento.
Il momento più significativo di questo discorso si raggiunge, probabilmente, in uno specifico finale.

Se si disobbedisce costantemente al Narratore saremo portati in una stanza e sottoposti a delle prove per capire, rompendo la quarta parete, dove il gioco non stia funzionando. A un tratto bisognerà evitare, ovviamente previa la pressione di un bottone, che il cartonato di un bambino in fasce finisca tra le fiamme. Compito non piacevole, dati il pianto assordante del piccolo e il tempo che dovremo investire per salvarlo. Il Narratore ci presenta la sezione come:

[…] un gioco ricco di significati – rappresenta quanto disperato e tedioso sia confrontarsi con le infinite richieste della vita familiare. Non passerà sicuramente inosservato al mondo dell’arte. Ma, ovviamente, il messaggio del gioco diventa chiaro solo dopo averlo giocato per quattro ore. Per cui dovrai giocarci per quattro ore per comprendere appieno il suo significato.

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Continuando stoicamente per due ore questo topos del salvataggio dell’innocente, subiremo ulteriori commenti, anche piccati, riguardanti l’eventuale uso di qualche script per premere automaticamente i pulsanti sottolineando che se così fosse si toglierebbe tutta l’arte dal gioco stesso. La ripetizione del gesto porta inevitabilmente all’esistenzialismo, in una sorta di crasi tra quello di Kierkegaard e quello di Heidegger dove, per dimostrare di essere, l’uomo deve cercare costantemente la propria autenticità nella ripetizione.

Per il primo ciò può avvenire solo attraverso il suo rapporto con Dio, in questo caso assimilabile alla figura di Autore/Narratore. Sul secondo ci arriveremo in seguito, ne avremo sprazzi nello stesso segmento ma sarà approfondito davvero solo nove anni dopo, nel 2022.

Terminato questo compito viene inserita un’altra variabile, un cartonato di un cucciolo di cane che lentamente sta cadendo in vasca piena di piranha, e il tutto sarà introdotto da queste parole:

Sei qui per il gioco! Per l’arte! per l’infinito senso vertiginoso di inutilità e disperazione! Sì, questo è ciò che guida ogni tua azione! Continua a fare clic su quel pulsante! Per la speranza! Per la libertà! Per la scienza! Per amore! Non fermarti mai, mai! Eccoci Stanley, è arte! Ce l’ho fatta! I videogiochi sono arte! Ah, ma hai almeno altre due ore per finire, quindi ti lascio al tuo compito.

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Arrivati quasi alla fine di questa estenuante maratona, saremo pronti per l’immortalità spirituale.

[…] la trascendenza e l’unità con la bellezza e l’essenza di tutte le cose? Solo pochi secondi, eccola che arriva.

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Uno stacco repentino ci porterà in un ambente vuoto, occupato solo da un monolite nero presentato come la ”essenza dell’arte divina” e che, quando moriremo, trasporterà personalmente il nostro spirito in un giardino costruito dalle emozioni di un fiore. Lì potremmo vivere insieme, ballare e mangiare e peccare, facendo improvvisazioni teatrali e, quindi, psicodrammi, basate però su suoi suggerimenti per tutta l’eternità. Ecco di nuovo l’ontologico, ecco di nuovo il confronto del non poter essere, se non in una gabbia decisa da qualcuno di superiore.

Wreden si chiede quindi se i videogiochi, con la loro volontà di rappresentazione di potenza, non siano altro che un premere in modo costante dei pulsanti per avere l’illusione di essere. Questa si può chiamare arte o, per utilizzare un termine che erroneamente l’ha sostituita in termini recenti, capolavoro? Non siamo in realtà solo degli impiegati chiamati a ripetere sempre la stessa azione in contesti diversi per darci l’illusione di aver appreso qualcosa di più su di noi? Forse no, ma trasformare questo concetto in performance crea un cortocircuito e trasforma The Stanley Parable stesso in arte.

Il gioco è un successo di critica e pubblico ma non come l’autore probabilmente si aspettava. Si era nel boom dei primi influencer su Youtube e per i format dell’epoca The Stanley Parable era perfetto. Permetteva di montare clip di pochi minuti ma questo portava due problemi: il disvelamento dell’aspetto meta del gioco e il fatto che venisse ridotto prosaicamente a parodia, concentrandosi solo sull’aspetto weird e non sui sottotesti pur ben evidenti. 

Excursus: The Beginner’s Guide

Anno 2015. Wreden, continuando la sua ricerca su cosa sia arte, rilascia The Beginner’s Guide, un “mockugame” dove invita i giocatori a seguirlo nella scoperta di un misterioso programmatore chiamato Coda, conosciuto a una Game Jam qualche anno prima e che, per sua stessa ammissione, ha influenzato molto il suo lavoro. Questa volta è proprio lui il Narratore che accompagna i fruitori in una serie di demo mai rilasciate chiedendo a se stesso e agli altri, con tanto di indirizzo email comunicato dopo il primo livello per discuterne insieme, se sia possibile ricostruire la personalità di un individuo solo tramite questi frammenti.

The Beginner’s Guide, 2015.

Come in The Stanley Parable, anche qui si vede il dietro le quinte, si attraversano spezzoni di giochi incompleti utilizzando glitch e modifiche ad hoc per scavare nel codice e trovare un significato.  Questo fino a quando, superando ostacoli quali labirinti invisibili, porte invalicabili o navigando nei sottomappa non si giunge ad un messaggio lasciato da Coda personalmente a Wreden, in cui viene ringraziato per l’interesse ma anche accusato di aver voluto, per un bisogno personale, attribuire a delle opere non sue dei simbolismi e delle sovra-interpretazioni improprie, commettendo di fatto l’errore che i critici avevano compiuto con i giudizi su The Stanley Parable. Il tutto per colmare il bisogno di trovare sollievo dalla crisi emotiva e creativa in cui si trovava in quel momento. 

Durante l’epilogo, Wreden ammette di avere problemi di validazione sociale e di “Sindrome dell’Impostore” e decide di farsi da parte, facendo concludere lo stralcio finale senza nessun commento, ormai sopraffatto dal tormento che lo ha investito e dall’accettazione di aver coinvolto un’altra persona in qualcosa che non voleva, solo per sentirsi partecipe e vivo.

Unity

Anno 2022. Dopo una campagna pubblicitaria cominciata nel 2018 – e che meriterebbe un approfondimento a parte – esce, per la prima volta su tutte le piattaforme e non solo su PC, una versione riveduta e ampliata di The Stanley Parable chiamata Ultra Deluxe.

Come pochi autori di videogiochi prima di lui Wreden riesce a ingannare il pubblico sui suoi reali scopi. Perché sì, The Stanley Parable: Ultra Deluxe è effettivamente quello che il marketing ha fatto credere fino al momento della sua pubblicazione, ma in realtà è molto altro. Già dall’inizio i conoscitori del gioco originale troveranno alcuni elementi, apparentemente innocui, che presagiscono un ulteriore livello di interazione, genialmente nascosti nei menu di calibrazione. I quali assurgono, di fatto, al compito di fondere il diegetico con l’extra diegetico, portando a termine un lavoro iniziato anni prima. Tali menu diventano, a ogni riavvio, sempre più bizzarri, fino a trasformarsi da semplici aggiustamenti di luminosità e orario in una sorta di dialogo con l’autore.

Si ha la possibilità di rigiocare interamente l’originale, anche per permettere ai neofiti di apprenderne le meccaniche, fino a quando non si sbloccherà il tanto famigerato “nuovo contenuto”. Nuovo contenuto dove, restando fedele al precedente lavoro di decostruzione, verranno messe alla berlina tutte le contraddizioni e le evoluzioni che il videogioco, ma anche l’industria dell’intrattenimento tutta, ha avuto dal 2011 a oggi.

Non si tratta però di gatekeeping o di nostalgia dei bei vecchi tempi, anzi. Nonostante l’umorismo caustico su come una riedizione non sia che un modo spesso utilizzato per aggiungere delle sciocchezze marginali atte solo ad appropriarsi del tempo (e dei soldi) di chi ne fruisce, la svolta vera e propria si ha proprio quando si guarda al passato ed è lì che Wreden si fa carne, si mostra reale e affronta a viso aperto i suoi demoni.

Il Narratore, rimasto deluso dalla pochezza delle nuove idee, ci porta nel suo rifugio che lui chiama la “Zona dei Ricordi” dove rivivere tutti i gloriosi momenti del passato. In questo luogo, una baita situata in un paesaggio bucolico, si ritroveranno le reali recensioni positive e i premi ricevuti dal gioco nel corso negli anni fino a giungere a una zona abbandonata, una discarica, dove sono nascosti i pareri negativi degli utenti lasciati su Steam. Questo lo porterà a commettere l’errore di dare ragione ai suoi detrattori (vero Mass Effect 3?) e a effettuare modifiche inutili che renderanno sì il giocatore libero come desidera, ma in un ambiente desolato e distrutto.

The Stanley Parable 2 (e 3, 4, 5…)

Non arrendendosi all’evidenza, perché “lo spettacolo deve continuare”, il Narratore decide di “propria” iniziativa di attuare un massiccio rebranding di The Stanley Parable, trasformandolo all’atto pratico in un secondo capitolo con tanto di nuova introduzione, inserendo elementi completamente slegati dal contesto originario solo per accalappiare nuova utenza. È il momento in cui Wreden si scatena e satiricamente si scrolla di dosso la sua ansia sociale, il suo dover piacere a tutti i costi, manifestando quanta sofferenza abbia dovuto processare per il suo essere stato osannato per i motivi sbagliati.

Se volessimo fare un parallelismo con un’opera pop recente la cosa che più gli si avvicina è “Rebuild of Evangelion” di Anno Hideaki. Le reazioni e la misinterpretazione da parte del loro pubblico sono identiche. Entrambi gli autori riprendono gli stilemi che li hanno resi famosi e li sovvertono mettendosi completamente a nudo, nella speranza di far passare il loro messaggio originale.

La similitudine è ancora più evidente nel vero epilogo, sbloccabile solo dopo aver provato le fallimentari nuove meccaniche create per far felici i fan. Accedendo nella parte finale a un terminale si avrà un ultimo scambio con Wreden, scambio che introduce diversi livelli di analisi oltre a richiamare direttamente Coda dal suo gioco precedente.

[…] È bello vederti. Ma è terribile sapere che non ci sarà mai un altro The Stanley Parable. Hai letto cos’hanno detto gli sviluppatori?? “Preservare l’integrità del franchise”?! Che assurdità!
The Stanley Parable non è sacro, non dobbiamo proteggerlo. Al diavolo l’eredità! Creiamo altri Stanley Parable finché non esplode il sole!
Buttiamo questo titolo per terra, trasciniamolo nel fango, sporchiamolo. E se alla gente non piace? Chi se ne frega? Vedi, era quello il problema del Narratore. Lui era ossessionato da quello che pensava la gente del suo lavoro. Non fare il suo errore. Non aggrapparti all’eredità. Lasciala bruciare. Non è difficile. Anzi, ti faccio vedere. Insieme faremo The Stanley Parable 3. È semplice, dobbiamo solo cambiare il numero nella schermata del titolo. Ci serve anche un sottotitolo davvero stupido per il gioco, qualcosa di chiassoso e pacchiano
The Stanley Parable non può finire. Può solo svilupparsi a spirale su sé stesso, per sempre. Devo continuare a far girare la ruota. Io sono pronto, e tu?

Davey Wreden (ma anche Hegel).

Con queste parole l’artista distrugge la sacralità della sua opera, una sacralità mai ricercata e che altri gli hanno imposto. Wreden si sacrifica, chiarendoci una volta per tutte che non c’è uscita da The Stanley Parable se non smettendo di giocare e cominciare a vivere la propria vita. Perché, ed è qui che ritorna prepotentemente Heidegger: basta esserci per diventare coscienza trascendentale in grado di progettare il proprio mondo, ben consci di avere una finitezza sancita solo dalla morte. Insomma, l’immanenza.

E chi vuol capire capisca.

Con la stoccata finale di poter considerare il gioco completato nella sua interezza solo non giocandoci per dieci anni, Wreden non fa che rimarcare ancora di più la necessità di non dover esistere esclusivamente per premere dei bottoni decisi da qualcun altro, ma che la salvezza possa avvenire tramite techne e cioè attraverso la creazione di una propria arte che dia un senso a ognuno di noi.

Questo sacrificio, come le parabole prevedono, è un insegnamento. Balliamo, beviamo e pecchiamo, esperendo solo attraverso noi stessi senza imporre ad altri il nostro vissuto e ciò che ci rende essere.

Sein-zum-Tode. Essere-per-la-morte, Davey.

EF


NOTE:

1 Come il modello descritto da Tzvetan Todorov nel suo “Poetica della prosa. Le leggi del racconto” (Milano, Bompiani, 1995)

2“Erickson’s various influences speak to the show’s premise of a workplace keeping dark secrets: films like The Truman Show, Office Space, Brazil, the video game The Stanley Parable, and the Dilbert comic strips.” Eric Francisco, Severance reveals the “scary” and “surreal” underbelly of office work in 2022, (Inverse 2022)

3“Video games are actions. Let this be word one for video game theory…. Consider the form differences between video games and other media: […] One plays a game. And the software runs. The operator and the machine play the video game together, step by step, move by move…. The video game, like the computer, [is] an action-based medium.” Alexander R. Galloway, Gaming: Essays on Algorithmic Culture (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2006)          


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Edmund Burke avrebbe giocato a Elden Ring

Edmund Burke avrebbe giocato a Elden Ring

  • Alfredo Savy

  • 11 novembre 2022
  • noninteragire

“Salisbury Cathedral from the Meadows” è un quadro del 1831 di John Constable, meraviglioso paesaggista inglese. La scena che si presenta agli occhi del moderno visitatore del Tate Britain, uno dei più grandi musei di Londra, è di controversa ricezione: se da un lato non è replicabile nell’uggiosa modernità di cui tutti – chi più e chi meno – siamo quotidiani spettatori, dall’altro è capace di evocare nel piccolo uomo una sensazione di impotenza che forse ha già avvertito in passato e che, confrontandosi con altri piccoli uomini, capirà essere addirittura comune.
La centralità della scena non è dominata dalla Cattedrale di Salisbury, da cui l’opera prende nome; al contrario, è data dalla tensione tra due elementi, la natura imponente e l’abbraccio dell’edificio al cielo tempestoso. Esprime, insomma, il conflitto tra due realtà, l’umana e la divina, con la prima che si lacera cercando di raggiungere, affascinata, la seconda. John Constable aveva dipinto il Sublime e, senza poterlo prevedere, aveva immaginato Sepolcride, la prima regione di Elden Ring (FromSoftware, 2022), già nell’Ottocento.

C’è un aneddoto che vale la pena riportare. Al Tate, accanto all’appena citata tela di Constable, ve n’è un’altra di William Turner, “Caligula’s Palace and Bridge”, a essa contemporanea e che suscitò addirittura un alterco tra gli artisti per la disposizione delle due presso una mostra, durante il 1831. Il giocatore di Elden Ring non avrà grosse difficoltà a riconoscervi la gloriosa decadenza di Leyndell, Capitale Reale che, proprio come l’Impero Romano di Caligola, ha lasciato tracce di sé dopo la fine. 

A sinistra: “Caligula’s Palace and Bridge”, di William Turner. A destra, “Salisbury Cathedral from the Meadows”, di John Constable.

In alto: “Caligula’s Palace and Bridge”, di William Turner. In basso, “Salisbury Cathedral from the Meadows”, di John Constable.

I misteriosi resti del passato si fondono con le tinte opache dell’immaginato da Turner, il quale assume il sapore dell’indefinito. Glorioso, eterno, indefinito. In un gioco di specchi rispetto a Salisbury Cathedral, stavolta l’uomo non si spinge verso l’alto ma è ridimensionato a essere riassorbito dalla forza che aveva osato sfidare in grandeur, con la storia della viva pietra che ne restituisce le ambizioni fallite. A conti fatti, però, il risultato non cambia: l’osservatore si sente minuto e miserabile, in balia del piacere derivante da una forza che annienta, volendo parafrasare Schopenhauer. Di nuovo, ecco il Sublime.

È proprio il filosofo di Danzica, partendo dalle considerazioni di Kant, a definirlo così nel suo grado più profondo:

Ma l’impressione è ancora più potente quando l’infuriare delle forze della natura ce l’abbiamo davanti agli occhi in grandi proporzioni (…). Di fronte a uno spettacolo di questo genere lo spettatore imperturbato acquisisce nel modo più chiaro la consapevolezza della duplicità della propria coscienza: sente se stesso contemporaneamente come individuo, come fragile manifestazione fenomenica della volontà, che può essere mandata in frantumi dal più piccolo colpo di quelle forze, inerme di contro alla potenza della natura, dipendente, in balia del caso, un nulla evanescente di fronte a potenze inaudite; e d’altra parte egli, allo stesso tempo, sente se stesso come esterno e sereno soggetto del conoscere (…). È questa l’impressione piena del sublime, prodotta qui dalla vista di una potenza che minaccia di annientare l’individuo e che è senza confronto superiore a lui.

Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giorgio Brianese, Piccola Biblioteca Einaudi 604, Libro Terzo, Paragrafo 39, pag. 271, ed. 2013 (ed. princ. 1819).

Di esempi e paragoni se ne potrebbero fare tanti. Si potrebbe citare “The Dreamer”, di Caspar David Friedrich: se solo non fosse stato realizzato nel 1840, sembrerebbe una fanart di un Senzaluce che si riposa presso la Chiesa di Elleh, nel tardo pomeriggio. Ancora, “Guisborough Priory, Yorkshire”, di Thomas Girtin, anno domini 1801, pare una riproduzione plastica di uno splendido rudere qualunque a nord di Liurnia dei Laghi, prima dello Altus Plateau; per capirci, la zona dove avviene il secondo incontro con Ranni. Eppure quest’operazione di ricongiungimenti platonici, seppure all’apparenza interessante, risulterebbe a un certo punto istrionica. 

Questo aspetto va necessariamente chiarito. Che Elden Ring rappresenti visivamente il punto apicale del videogioco romantico, volendo con questo termine riferirsi proprio al Romanticismo inteso come movimento storicamente originatosi a fine Settecento, è fattuale. Ne mutua, d’altronde, molti capisaldi artistici, espressi puntualmente dall’immagine di un Cavaliere che galoppa sui rimasugli del mondo che fu, costantemente orientato alla scoperta delle forze che lo regolano e attraversato dal timore di non poterle comprendere. Da quest’angolo, la danza degli accostamenti non solo è automatica, ma pure francamente banale. 

A sinistra la “Chiesa di Elleh”, in Elden Ring. A destra, “The Dreamer”, di Caspar David Friedrich.

Vale la pena di evidenziare con forza che Elden Ring non solo saccheggia il paesaggio romantico ispirandosi alle produzioni del periodo, ma arriva a realizzare la potenza del Romanticismo nel suo medium, e cioè il videogioco. In altre parole, il lavoro di FromSoftware non impatta solo sulla dimensione artistica, ispirata al Romanticismo, ma restituisce tutte le sensazioni, e i correlati temi, tipici di quella corrente. Per farlo, Miyazaki, Martin e gli sviluppatori del team giapponese hanno utilizzato come perno il Sublime, quale concetto centrale dell’intera impalcatura romantica. Ed è per questo che Edmund Burke, autore de “Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello“ (1757), non avrebbe certo disdegnato il poterci giocare.

Ciò comporta, di conseguenza, non solo un passaggio verso una critica che si muova attraverso questa particolare categoria dell’Estetica, e che conduca a rimodulare da quel punto di vista l’intero impianto analitico, ma rappresenta, contemporaneamente, un’incredibile opportunità.
Come si vedrà in seguito, proprio in questi anni c’è stata un’interessante operazione di recupero del Sublime, declinato in termini videoludici: questo apre a nuove chiavi interpretative che vanno anche oltre il Romanticismo, superando di gran lunga persino lo stesso Elden Ring. Ma ci arriveremo con calma, partendo da quello che quest’ultimo dice quando mostra.

Dal Gotico a Goethe…

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER su Elden Ring]

Se è vero che “l’architettura è un riflesso della spiritualità dell’essere umano nel suo tempo” ed “è una pericolosa commistione di onnipotenza e impotenza”,1 questa disciplina non può che assurgere a un ruolo centrale nel passaggio discorsivo dal Sublime al Sublime Videoludico. Elden Ring, infatti, comunica costantemente attraverso i suoi castelli, forti, chiese, complessi monumentali: hanno il compito di schiacciare il videogiocatore, costringendolo a una dimensione infima e, in ultima istanza, lo terrorizzano (è importante tenere a mente questo concetto, sarà utile in seguito).

Non solo. Gli edifici si pongono in una relazione di sequitur con la Natura, un ciclo continuo di costruzione e distruzione dove l’artificiale non si presenta in opposizione a campi, colline, laghi, cieli infernali, distese innevate e autunni perenni ma, casomai, stabilisce se stesso come prolungamento di ciò che già è. Tutto diventa, allo stesso tempo, sia un prodotto dell’Uomo che un precipitato di una forza esterna, la cui sintesi non può che trovarsi nell’azione divina. Deus sive Natura,2 l’Albero che genera la Vita, le Rune che determinano il piano dell’esistenza e l’Anello come indice dell’armonia: queste sono le coordinate di Elden Ring, la cui grandezza e potenza si manifesta nei confronti del minuscolo fruitore. L’Ordine (Aureo) si realizza, perciò, con una manipolazione della Natura, un’operazione che appartiene solo a colui che è in grado di correggerne le disfunzionalità. E cioè, di nuovo, a Dio.

Due esempi di Gotico. Vittoriano a Raya Lucaria (a sinistra), Temperato a Villa Vulcano (a destra).

Due esempi di Gotico. Vittoriano a Raya Lucaria (in alto), Temperato a Villa Vulcano (in basso).

Lo stile scelto per simboleggiare questo ponte non poteva che essere il Gotico. FromSoftware ha disseminato la sua opera soprattutto di quello Fiammeggiante, presente a Sud, ma si ritrova agilmente il Germanico – nelle guglie impazzite e dorate di Leyndell – insieme a tracce vittoriane nell’Accademia di Raya Lucaria; ovvero il Gotico italiano, dalle forme meno esasperate e più solide, nella rossa Volcano Manor. Si sfruttano continuamente i cambi di stato, con ampi spazi artificiali rivelati da strettoie naturali e spettacolari orizzonti anticipati da corridoi. Senza contare i continui sussulti ricevuti dalla palette cromatica.

I due esempi di scuola sono certamente l’arrivo alla Capitale, che emerge nella sua grandiosità dopo un viaggio cunicolare dovuto alle caratteristiche fisiche del luogo, e l’apertura di Liurnia dei Laghi, posteriore all’attraversamento del cuore pulsante di Grantempesta.

A tal proposito, è fondamentale sottolineare il cambiamento che si presenta nel momento in cui il videogiocatore scende nelle profondità dell’Interregno, tra l’Acquedotto Siofra, Nokron e Nokstella, fino al Palazzo di Mohgwyn. Il Gotico cede il passo a uno stile Classico, il cielo diventa stellato e la composizione complessiva tende a rassomigliare più al mondo ellenistico – dov’è nato proprio il concetto di Sublime – che al medioevo europeo e romantico. Il fruitore si trova, dunque, a subire lo scarto che separa il “Sublime dinamico” dal “Sublime matematico”, di matrice kantiana.

È Gilles Deleuze a rimarcare, in una sua lezione del 1978, la differenza tra i due:

La risposta di Kant [è che] vi sono due categorie di sublime: il sublime “matematico” (definito matematico perché è estensivo), e quello che è chiamato sublime dinamico (un sublime intenso). Ad esempio, (…) la volta celeste ricca di stelle quando il cielo è limpido è il sublime matematico (…). Il sublime dinamico è il mare agitato, è la valanga. In questo caso, subentra il terrore.

Kant: Synthesis and Time, seminario del 28 marzo 1978. Citazione tradotta dal redattore.

Perciò il piccolo, pavido, minuscolo avatar è intrappolato tra la potenza della superficie, fatta di costruzioni che tendono a una Natura capace di affascinare nel suo orroredelightful horror, direbbe appunto Burke3e l’estensione illimitata del sottosuolo, con le sue, ossimoriche, costellazioni sotterranee. Inizia i suoi dungeon legacy – le città nella città – quasi sempre schiacciato dalla monumentalità dei luoghi e accecato dalla tensione verso l’alto degli archi, con una riverenza sacrale che deriva dalla percezione senza comprensione. I luoghi dei boss, dei semidei, diventano immagine degli stessi, della loro maestria combattiva e, più in generale, dello status che possiedono all’interno dell’universo, capacità di bloccare gli astri compresa. “L’infinito non è comprensibile come un tutto ma è pensabile come un tutto”, sostiene Lyotard;4 e in quell’ambivalenza si sviluppa il Sublime, tra paura ed esaltazione.

Leyndell, Capitale Reale. Particolare dei “cambi di stato”.

Non finisce qui. In un videogioco dove la spazialità, in generale, e l’architettura, in particolare, hanno il compito di generare costantemente il sentimento del Sublime, non sorprende che gli sviluppatori di Elden Ring abbiano affidato, in maniera primigenia, proprio al secondo aspetto la rivelazione cruciale del titolo, il suo punto di svolta narrativo. La riduzione effettuata sulla statua di Marika rivela l’intimo segreto di quest’ultima: e cioè che è, in realtà, Radagon. Pur rinviando ad altri luoghi l’analisi strettamente narratologica della cd. lore del lavoro di FromSoftware, è innegabile che il dualismo Marika-Radagon generi una certa risposta nel videogiocatore, e lo induca a provare terrore verso un fenomeno che non è in grado di capire. 

Il rapporto di unità tra il genere maschile e femminile della divinità – insieme alla capacità di generare figli con se stessa – viene dunque accettato come un dogma e, contemporaneamente, funge da catalizzatore per spingere il fruitore alla soglia più alta. A ciò si aggiungono, ovviamente, i rilievi successivi che individuano la distruzione dell’Anello Ancestrale da parte di Marika come vero e proprio atto di consapevole ribellione verso un’altra entità – la Greater Will – in un gioco di scatole cinesi e motori immobili che si è solamente in grado di sfiorare, rimanendo ammaliati e atterriti dalle poche briciole di cui è possibile godere. Si impatta in un limite della ragione, di cui si riesce a sentire istintivamente il margine superiore ma non a farlo realmente proprio. Senza che, dopotutto, l’insieme perda di fascino.

Classicità e vastità dei cieli stellati.

Proprio la circolarità del passaggio dalla donna Marika all’uomo Radagon, e viceversa, simbolicamente rappresentata dal famoso ed equivoco disegno della dea crocifissa, dove effettivamente si presenta una certa illogicità delle forme capace di generare una paura primordiale, ricorda la lettura di Margaret Fuller dell’eterno femminino di Goethe. 

Il maschile e il femminile rappresentano le due facce del dualismo più radicato. Ma, nella realtà delle cose, si muovono costantemente l’uno nell’altro. Ciò che è fluido si indurisce e diviene solido, il solido precipita nel fluido. Non esiste uomo mascolino per davvero e non vi è donna esclusivamente femminina.

Margaret Fuller, citata in The Woman Question: Society and Literature in Britain and America, 1837-1883, Volume 1: Defining Voices, Di Elizabeth K. Helsinger, Robin Lauterbach Sheets, William R. Veeder, 1989. Citazione tradotta dal redattore.

Il concetto espresso dal trascendentalismo femminista ha due grandi meriti oltre, s’intende, a realizzare il fondamento filosofico del twist proposto da FromSoftware. Il primo è nella riflessione, conseguente e necessaria, sul punto di equilibrio tra le spinte verso l’alto provenienti dalla donna e la funzione conservativa dell’uomo (Marika distrugge l’anello, mentre Radagon prova a ricomporlo), il che si associa all’idea dell’essere umano dilaniato da desideri contrapposti, riflessi da forme fisiche mutevoli. Il secondo, maggiormente consono al perimetro di questo contributo, è da ricercarsi nel più generale argomento del Sublime Videoludico. 

…e dal Sublime al Sublime Videoludico

Dopo aver analizzato la dimensione – si potrebbe dire, quasi ironicamente – statica del Sublime in Elden Ring, cioè le modalità con cui lo studio giapponese ha realizzato la componente visiva del Sublime, attraverso una notevole direzione artistica basata sul dualismo tra Uomo e Natura, per il tramite dell’architettura e rinforzando poi il tutto attraverso un modello narrativo criptico e per dogmi, è tempo di allargare l’obiettivo. Come suggerito in apertura, si tratta di utilizzare Elden Ring in vece di esemplare perfetto della teoria generale del Sublime Videoludico, aiutando a confermarne la validità ad ampio spettro, proprio in rapporto al mezzo attraverso cui si esprime.

Illogicità e paure ancestrali.

In realtà, va sottolineato che negli ultimi anni si sono intensificati gli sforzi per un’impostazione dottrinale di questo tipo, che va ovviamente utilizzata quale base della nostra indagine. L’ultimo intervento in materia è da ricercarsi nell’eccezionale libro di Matthew Spokes, “Gaming and the Virtual Sublime: Rhetoric, Awe, Fear, and Death in Contemporary Video Games”, pubblicato nel 2020 da Emerald Publishing e, purtroppo, totalmente inedito in Italia. Dopo una veloce panoramica sulla storia filosofica del Sublime, passando dal “Trattato del Sublime” attribuito a Longino al techno-sublime di Fedorova, l’autore scopre finalmente le sue carte.

Essenzialmente, il mio obiettivo è quello di portare alla luce la complessità insita nei videogiochi tanto quanto nell’utenza e di riflettere su come il coinvolgimento che si pone in essere tra noi e queste esperienze emotive possa essere compreso attraverso il concetto del Sublime.

M. Spokes, Gaming and the Virtual Sublime, p. 61, citazione tradotta da Luca Rungi.

In altre parole, l’approccio metodologico di Spokes tradisce la volontà di superare il conflitto tra ludologi e narratologi, ormai arrivato a un punto morto e diventato addirittura parossistico. È solo la Critica sviluppatasi attorno al Sublime a esaltare le qualità uniche del videogioco. Grazie a una riedizione delle dinamiche soggetto-oggetto, sarebbe infatti in grado di amplificare l’ergodicità5 di questo medium, afferrandone la complessità ed evitando certi pericolosi strutturalismi, insieme ai morbosi tentativi di stabilire un confine arbitrario tra gli stessi. Pertanto, attraverso il Sublime si coglierebbe la totalità del videogioco.

Meraviglie e parallelismi. “Apertura di Liurnia”, a sinistra; “Viandante sul mare di nebbia” (Friedrich, 1818), a destra.

Meraviglie e parallelismi. “Apertura di Liurnia”, in alto; “Viandante sul mare di nebbia” (Friedrich, 1818), in basso.

Per portare avanti la sua trattazione, lo studioso anglosassone utilizza quattro parametri che identificano il Sublime Videoludico: Rhetoric (retorica), Awe (meraviglia), Fear (paura) e Death (morte), conditi da vari esempi pratici, come God of War (Santa Monica Studio, 2018), Sekiro: Shadows Die Twice (FromSoftware, 2019), Red Dead Redemption II (Rockstar Games, 2018) e Silent Hill 2 (Konami, 2001). Quello che Spokes non poteva sapere è che, solo due anni dopo l’uscita del libro, sarebbe arrivato sul mercato Elden Ring, capace di rispondere in maniera perfetta a ognuno di questi criteri, diventando a sua volta il metro di paragone futuro. 

In effetti, di Elden Ring si sono lette lodi sperticate in ogni dove. C’è chi ha speso litri di inchiostro virtuale magnificandone l’open world rivoluzionario, mentre altri si sono lasciati ingolosire dall’art direction o ne hanno celebrato alcuni aspetti relativi alle meccaniche-dinamiche di gioco. Eppure, l’unico frangente in cui emerge davvero come titolo di rottura, dato dal modo in cui tutte queste grandezze si mescolano tra loro per generare, nel fruitore, il sentimento del Sublime, è stato paradossalmente ignorato.6 

Andiamo con ordine. Per “meraviglia” Spokes si riferisce a quella derivante dalla spazialità del videogioco: in un certo senso, agli “interminati spazi al di là di quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete”7 così perfettamente espressi dalla poesia Leopardiana. Eppure, ciò a cui Spokes fa riferimento quando parla di “realistic environments” non è la mera grandezza e vastità degli ambienti, perfettamente espressa dalla prima menzionata apertura di Liurnia e dalle tecniche usate da FromSoftware per suscitare stupore descritte nel paragrafo precedente (lo stretto che sfocia nel largo e viceversa).

Schiacciati dal Sublime, in Farum Azula.

No: non è solo il semplice saccheggio delle tecniche costruttive del Colonnato del Bernini, che emergeva dalla Spina di Borgo, generando un contrasto tra ambienti. È qualcosa in più, che si lega alle peculiarità del quest design, all’assenza di quest marker, alla feralità degli NPC, alla difficoltà tipica di un Souls, al sovraccarico emotivo che va oltre ciò che si vede. È la molteplicità degli elementi di cui si compone il game design – e in maniera più impropria, il gioco – a investire il singolo individuo, generando il distacco tra soggetto e oggetto e quella sensazione di meravigliosa sopraffazione tipica del Sublime, appunto. Il quale spinge ad apprezzare e studiare il tutto, non la parte.

Retorica” e “paura”, invece, sono strettamente collegate.
Rifacendosi proprio al Sublime classico di Longino, Spokes scrive:

Longino descrive questa grandiosità cangiante come una portatrice di sentimenti singolari. La retorica del sublime produce estasi [ekstasis] piuttosto che persuasione nell’ascoltatore grazie a una combinazione di stupore [ekplêxis] e meraviglia [thaumasion], qualcosa di diverso da ciò che egli descrive come “semplice piacere”. (…)
La retorica procedurale può spingere i videogiocatori verso un’esperienza quasi trascendentale così come descritta da Longino stesso: la combinazione di una narrazione attraverso elementi architettonici e di tutto ciò che spinge il videogiocatore a procedere offre la possibilità di instillare meraviglia e sbigottimento nel caso gli sviluppatori intendano creare un videogioco proprio a questo scopo.

Ibidem, cap. 5. Citazione tradotta da Luca Rungi.

Se la retorica longiniana è perfettamente rappresentata dalla capacità dei pochi dialoghi di perturbare, a causa dell’utilizzo di un Old English decisamente evocativo – le “Marika’s own words”8 su tutti – il discorso si fa lievemente più complesso per quanto riguarda la cd. retorica procedurale, considerata in forza di retorica propria del videogioco. Nel caso della procedura che persuade, Spokes ne determina un complesso perimetro di elementi narrativi e ludici; incidentalmente, è perorata nuovamente la causa della “Critica del Sublime” come sintesi tra le due prima segnalate scuole di pensiero sul videogioco.

La Elden Beast contiene in sé stelle e galassie, unendo il Sublime matematico a quello dinamico.

Più precisamente, è la sensazione di terrore a ridurre la distanza tra controllante e controllato, avvicinando il primo, emotivamente, all’oggetto videogioco; si fonde, perciò, con la retorica “monodimensionale” di Longino, rendendola effettiva. Supera gli spazi meramente narrativi che sono incapaci ex se di colmare il naturale grado di separazione tra avatar e giocatore, riuscendo quindi a combinare la persuasione con la suggestione. In sostanza, Spokes rivede l’idea di Bogost-Frasca,9 arrivando a una concezione diversa e più ampia proprio attraverso il Sublime. La paura che deriva dalla precedentemente discussa transizione continua di genere tra Radagon e Marika, in quanto incomprensibile alla ragione, viene amplificata dal fatto che l’unico personaggio a poter fare altrettanto è proprio quello gestito dal videogiocatore. 

All’anonimo Senzaluce è concesso di potersi muovere a piacimento da un corpo femminile a uno maschile (e ritorno) durante la partita, sia all’hub di gioco che presso Rennala. Ecco che una semplice opzione di “modifica aspetto” acquisisce un nuovo significato, perché praticata da un’attrice la cui vita è stata devastata proprio dal dualismo Marika-Radagon. Chi è dall’altra parte dello schermo intuisce istintivamente il collegamento e, anche se non gli si presenta chiaramente agli occhi, lo conduce a sentirsi coinvolto dall’oggetto del suo terrore: è l’unico possibile destinatario di quella realtà, dopotutto. Colui che la svela e le si avvicina.

Ovviamente, a tutto questo vanno ad aggiungersi le immagini cristologiche di Radagon e l’apparente, successiva, anticlimaticità della battaglia con l’Elden Beast, l’araldo del vero Dio che sale in alto prima di attaccare in maniera incredibilmente aggraziata. Ogni componente di Elden Ring è (dis-)armonicamente collocata in modo da fondersi all’interno di un flusso ludonarrativo preciso, che arriva al giocatore e, parafrasando Longino, lo conduce all’estasi.

Eucaristie e crocifissioni.

L’ultimo parametro è “morte”. Spokes, a tal proposito, lo utilizza quasi come un equivalente di “Failure” (fallimento) e “Repetition” (Ripetizione), con delle lievi gradazioni.

A questo proposito, è possibile comprendere i concetti di fallimento e agency tenendo in considerazione il concetto virtuale del sublime, in quanto esperienza emotiva in grado di destabilizzare il soggetto (ovvero il videogiocatore) andando a minare la sua relazione con l’oggetto (il videogioco). In un’ottica Kantiana, la possibilità di avere una forma di controllo sulle conseguenze di ciò che si fa, di dirigere il cambiamento, viene sradicata.

Ibidem, cap.8, citazione tradotta da Luca Rungi.

Il rapporto tra il genere Souls e la morte è uno degli aspetti più investigati da parte della critica moderna. In questo frangente, però, non è inserita nella ricerca della perfezione del gesto tipicamente giapponese, l’arte quale techné, al cui culmine si arriva per approssimazioni successive e con il fallimento che ne delinea un passaggio fisiologico. È immaginata, per converso, quale perdita di controllo sul videogioco stesso, che dunque si rivela altro rispetto a chi, concretamente, lo sta giocando. Ma la morte non inferisce solo sul rapporto soggetto-oggetto: piuttosto,“symbolises or actualises the individual’s confrontation with their limit”; permette proprio al videogiocatore di spingersi oltre il limite. Questa struttura ludica indica “a subjective personal attempt at reconciling the absolute”,10 cioè un tentativo soggettivo di comunicare con quella potenza che potrebbe annientarlo, tornando a Schopenhauer.

Elden Ring fornisce, sul tema della morte, una risposta dotata di diversi layer, narrativi e ludici. Dal ruolo dell’Albero Madre nella rinascita alla quest di Fia, è a essa associata – con la morte di Dio e Fractured Marika come l’ultimo “Luogo di Grazia” visitabile durante il filone principale  – addirittura il finale del gioco. Ugualmente, è una componente fondamentale del core gameplay, al punto da essere estremamente caratterizzante, soprattutto nei confronti con i boss. Si potrebbe addirittura sostenere che Elden Ring sia il gioco della morte: ancora una volta rappresenta un limite verso cui tendere, seppur atterriti, prendendo in considerazione anche il livello di abilità personale.

La morte di Dio, in prima persona.

Metaforicamente, l’intera conclusione della storyline di Ranni esprime la potenza del Sublime attraverso le quattro grandezze di Spokes.
Profetizza così la strega, con il volto di Marika-Radagon appena riposto (simbolo della morte), lasciando pochi dubbi su quale fosse il vero e proprio cuore di Elden Ring e decretando proprio il passaggio tra le ere per il tramite del Sublime:

Oggi ha inizio la notte del gelo che tutto abbraccia, proteso verso il grande oltre. (Meraviglia)
Tra paura, dubbio e solitudine… (Paura)
Un sentiero che si inoltra nelle tenebre… (Retorica)
Ordunque, è tempo?

Elden Ring, monologo finale di Ranni. Aggiunte in parentesi del redattore.

Oltre Elden Ring c’è Disco Elysium

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER MINORI su Disco Elysium]

L’ultima parte del nostro lungo contributo è dedicata al superamento di Elden Ring. Stabiliti, dunque, gli aspetti più centrali del Sublime Videoludico, è tempo di portare questi affilati strumenti su campi di battaglia diversi. 

In tal senso, la scelta di Disco Elysium non è casuale: data la complessità del titolo di ZA/UM sia in termini narrativi-tematici che puramente ludici, anche in questo caso il filtro del Sublime risulterà appropriato per coglierne il discorso unitario. Quello che, insomma, viene recepito istintivamente dal videogiocatore, soggetto, in rapporto con il videogioco, oggetto.

Eppure, Disco Elysium non è un videogioco artisticamente ispirato al Romanticismo. Anzi, dalla sua si spende per una Revachol espressionista, fino a toccare perfino l’espressionismo astratto quando c’è da raffigurare distorsioni dello spazio-tempo dovute a differenze di reddito troppo pronunciate. Harrier Du Bois non si muove in uno spazio segnato dal Gotico che desidera toccare la Natura, ma attraverso i dolori della Rivoluzione fallita, in un mondo decadente e decaduto.

Eppure, allo stesso tempo, Disco Elysium è il videogioco del non misurabile e dell’indefinito, grandezze in cui si muove il sentimento del Sublime.
Scrive Deleuze a riguardo:

Non riesco più a riprodurre delle parti, non riesco più a riconoscere le cose […] è l’infinito che racchiude in sé tutto lo spazio, oppure lo ribalta; se la sintesi della mia percezione è inibita, lo è in quanto la mia stessa comprensione estetica è compromessa, ovvero: non mi trovo in un ritmo, ma nel caos.

Kant: Synthesis and Time, seminario del 28 marzo 1978, citazione tradotta da Luca Rungi.

Il ritmo, caratteristica più intima della musica, diventa il modo per ricondurre a coerenza ciò che ha inevitabilmente alterato la percezione, minando la comprensione. Per ridurre il caos. E se su quel filo sottile tra queste due grandezze – ritmo e caos – si muove il Sublime, diventa chiaro che la danza si esprime come anti-Sublime, un modo per riaffermare il soggetto e la sua centralità nel mondo. Disco Elysium è già dal nome un ossimoro, il quale trova la vetta espressiva nella sua versione “Hardcore to the Mega” della chiesa. 

La chiesa e la danza. Disco (più) Elysium.

Questa piccola costruzione umana è, dopotutto, edificata attorno al Sublime, e in particolar modo a The Pale, l’antimateria, il Nulla che assorbe il Tutto, la Natura selvaggia e cattiva, l’entropia, il mare bianco di Saramago11 e, di nuovo, forse il Dio spinoziano. Accanto a The Pale, al suo andare e tornare dal mondo così come si viene e si va dagli stati che comunemente chiamiamo vita e morte “after life, death; after death, life again” e“after the world, the pale; after the pale, the world again” – c’è il ballo di Harry. Un ballo che il fruitore può o meno sbloccare, così come può o meno inchinarsi davanti alla figura di Dolores Dei, di nuovo il femminino eterno di Goethe;12 e il videogioco diventa un unicum restituito solo dalla dimensione ambivalente del Sublime. 

Lo stesso giocatore si trova davanti l’Amore – a suo modo un Sublime anch’esso, per il desiderio di giungere a una dimensione troppo elevata da capire appieno, tra terrore ed estasi – raggiungendolo solo da lontano: un telefono, un sogno. Dora diventa Dolores, il sovrumano si perde in un sentimento e, di nuovo, si è molto piccoli. 

All’opposto, Disco Elysium potrebbe edificare un nuovo Sublime, il Sublime politico: quella sensazione che si prova rendendosi conto di aver mancato clamorosamente l’appuntamento con la Storia, che quando si faceva non c’eri e, anche se ci fossi stato, non sarebbe cambiato nulla. Eppure si rimane legati al cambiamento mai avvenuto, per l’attrazione terribile che porta con sé, così come un disertore su un’isola disabitata. La Natura non è più tale, perché l’immutabilità è ora creata dagli Uomini, un eterno ritorno dell’uguale a cui nessuno può sfuggire.

Un giorno.

Eppure eccolo lì, il Fasmide. La potenza che atterrisce, la vendetta delle forze oltre la comprensione – anche del videogiocatore. Il terrore, la meraviglia, la morte, la retorica (qui addirittura un elemento di gameplay) si fondono insieme, generando il Sublime. A Harry non rimane che una mano tesa in una foto, simbolicamente avente lo stesso significato del Gotico: tensione perenne, tensione per sempre.

L’arte rende l’infinito avvertibile”,13 sostiene Andreij Tarkovskij. La grande lezione di Elden Ring è di avercelo ricordato, così come a memorie lontane ci riporta una gomma da masticare. Magari al gusto albicocca.

AAS 


NOTE:

1 QUESTE LE DEFINIZIONI, RISPETTIVAMENTE, DI MATHIAS GOERITZ E REM KOOLHAAS. QUI PER LEGGERNE ALTRE.

2 SI TRATTA DI UN CONCETTO APPARTENENTE ALLA FILOSOFIA DI BARUCH SPINOZA, PRESENTE NELLA SUA ETHICA (1677).

3 NEL GIÀ CITATO “UN’INDAGINE FILOSOFICA SULL’ORIGINE DELLE NOSTRE IDEE DI SUBLIME E BELLO”.

4 PIÙ PRECISAMENTE, LO SOSTIENE NEL SUO SPLENDIDO “LEZIONI SULL’ANALITICA DEL SUBLIME” (1991), EDITO IN ITALIA DA MIMESIS (2015).

5 CFR. CON CYBERTEXT: PERSPECTIVES ON ERGODIC LITERATURE BY ESPEN J. AARSETH, JOHN HOPKINS UNIV. PRESS, 1997. 

6 TRANNE CHE DALL’UTENTE LOWERCASE DI YOUTUBE CHE, IN QUESTO VIDEO PURTROPPO CON POCHISSIME VISUALIZZAZIONI, HA COLTO PIENAMENTE LA FACCENDA.

7 IL RIFERIMENTO È, OVVIAMENTE, A “L’INFINITO” (1819).

8 UN ESEMPIO: “IN MARIKA’S OWN WORDS. O RADAGON, LEAL HOUND OF THE GOLDEN ORDER. THOU’RT YET TO BECOME ME. THOU’RT YET TO BECOME A GOD. LET US BE SHATTERED, BOTH. MINE OTHER SELF”.

9 PER APPROFONDIRE:
BOGOST, I. (2007). PERSUASIVE GAMES: THE EXPRESSIVE POWER OF VIDEOGAMES. BOSTON REVIEW.
SIMULATION VERSUS NARRATIVE: INTRODUCTION TO LUDOLOGY, GONZALO FRASCA, VIDEO/GAME/THEORY, EDITED BY MARK J.P. WOLF AND BERNARD PERRON, ROUTLEDGE, 2003.

10 QUESTO VIRGOLETTATO, COSÌ COME IL PRECEDENTE, È TRATTO DA “M. SPOKES, GAMING AND THE VIRTUAL SUBLIME”, PAG. 141.

11 COSÌ IN “ENSAIO SOBRE A CEGUEIRA”, TRADOTTO IN ITALIANO CON “CECITÀ” (1995).

12 STAVOLTA NELLA SUA VERSIONE PIÙ “PURA”, COME BEN ANALIZZATO IN QUESTO ARTICOLO.

13 IN “SCOLPIRE IL TEMPO. RIFLESSIONI SUL CINEMA”, ED. UBULIBRI, 1995, PAG.39.


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Metti l’orrore, togli l’orrore

Metti l’orrore, togli l’orrore

  • Luca Rungi

  • 31 ottobre 2022
  • noninteragire

Quando ripensiamo a un videogioco horror che ci ha colpiti o coinvolti, tra ciò che può rimanere con noi dopo la fruizione ci sono anche quei momenti che sono riusciti a inquietarci o spaventarci in maniera particolarmente efficace. Tuttavia, si tratta talvolta di piccoli frammenti, erosi ferocemente dal passare del tempo; al contrario, sono gli eventi, i fatti, a catturarci e rimanere fissati nella memoria. E forse questo non è un caso.

Nel documentario scritto e presentato da Slavoj Žižek, “Guida perversa al cinema” (A Pervert’s Guide to Cinema, Sophie Fiennes, 2006), il celebre filosofo e politologo sloveno, nel suo fiume impetuoso di considerazioni psicoanalitiche o di altra natura, a un certo punto sfodera una chiave di lettura alquanto intrigante e promettente riguardo il genere horror, attinente quindi anche al videogioco:

The first key to horror films is to, say, let’s imagine the same story but without the horror element. This gives us, I think,  the background.

Slavoj Žižek, A Pervert’s Guide to Cinema

Un’affermazione che potrebbe dapprima lasciare un po’ spiazzati, ma la sua applicazione sul film trattato in quel momento nel documentario, ovvero “Gli Uccelli” (The Birds, Alfred Hitchcock, 1963) ne dimostra già un piccolo assaggio del potenziale. Ed è proprio da questa considerazione che è scaturita la scintilla per questo pezzo.

Ma non è tutto. Le cose si fanno infatti ancora più interessanti non appena subentrano i film di David Lynch, dove Žižek inquadra in una maniera precisa e sorprendente tutte quelle figure maschili prive di redini e imprevedibili come Frank, interpretato da Dennis Hopper, in “Velluto Blu” (Blue Velvet, 1986). Queste sono le parole usate:

It’s not simply that they possess phallus, that they have phallus as the insignia of their authority. In a way, they immediately are phallus. […] This is the most terrorizing experience you can imagine: directly being the thing itself. […] The provocative greatness of these Lynchian obscene paternal figures is that not only they don’t have any anxiety, not only they’re not afraid of it. They fully enjoy being it. They are truly fearless entities beyond life and death […]. And then, in the end, [they] are sacrificed.

Ibidem

Ed è qui che giunge l’epifania di questa introduzione, la luce che filtra dal vetro della chiesa e investe John Belushi in The Blues Brothers in tutta la sua forza rivelatrice: come si fa ad ascoltare questa descrizione senza andare subito col pensiero a una delle figure più perturbanti (ma anche morbosamente affascinanti) uscita dalla mente di Masahiro Ito? Stiamo parlando, naturalmente, del ben noto Pyramid Head presente nel famoso videogioco horror Silent Hill 2 (Konami, 2001).

In “Velluto Blu”, Frank in realtà non punta la mano verso il protagonista (non sa di essere spiato), ma i due gesti sono molto simili.

A questa considerazione ne è seguita subito un’altra, quasi prepotente un po’ come queste figure paterne deviate appena descritte. Se David Lynch è stato in grado di dare corpo a queste entità fuori dal comune semplicemente incanalando il talento dei suoi attori in carne e ossa, di conseguenza l’approccio estetico dei Silent Hill, così “sboccato” e sopra le righe, è da considerarsi un espediente maturo dell’horror psicologico a tutti gli effetti?

Questo interrogativo è volutamente provocatorio e, per ora, verrà lasciato in un cassetto. Torniamo invece alle premesse dell’articolo: togliere l’horror dal videogioco, o meglio da quei titoli da esso contraddistinti, per vederci più chiaro e, chissà, magari ricavare qualcosa di più da ciò di cui si è discusso e ridiscusso fino a oggi. E perché non cominciare proprio… da Silent Hill?

In effetti, per gran parte di questo articolo saranno affrontati i primi capitoli di Silent Hill. Essendo un filone piuttosto importante abbiamo ritenuto che adottare quest’ottica curiosa proprio sui primi tre titoli (molto simili e diversi al tempo stesso), poteva mostrarne le potenzialità creando anche una base coesa per il discorso. Le vicende rispettive saranno richiamate quanto basta a sostenere il discorso per non allungare il brodo in maniera superficiale.

Crescita, identità, separazione e ricongiunzione

[DISCLAIMER: Oh, va da sé che ci saranno pure i cosiddetti SPOILER qua e là. Pronti? Si parte]

Il primo capitolo della saga1 è stato un fulmine a ciel sereno per la community degli appassionati del videogioco survival horror (e non) dell’epoca, un genere che proprio in quel periodo stava ancora forse costruendo il suo linguaggio nel medium, sondando il terreno riguardo la possibilità di muoversi liberamente in un ambiente totalmente tridimensionale. Il primo Silent Hill è molto importante in questo e molti altri sensi, e anche se ne ribadissimo in questa sede tutte le ragioni (come meriterebbe), difficilmente aggiungeremmo qualcosa rispetto ai molti contributi e dibattiti che si sono sviluppati in seno a questo capitolo fondamentale negli anni.

Sì Cheryl ora parliamo anche di te, non ti preoccupare.

Cominciamo invece la nostra “Cura Alfredo” proprio su questo titolo di culto (il nostro direttore non stravede per tutte le manifestazioni del perturbante, soprattutto lato videogioco horror, da cui il nome goliardico). Via l’orrore. Al bando le presenze striscianti, saltellanti, gorgoglianti e poco sensibili al nostro spazio personale. Le grate arrugginite che si affacciano sull’abisso non ci sono più. Il comune ha riparato le voragini delle strade e disinfestato il vicinato. Via persino gli orrori non riconducibili al soprannaturale (stiamo parlando, naturalmente e purtroppo, delle vessazioni subite da Alessa Gillespie). Ecco fatto.
Che rimane? Che ci crediate o no, moltissimo.

Tutto comincia con la scelta di un viaggio. A scegliere la destinazione, tuttavia, non è il protagonista Harry Mason, ma sua figlia Cheryl. Quest’ultima sente il richiamo della sua altra metà, Alessa Gillespie, che la (ri)conduce a Silent Hill. Questo fattore tuttavia fa già parte innegabilmente della sfera del soprannaturale ed è quindi da accantonare ai fini della “Cura Alfredo”. Teniamo presente invece, semplicemente, il fatto che Cheryl abbia detto al padre dove voleva andare. Questa bambina ha sette anni e, solitamente, le vacanze vengono organizzate dai genitori e non dai figli. Ma non questa volta.

In seguito all’incidente d’auto ritratto nella scena introduttiva, Cheryl fugge improvvisamente dal padre mettendosi tra l’altro, per un attimo, in una posa molto curiosa e difficilmente riconducibile all’indole di una bambina. Sembra già adolescente, quasi indisposta e distante.

Questa breve cutscene serve proprio a far intendere al giocatore che Cheryl non è già più la stessa.

Il cambiamento avviene all’improvviso e forse, con un poco di fantasia, persino l’automobile in cui stanno Harry e Cheryl può essere interpretata come un nucleo protetto in cui a guidare c’è il padre (la moglie di Harry è morta qualche anno prima dell’inizio della vicenda). L’incidente quindi potrebbe rappresentare una rottura del patto, unita al desiderio della futura adulta di essere più indipendente. Di lì a poco, infatti, verrà assorbita da una ragazza che ha il doppio dei suoi anni (e quindi adolescente a tutti gli effetti).

Cheryl non conosce Alessa: è una sconosciuta, ma percepisce che c’è un legame tra loro indissolubile, che la richiama. Volendo, si potrebbe leggere questa dinamica come il processo in cui si va a formare la propria personalità crescendo: sai che diventerai qualcosa di diverso, ma non esattamente cosa.

Silent Hill, insomma, potrebbe avere come tematica centrale e sullo sfondo (il background, per usare le parole di Slavoj Žižek citate in apertura) proprio la tematica della crescita. Harry, spiazzato da questo cambiamento in Cheryl, continua a cercare sua figlia inseguendo ciò che conosce di lei, forse in un’iniziativa alimentata dal suo rifiuto di accettare la realtà: la cerca nella scuola elementare, all’ospedale, in giro per la città inseguendo e servendosi, tra l’altro, di oggetti legati all’infanzia. Ma senza successo, perché Cheryl non è più una bambina e, forse, quella figura che grida aiuto, che si vede brevemente nei tubi catodici del centro commerciale, è nient’altro che un imbroglio: la Cheryl fanciulla a quel punto, probabilmente, non esiste già più.

Alcuni criticarono l’aspetto tecnico del primo Silent Hill, nonostante abbia, di fatto, ambientazioni spesso più dettagliate dei fondali pre-renderizzati del primo Resident Evil, un altro famosissimo videogioco horror.

L’adolescenza è un’età turbolenta, un ricettacolo di cambiamenti profondi e non solo fisici e Alessa, completamente bendata a causa delle ferite che si incontra a fine gioco, potrebbe, volendo, essere interpretata come un bozzolo pronto a schiudersi (il gioco dà ampio credito a questa lettura, in uno dei finali). Se continuiamo ad applicare questo approccio alla storia, la migliore conclusione ottenibile ci restituisce una lettura interessante e, forse, più positiva di quella offerta da Silent Hill stesso, se preso alla lettera.

La nuova figlia di Harry, frutto dell’unione tra Cheryl e Alessa2, è una congiunzione, una “fusione completa” (come quella che avviene tra Motoko Kusanagi e il puppet master in Ghost in the Shell, se vogliamo), tra la sua indole fanciullesca e quella adolescenziale. Il risultato di questo processo non è del tutto l’una o l’altra metà, ma, appunto, qualcosa di completamente nuovo. E se questa “nuova Cheryl” prende la forma di una bambina appena nata, beh, con un piccolo sforzo di fantasia si potrebbe spiegare in una maniera molto semplice: per quanto noi cresciamo e cambiamo, i nostri genitori ci vedranno sempre come i loro pargoli.

Poi chissà, magari il Team Silent voleva proprio omaggiare le nuove fattezze di Kusanagi (seppur alla lontana) rappresentata nella trasposizione in film di animazione (Mamoru Oshii, 1995).

Col senno di poi, è quasi assicurato che il Team Silent abbia reso omaggio anche
a questo film di animazione, nella loro opera prima.

È chiaro come questa interpretazione ignori o reinterpreti volutamente molti elementi legati al sovrannaturale, come anticipato, ma l’obiettivo non è snaturare la vicenda, bensì provare a offrire una lettura ulteriore interpretando la storia basandosi sull’essenziale.

Liberarsi dello strato nero e appiccicoso dell’orrore dai capitoli successivi fino al terzo (un limite scelto arbitrariamente per motivi di continuità e logistici), produce effetti molto diversi tra loro. Questo strumento di interpretazione, forse, ha quindi un’altra peculiarità che vedremo proprio ora.

Togliere l’orrore, uno strumento critico

Silent Hill 2, il “gigante in casa” non solo della serie ma all’interno del videogioco survival horror, reagisce molto bene a questa operazione di “disorrorizzazione” (sarà l’ultima volta che leggerete questa parola, promesso) e per un motivo molto semplice. Banalmente, tutto ciò che è perturbante e disturbante è costruito creativamente – e fedelmente – sulle premesse narrative, insieme ai background dei compagni di sventura che ne compongono il cast. Levare l’orrore in Silent Hill 2 non è un’operazione distruttiva per la trama, in quanto questa carica serve quasi esclusivamente come sovrastruttura atta, come suggerito, a poter collocare quest’opera sotto il genere del videogioco survival horror.

Tuttavia, certi elementi perturbanti in Silent Hill 2 creano scene anche toccanti: come dimenticare il dialogo tra James e Angela, poco prima che quest’ultima salga su per una scala circondata dalle fiamme? “Lo vedi anche tu? Per me è sempre così”. Escludere l’orrore da Silent Hill 2, riflettendoci, è un po’ come adottare il punto di vista di un personaggio molto speciale: Laura. Questa bambina può infatti girare per la città indisturbata e interagire con tutti i personaggi vedendoli semplicemente per ciò che sono, così come è possibile per noi utenti parlare del dramma di James Sunderland senza citare una sola creatura. La parola “amore” potrebbe lasciare stupiti trattandosi di un videogioco survival horror, ma è tutt’altro che fuoriluogo: Silent Hill 2 è, a tutti gli effetti, anche una storia d’amore.

Questo approccio, a conti fatti, forse non offre interpretazioni ulteriori quando un’opera è stata realizzata in maniera così competente, così conscia del fatto che l’orrore certe volte non è altro, in fondo, che un buon trucco applicato su un attore talentuoso. Per tornare all’interrogativo provocatorio posto a inizio articolo, se Pyramid Head fosse stato semplicemente un doppio disinibito di James Sunderland in tutto e per tutto, il gioco avrebbe avuto forse qualche problema in più con la censura e ci saremmo persi nel frattempo un’entità irripetibile (e purtroppo poi riproposta fuori contesto per motivi squisitamente commerciali), ma non sarebbe stato violato il “patto tematico” con il fruitore.

Se non conoscete la storia di Silent Hill 2 non sta a noi raccontarvela: giocatelo e fatela vostra.

La città di Silent Hill non ha orrori in serbo per Laura, ma Laura non ha peli sulla lingua per James e Eddie. Questo è tutt’altro che casuale.

L’orrore nasconde le criticità, ma non i protagonisti

La “Cura Alfredo”, invece, mette in luce alcune debolezze del terzo capitolo della saga di Silent Hill. Lungi dall’essere un brutto gioco, opera però uno squilibrio pesante tra elementi soprannaturali e una controparte tangibile, per noi, su cui lavorare. Questo probabilmente è dovuto al fatto che l’intera vicenda poggia e si sviluppa su una base prevalentemente irrazionale, in quanto seguito diretto del primo capitolo. Proviamo a stilare un elenco di queste criticità per poi passare, invece, a un tentativo di interpretazione capace di elevare questo videogioco il quale, seppur forse non all’altezza dei suoi predecessori horror in toto, rimane comunque più che degno di essere affrontato.

Che poi Silent Hill 3, col tutto che gira su una PS2, è uno spettacolo.

Prima di partire con la lista, è curioso notare come l’esistenza della protagonista Heather tecnicamente non sarebbe plausibile3, in quanto creata da un miracolo perpetrato dalla “fusione completa” di Cheryl e Alessa. Ma non è questo il modo corretto di applicare questa chiave di lettura e quindi ciò rimarrà solo una postilla leggera leggera. Partiamo, invece, con le reali criticità:

  1. Molte creature che fungono da nemici non corrispondono a un’elaborazione meta-referenziale di traumi o complessi della protagonista o altri personaggi, creando quindi un vuoto strutturale una volta rimossi dall’equazione. Le elucubrazioni dei fan, per quanto interessanti, non possono concretamente fare testo e sopperire a queste mancanze.
  2. Un’attenzione ed espansione eccessiva di tutto ciò che riguarda il culto segreto presente nel primo capitolo, un elemento che non mai avuto veramente peso e che è destinato a non apportare nulla in questa sede.
  3. Infine, Silent Hill 3 comincia forse a mostrare tutti i limiti di un approccio estetico troppo diretto, volutamente morboso e votato all’eccesso per quanto concerne le creature che fungono da ostacoli e nemici (ma anche le ambientazioni raggiungono vette mai viste in SH3). Un limite, per metterla giù in maniera forse un po’ brusca, probabilmente legato al fatto che i tipi di genitali umani sono due e non dieci (i riferimenti visivi alla sessualità e alla gravidanza si sprecano in questo capitolo). Ciò è riscontrabile sia quando esista o meno un background (di nuovo questa parola) per le fattezze di questi esseri.

Masahiro Ito esprime in questi tweet una delle criticità. E chi meglio di lui?

Se è vero che escludere l’orrore da Silent Hill 3 non lascia granché su cui elaborare rispetto ai predecessori per i motivi sopracitati, sicuramente non esclude la centralità della sua protagonista. I colori scelti per i suoi vestiti hanno tanto da dire e, forse, tale discorso impatta anche sull’antagonista Claudia, se presa nella sua essenza.

In primis, di Heather si nota una giacca smanicata bianca su cui torneremo a breve. Subito sotto, invece, una magliettina a collo alto senza maniche e di colore arancione. Questo tonalità è tutt’altro che casuale e si ottiene attraverso l’unione di altri due colori (chiaro, no?), cioè il giallo (Cheryl) e il rosso (Alessa). Questo abbinamento è perfettamente coerente con le personalità del primo capitolo. Abbiamo, infatti, una Cheryl solare, allegra, spesso sorridente; al tempo stesso, un’Alessa legata a sentimenti impulsivi e a elementi quale il sangue e la ruggine.

A onor del vero, il rosso ha naturalmente anche connotazioni positive e, forse, anche queste traspaiono nel finale canonico del primo Silent Hill che dà luogo alle vicende del terzo capitolo: non è forse un atto di amore quello di dare al povero Harry Mason la possibilità di crescere una nuova figlia? Il colore arancione, inoltre, è presente in ben due braccialetti indossati da Heather, un modo forse per simboleggiare il fatto che la ragazza non reprime completamente se stessa, ma è semplicemente estremamente cauta per cause di forza maggiore.

Non abbiamo l’arroganza di pensare di essere stati i primi a proporre questa interpretazione basata sui colori, ma possiamo garantire sulla spontaneità dell’intuizione.

Questi due tratti si traducono in una Heather tecnicamente pronta ad amare, già molto affezionata a suo padre e capace di dimostrarsi sia premurosa che pronta a tirare fuori le unghie per difendersi da chi ha intenzioni poco chiare. Ciò si riassume nell’arancione, acceso e quindi vitale ma che, inoltre, può sottintendere una certa difficoltà nell’aprirsi agli altri. Non è un caso che questa tonalità sia nascosta, quasi del tutto, da una giacchetta di colore bianco che suggerisce sì purezza ma, al tempo stesso, forse negazione e un celarsi a scopo protettivo: le tasche piene danno quasi l’impressione di cuscinetti anti-urto. Anche questa è una scelta non casuale, come se Heather volesse nascondere con una maschera incolore la sua identità – per proteggersi anche dal culto che le dà la caccia, senza dubbio.

Claudia, antagonista del titolo, rappresenta (forse banalmente) la parte più istintiva e negativa di Heather e, non a caso, fin dall’inizio del titolo cerca di risvegliare in lei istinti violenti4 che, non a caso, porteranno al possessed ending nel caso il giocatore faccia strage delle creature nel corso della partita. La presenza di un boss ulteriore che è, in tutto e per tutto, una metà oscura della protagonista, potrebbe risultare quasi didascalico proprio alla luce di queste considerazioni.

Un ultimo dettaglio degno di menzione, sempre riguardo gli indumenti, potrebbe essere la gonna verde scuro di Heather, quasi a simboleggiare l’equilibrio (o un desiderio dello stesso).

Oltre la siepe della collina silenziosa

Dopo aver affrontato i primi tre esponenti della saga di Konami, proviamo ad adottare questo metodo anche per altri titoli ma senza perdere però d’occhio il director del primo capitolo: stiamo parlando di Keiichiro Toyama. Nonostante non fosse particolarmente devoto al genere horror all’inizio della sua carriera, dopo il primo Silent Hill andrà a realizzare un titolo forse ancora più spaventoso e opprimente, ovvero Forbidden Siren (2003).

A long time ago, when I was getting materials from the foreign press for [sic] Silent Hill, they would ask me things like, “You’re Japanese – why are you making a game that sounds like a Hollywood movie?” (laughs). But I guess they were [sic] right. Also, […] the movie version of The Ring and Kiyoshi Kurosawa’s “Cure” had achieved worldwide popularity… It was also around the time I read Fuyumi Ono’s horror novel “Shiki”, which left a strong impression on me. I guess you could summarise the phenomenon as a “J-horror” boom. That’s when I decided I wanted to try showing the world original Japanese horror.

Keiichiro Toyama, riportata su Siren Maniacs

Siren  (サイレン, titolo originale giapponese), per chi non lo sapesse, si svolge nel villaggio fittizio di Hanuda che viene improvvisamente colpito da una pioggia rossa insistente. Questa pioggia, oltre a circondare il villaggio di montagna con un lago cremisi, converte la quasi totalità della popolazione in shibito (屍人, letteralmente “persone morte”), contraddistinte da lacrime di sangue che però conservano, almeno in uno stadio iniziale, tutte le fattezze originarie delle vittime di questa trasformazione. Solo una manciata di abitanti conserva la sua umanità e sarà controllata, di volta in volta, dal giocatore per cercare di portarli tutti in salvo. Una peculiarità del titolo è il fatto che i sopravvissuti hanno un’abilità detta sightjacking che permette loro di vedere attraverso gli occhi degli shibito circostanti, vero motore delle meccaniche stealth dell’opera.

E se levassimo tutto l’orrore, quali letture si potrebbero avanzare? Senza dubbio più di una: per esempio, si potrebbe mettere sul tavolo il fatto che una manciata di individui, improvvisamente, si ritrova a essere la minoranza di una piccola società la quale, per sopravvivere, è costretta ad adottare letteralmente il punto di vista della nuova maggioranza per passare inosservati e confondersi con gli altri. A questo punto possiamo applicare a questa base diverse letture ulteriori, come il fantasma di regimi totalitari se non addirittura il timore xenofobo di ritrovarsi improvvisamente circondati da stranieri. E come non dimenticare il detto giapponese sul “battere i chiodi che sporgono”, che richiama il concetto per cui il gruppo viene prima dell’individuo?

La tecnologia usata per creare i volti dei personaggi è terribilmente efficace. Siamo sempre su PS2 e questa è una cattura a risoluzione originale.

A questo punto potrebbe essere interessante, e forse persino divertente, applicare questo processo un po’ a tutti i nostri titoli horror preferiti – siano essi un videogioco o meno – e scoprire se il perturbante serve a celare qualcosa di più oppure è un semplice divertissement5. Qualche rapido esempio in soldoni:

  • Danganronpa (Spike Chunsoft), tolti gli omicidi e con una spintarella in questa lista, non è forse la riproposizione volutamente marcata dell’individualismo che ci costringe, seppur indirettamente, a liberarci della concorrenza per realizzare i nostri desideri e ambizioni ogniqualvolta si passa per un processo di selezione?
  • The Missing: J. J. Macfield and the Island of Memories (White Owl Inc, 2018), tolte le automutilazioni volte alla risoluzione di enigmi e l’entità che ci perseguita, è nella sua essenza una storia molto toccante di cui non vogliamo privarvi del piacere di scoprire.
  •  In Ghostwire: Tokyo (Tango Softoworks, 2022) troviamo un nemico che che racchiude un po’ tutti i timori e ansie del periodo liceale. La cosa particolare e parecchio brillante è il modo in cui può annunciare la sua posizione nell’ambiente: la suoneria di un cellulare, simile a quella udita quando si riceve un messaggio. Informazione di gameplay e sottotesto in un unico pacchetto.

Ma stiamo cominciando a perdere il fuoco della questione ed è meglio fermarsi qua. Dopotutto, è impossibile fare esempi davvero validi e approfonditi senza affrontare in maniera dettagliata altri videogiochi e questo articolo è già abbastanza “longevo” così com’è. Come dite? Pensate che questo aggettivo sia fuori luogo? Non avete torto, ma non è neppure così azzeccato anche per i videogiochi che vantano una durata eccessiva se ci si riflette bene. Ma questa è un’altra storia.

Rimuovere l’orrore per vederci più chiaro, in fondo, non è poi affatto diverso dal rimuovere anche quegli elementi spiccatamente di fantasia o fantascientifici in modo da percepire gli eventi sotto una lente che ci restituisca uno scenario purificato e raffinato da quei dettagli costruiti intorno alla struttura portante di un’opera. Talvolta, come nel caso dei fratelli e autori di fantascienza russi Boris e Arkady Strugatksy6, il punto di affidarsi proprio a questo genere era quello di distrarre i censori.

Per fare un esempio classicissimo e forse scontato: che cos’è l’anello del potere di Tolkien se non altro che un oggetto che finisce per possedere le persone? E questo oggetto non ne abbiamo ora uno tutti in casa? Stiamo parlando, naturalmente, dei telefoni cellulari. Ma la lista sarebbe infinita, e non solo relativa all’unica casistica del videogioco horror.

LR


NOTE:

1 Pur essendo, senza per questo voler essere riduttivi, una rielaborazione di Carrie (1974, trasposizione cinematografica del 1976 di Brian de Palma) di Stephen King. E, forse, pure con una spruzzatina di Phantoms (1983, trasposizione cinematografica del 1998) di Dean Koontz, autore tra l’altro omaggiato in una delle vie della città.

2 Nel gioco, in realtà, l’entità creata tramite il rituale crea una nuova bambina prima di perire con le ultime forze, ma che probabilmente è una copia di se stessa. Ciò è confermato dal finale del terzo capitolo.

3 È corretto però precisare come la stessa esistenza di Cheryl sia, di fatto, frutto di un fenomeno paranormale. La giovane è infatti il risultato della scissione avvenuta in Alessa per preservare la sua parte più buona e, probabilmente, evitare che venisse contaminata dai preparativi del rituale operati dalla madre Dahlia. Tuttavia, siccome la sua esistenza è data per assodata per gran parte del gioco si è forse più portati a inquadrarla come tale anche a seguito della rivelazione.

4 Chi ha giocato al videogioco horror Silent Hill 3 ricorderà molto bene la scena non interattiva dove Heather spara diversi colpi di pistola a un Closer nel negozio di abbigliamento del centro commerciale. Questa scena in realtà è una farsa, in quanto il nemico non cade a causa dei proiettili ma in maniera arbitraria (e probabilmente per intervento diretto di Claudia) dopo diversi secondi dall’ultimo colpo esploso. Il suo scopo è raggiunto: risvegliare in Heather istinti violenti. Non è un caso che chi scrive ha rinunciato ad attaccare qualsiasi nemico per tutta la partita, quasi per ripicca (a eccezione dei boss, ovviamente). In un certo senso, Claudia interviene fin dalla prima schermata di avvertimento sui contenuti, presente all’avvio del gioco: l’immagine, infatti, mostra Heather che finisce un nemico atterrato con un tubo di acciaio. Come a dire che i contenuti violenti del videogioco horror non sono le creature, ma un giocatore che accetta di farne una strage.

5 E teniamo a precisare che non abbiamo assolutamente nulla in contrario. Dopotutto, i titoli brillanti e caciaroni come Lollipop Chainsaw sono più che i benvenuti!

6 Il loro romanzo più famoso è probabilmente “Picnic sul ciglio della strada” (Пикни́к на обо́чине, 1972), ma noi consigliamo vivamente anche “Lunedì inizia sabato” (Понедельник начинается в субботу, 1965).


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Immortality o sulla consumazione di se stessi

Immortality o sulla consumazione di se stessi

  • Vincenzo Vecchio

  • 7 ottobre 2022
  • noninteragire

[DISCLAIMER: L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SU IMMORTALITY]

Sunset Boulevard (Billy Wilder, 1950) si apre con l’inquadratura del cadavere galleggiante di uno sceneggiatore, nella piscina di una grande villa hollywoodiana. Questa rimane, con pochissime concorrenti, l’immagine probabilmente più attraente che si possa trovare di quel cinema, per simbolismo o per auto-compiacimento degli autori stessi. La morte dello sceneggiatore all’inizio di un film, del resto, non è altro che l’invasione di un sottile meccanismo della psiche umana nell’intimo del processo creativo. Anzi, un vero e proprio impulso distruttivo, capace peraltro di raggiungere apici decisamente più alti del corrispettivo creativo. Si potrebbe definire senz’altro un lapsus nel normale racconto del cinema classico americano, che ha pure il merito di mostrare la natura quantomeno doppia, perversa e distruttiva della più alta forma di aspirazione umana.

Gloria Swanson interpreta l’eterna diva del cinema muto, che, non a caso, coincide anche con la reale carriera dell’attrice. Si tratta dell’epoca d’oro della fabbrica dei sogni, in cui, per intenderci, il cinema aveva massimo fulgore nonché influenza nell’opinione pubblica. La stella del cinema era un modello positivo e irraggiungibile, archetipo artificiale per eccellenza, che mostrava il proprio splendore solo attraverso il filtro del medium cinematografico. Era dunque l’immagine stessa del sogno americano fabbricato ante litteram in studio.

Giochiamo con Billy Wilder & co.

Ed è proprio a questo punto che interviene il lapsus: lo sceneggiatore annegato – morto effettivamente già dalla prima scena del film, ma si tratta in realtà di un flash forwardsimboleggia la fine dell’impulso creativo, che viene sostituito da quello distruttivo. Gloria Swanson diventa solo una faccia, un oggetto scenico che assume valore unicamente nelle opere immortali fissate su pellicola. Tutto il resto non è altro che contorno che nasconde l’incanto. La diva, a fine carriera, diviene pazza di dolore per la perdita di quell’istante unico e ripetibile solo al cinema e, nell’attesa, si consuma. Sarebbe a dire che l’artista, in generale e in quanto tale, non fa altro che soffrire della propria assenza. E dunque, si immola sul rogo costruito sul sacro altare dell’arte. 

Ora, si potrebbe giustamente obiettare che difficilmente Gloria Swanson, Cecil B. deMille e compagnia, si possano smaltare di modernismo. Bene, è sicuramente vero. Ma, forse, basterebbe solo invertire il processo di montaggio del cinema, come intende fare Sam Barlow, guardare nel senso inverso le pellicole e scoprire il lato invisibile dello stato delle cose

Ora, considerate Gloria Swanson che continua a crogiolarsi nel suo unico passato glorioso, portata a spasso dall’autista, a bordo della sua Isotta Fraschini 8a, per l’eternità; confrontatela con Marissa Marcel che, dal canto suo, scompare dalle scene per rimanere impressa, unicamente e per sempre, in pochi metri di pellicola mal tagliata. Insomma, disegnate mentalmente il tracciato comune dell’immortalità. Immaginatelo, perché il punto di arrivo di tutto infatti, non è altro che questo, fermare il tempo, lasciare una traccia di sé nel mondo. Almeno dal punto di vista di quelli che ancora oggi, come noi, esercitano una forma primitiva di reiezione nei confronti della morte.

Ora giochiamo con Sam Barlow & co.

Il punto di questa lunga premessa, è che sembra impossibile a chi scrive anche solo iniziare a parlare di Immortality (Sam Barlow, Half Mermaid Productions, 2022) senza citare un immortale classico del cinema come Sunset Boulevard; e peraltro, tenendolo a mente come vero e proprio riferimento generale, in grado di aiutarci a inquadrare la nostra comprensione. Non tanto da un punto di vista stilistico, quanto piuttosto su un piano interpretativo della natura intima dell’arte in quanto fenomeno umano.

Sam Barlow, l’autore di Immortality, naturalmente non è nuovo a questo genere di utilizzo laterale del linguaggio cinematografico. L’autore sa come smontare un linguaggio e come proporre al videogiocatore il capirlo e ricomporlo. Perché in effetti – forse portando a termine un piccolo tradimento nei confronti del medium di appartenenza – di grammatica cinematografica si tratta, ma utilizzata alla stregua di un rompicapo all’interno di un contenitore certamente videoludico.

Immortality, come videogioco, potrebbe sembrare un semplice tetris di scene da trovare e, al limite, mettere in ordine. Ma Immortality in quanto cinema, è l’esplosione del linguaggio stesso. Sam Barlow ci serve su un piatto d’argento il cinema nudo e crudo, già disossato, senza alcuna decorazione e sovrastruttura. Un medium dentro l’altro. Scarno, metodico e marginale il primo. Malinconico, mistico e incomprensibile il secondo.

Allo stesso tempo, però, Immortality diventa sorprendentemente ludico, in tutti i sensi. Non tanto sul piano che si definirebbe generalmente gameplay, quanto a un livello forse più alto. Perché gioca – certo, attraverso strumenti basilari, quelli del montaggio – con l’aspettativa doppia del videogiocatore e dello spettatore. Creando così una consapevole sensazione di controllo sul mondo di gioco.

Ad ogni modo, Immortality non può essere in nessun caso considerato cinema – anche se agisce come il cinema, mima il cinema, si fa crisalide e contenitore di immagini in movimento – perché si comporta in tal modo al solo scopo di far videogiocare lo spettatore. E questa potrebbe pure sembrare una sottile contraddizione, ma prendetela invece come un’intenzionale provocazione.

A proposito di provocazioni.

Di cosa parliamo quando parliamo di Immortality

Immortality, dunque. L’ultimo videogioco di Sam Barlow (Her Story, 2019, Telling Lies, 2015 e prima come lead designer di Climax Studios, Silent Hill: Origins, 2007 e Silent Hill: Shattered Memories, 2009) è in definitiva un puzzle game di natura, forse al limite, un poco controversa. 

Di fatti, non fa altro che mettere a disposizione del videogiocatore alcuni frammenti di pellicola (il cosiddetto found footage) appartenenti a tre diversi film mai rilasciati al cinema, che hanno, come unica correlazione tra di essi, l’interpretazione di un ruolo da parte dell’attrice prematuramente scomparsa Marissa Marcel. I tre film – Ambrosio (1968) come medium del peccato, Minsky (1970) come medium della violenza, Two of Everything (1999) come medium dell’alter ego – sono un simulacro di mezze verità in cui il videogiocatore acquisisce la capacità di elaborare le varie scene, gestendole come se si trovasse in sala di montaggio. Avanti, indietro, fermo-immagine e un singolo input di ricerca di punti d’interesse e conferma, sono la componente unica del gameplay. Ma questi pochi comandi, che potrebbero sembrare scarni e quantomeno banali ad un’analisi pregiudiziale, si rivelano essere talmente potenti, nel contesto della grammatica utilizzata dall’autore, da rendere il videogiocatore onnipotente di fronte alla scoperta della verità degli eventi di gioco. Si tratta solo di impegnare il tempo adeguato e ogni segreto di Immortality verrà svelato, proprio ogni singolo nodo verrà al pettine, senza l’utilizzo di nessun tipo di abilità particolare. 

Questo tipo di interazione, rompendo completamente il rapporto classico tra spettatore e film nel medium cinematografico, permette al videogiocatore di impersonare allo stesso tempo una funzione sia passiva che attiva. Permette di entrare e uscire dalla quarta parete continuamente, senza la minima remora riguardo quel tacito accordo tra opera e spettatore chiamato normalmente sospensione dell’incredulità. Quest’ultima diventa, letteralmente, un concetto che non ci riguarda più. Entrare e uscire dal quadro si diceva, proprio a creare uno spazio terzo che si situa esattamente tra il salotto di casa di David Lynch e una strana idea precostituita di quello che il cinema o il videogioco possono non essere.

Prendiamoci pure in giro.

Sam Barlow sgancia completamente il videogiocatore da qualsiasi velleità illusoria connessa alla magia del cinema, restituendola quantomeno trascurabile, perché ne smonta il linguaggio, rendendolo quindi visibile al videogiocatore. Allo stesso tempo, mette in opera il procedimento esattamente contrario riguardo il linguaggio videoludico, nascondendolo dietro l’utilizzo di un sistema d’interazione striminzito e alienante per sua stessa natura. Desertificandolo di opzioni e profondità.

Arrivare a conoscere fino in fondo i misteri di Marissa Marcel, il suo contesto lavorativo e i tre film da lei interpretati, si traduce infatti nel continuo zoomare e scrutare, fotogramma per fotogramma, alla ricerca di punti di interesse da cliccare, auspicando che possano portarci al frammento di pellicola successivo e non uno già visto. Per poi illudersi ancora, nella speranza di completare una sorta di cronologia filmica, che in ogni caso diventa impossibile vista  la narrativa dei tre film, completamente rotta e rimarginata nei buchi di trama con spezzoni di contorno: interviste, scene sul set, riprese delle prove degli attori e altro ancora.

Questo tipo di procedimento fisso, può risultare alienante, almeno alla lunga, se accostato alla natura intrinseca del gesto, cioè l’atto di guardare e riguardare continuamente le scene in questione. A questo si può aggiungere una sorta di inquietudine, che nasce invece dalla meccanica che serve a scoprire i frammenti di film nascosti all’interno delle pellicole. Infatti, durante la normale visione delle scene, può capitare di sentire un suono basso e sordo che stride particolarmente con il resto del flusso audiovisivo. È in quel momento che si possono trovare, riavvolgendo all’indietro la pellicola con attenzione, alcune scene nascoste altrimenti invisibili. Si tratta generalmente delle scene in cui fa la sua apparizione la componente soprannaturale del racconto di Immortality, nella forma di due esseri non-umani che coesistono ai protagonisti immaginati da Sam Barlow.

Montage brutal e soprannaturale

Una cosa è chiara da subito – a dire il vero proprio già dai primissimi istanti – videogiocando Immortality: si percepisce un mistero latente che sovrasta ogni livello cognitivo. È presente naturalmente nello svolgersi degli eventi, nello svolgersi del gameplay, nelle immagini, nei suoni e nell’interpretazione stessa del mondo di gioco. Si crea addirittura nella percezione propria al videogiocatore, che viene continuamente stimolata da input discordanti e contraddicenti.

Basterebbe citare anche solo il menù iniziale dell’ultima opera di Sam Barlow, per essere folgorati immediatamente dalla potenza dell’immagine. Anche senza tener conto dell’impatto fortissimo di matrice lynchiana che emana, è impossibile non cogliere la connotazione soprannaturale già da questa prima schermata, in cui Marissa Marcel – magnificamente interpretata dall’attrice franco-americana Manon Gage – entra in scena sorridente, protendendosi verso uno sgabello tipico da audizione.

Lynch hai fatto tu questa roba?

Come si accennava, il menù iniziale di Immortality ha già in sé diverse componenti che sono l’essenza dell’opera: per prima cosa, scorrendo tra le varie opzioni del menù, il movimento di Marissa Marcel risulta alterato nel tempo. Infatti, i fotogrammi non scorrono in senso cronologico ma appaiono disturbati, come se ogni tanto qualche frammento saltasse via. Il tutto risulta macchinoso e artificiale proprio per la mancanza di fluidità del gesto, che dovrebbe apparire invece così naturale, e al limite banale, nella realtà. In secondo luogo, lo sgabello da audizione mette subito in chiaro che Marissa Marcel è un’attrice. A un livello primordiale ci sta confidando che mente. Per ultimo, lo sgabello rimane sempre vuoto, un chiaro rimando simbolico alla scomparsa dell’attrice, nonché di generica assenza. Proprio quella di cui si parlava in premessa all’articolo, riguardo la sofferenza dell’artista che deriverebbe dalla propria mancanza.

Un aspetto particolarmente interessante, di cui vale la pena accennare, è la sinonimia che si attiva inaspettatamente nel rapporto tra montaggio e soprannaturale. Definiamola temporaneamente come una sinergia inconsapevole, ma solo perché non sappiamo quanto possa essere un aspetto voluto nella concettualizzazione dell’opera da parte degli autori. 

Montage brutal è un’associazione di immagini inattese, raccordi sorprendenti e bizzarrie di sorta che restituiscono una sensazione generalmente grottesca nello spettatore. Si nota ben presto, anche grazie all’atmosfera generale che pervade Immortality, che l’operazione compiuta dal videogiocatore nell’opera di Sam Barlow, cioè il gameplay, non fa altro che creare aberrazioni del genere attraverso l’associazione spesso casuale di vari spezzoni di girato. Questo fenomeno accentua, mediamente, la sensazione di stare manipolando materiale in cui sono spesso riprese situazioni abbastanza comuni, ma con la sgradevole sensazione che quello che si vede non sia mai tutto ciò che davvero è presente nella scena.

Si ha, attraverso questo sbandamento percettivo, l’impressione che l’invisibile sia sempre presente e, anzi, coesistente al mondo raccontato da Sam Barlow. Come in quegli horror psicologici, dove buona parte del terrore proviene direttamente dalla propria mente che immagina o addirittura simula qualcosa che non è per niente, o quasi, mostrato nell’opera stessa. Del resto, l’immagine in quanto tale, crea dei quadri cognitivi che orientano in continuazione la nostra interpretazione del reale e del fittivo.

È sexy, è moderno…

Aggiungiamo – come a ingrassare questo tipo di atmosfera creata dal montage brutal e, nel caso di Immortality, gestito dallo stesso videogiocatore – anche i continui rimandi a una sfera religiosa quasi parossistica, con apparizioni di demoni e madonne dal gusto decisamente retrò. Un pervadente senso di colpa di stampo cattolico, che unisce in un unico fil rouge tutti e tre i film e che va degradando di gravità, dal peccato mortale di Ambrosio (1968, mai distribuito) – in cui il frate protagonista scopre i piaceri della carne grazie all’aiuto di una certa donna, interpretata da Marissa Marcel – al semplice utilizzo del sesso come oggetto di scambio.

In generale si potrebbe fare un discorso a parte solo per quanto riguarda il tema religioso e spirituale di Immortality. Sam Barlow, non a caso, inventa un film come Ambrosio, fondato sulla scelta esistenziale tra la vita terrena e la vita del dopo vita. La prima sottoposta alle leggi della natura, mentre la seconda a quelle divine. Non fosse altro, perché si tratta di una scelta morale tenace nell’accompagnare il percorso e la storia dell’uomo civilizzato. La domanda è: a quale tipo di immortalità si vuole accedere, quella di Dio e dunque dell’oltretomba oppure quella meno eterea e piuttosto storica del ricordo terreno e del corpo? 

Ambrosio affronta il tema frontalmente, riuscendo nel compito di descrivere la faticosa intermediazione tra Cielo e Terra. Trascendente e immanente, dunque. Un problema classico che tutte le religioni si sono poste prima o poi. 

Come rielaborare il Faust.

I simbolismi messi in scena da Sam Barlow (assieme ai co-autori Barry Gifford, Amelia Gray, Allan Scott) in Immortality sono davvero innumerevoli, ma si potrebbero racchiudere in dei gruppi di appartenenza ben precisi: il doppio e la doppiezza. La rinascita, la ripetizione e la conservazione di se stessi. Il reale, il visibile e l’invisibile agli occhi. La deliberata confusione tra l’accezione fisica e spirituale di immortalità. Tutto è impregnato di una sorta di disillusione che sembra provenire dalla possessione diretta della verità. Ogni personaggio, infatti, presto o tardi interagirà in modo quasi sconveniente, si direbbe quasi fuori copione, mettendo così in discussione davvero ogni cosa. 

Ancora, sul simbolismo: l’utilizzo dell’innocenza di una Marissa Marcel ancora giovanissima, come chiave per spingerla a scatenare un’adeguata carica erotica sul set, rappresenta in pieno la concezione contemporanea del gesto artistico, secondo cui è proprio l’innocenza a essere nemica dell’arte.

i simbolismi diventano difficili da contare già dopo qualche ora

Le Muse

In questo ultimo specifico contesto, quello della carica erotica, si nota in Immortality una fortissima allusione che riguarda appunto lo sfruttamento dell’innocenza e come questa sia assolutamente sostanziale alla necessità di fare arte. Marissa Marcel viene presentata, nel primo provino per il film Ambrosio del 1968, come una ragazzina indifesa e impreparata a quello che l’aspetta. Come una qualsiasi Shelley Duvall sul set di Shining (Stanley Kubrick, 1980), Marissa Marcel riceve continuamente incitazioni, da parte del regista, che la stuzzicano sul piano personale, per ottenerne un effetto sul set.

Sarebbe forse il caso di citare anche Maria Schneider, nel film Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972) in cui una situazione simile si produce sul set nella “famosa scena del burro”. Si è molto dibattuto in passato su questo tema, particolarmente nei casi di Shining e Ultimo tango a Parigi, come si accennava poco prima. Si è discusso se insomma, per descriverla in brutale sintesi, sia o meno giusto arrivare a fare del male alle persone per fare arte. L’ambiente del cinema, come descritto in Immortality, è una sofisticata metafora su più livelli di quello che rappresenta il concetto di innocenza per l’arte: in definitiva, nient’altro che un campo da invadere, conquistare e saccheggiare. Dunque, se crediamo a Immortality, potremmo pure azzardare en passant di posizionare Sam Barlow dalla parte di Kubrick e Bertolucci. 

The one è sinonimo di irrequietezza…

Marissa Marcel, scivola dunque da un ruolo casto – fuori dal set – a uno di ammaliatrice faustiana in poche scene, segnando peraltro un percorso preciso, costellato di cattolico peccato. Non c’è bisogno di dire quanto questo passaggio sia decisivo nel rendere il personaggio (o meglio dire il meta-personaggio, dato che anche Marissa Marcel è un ruolo inventato), il doppelgänger accogliente di un essere soprannaturale, avido e parassitario come the one.

Dunque, l’essere in questione diventa il mezzo con cui l’artista (Marissa Marcel) trasfigura nella sua stessa arte (the one) e trascende dunque nell’immortalità; che di nuovo, è anche l’obiettivo ultimo del mistero cattolico

…e tutto ciò che è metafisico è un’illusione.

Tornando al soprannaturale, la seconda musa di Immortality è per l’appunto the one. Un essere etereo e immortale che si infila nei corpi e nelle vite di persone che ritiene in qualche modo interessanti. Oltre ad essere una fenomenale performance d’attrice, a opera di una incredibile Charlotta Mohlin, rappresenta simbolicamente l’intero spettro del sentimento umano.

In particolar modo, Sam Barlow utilizza the one proprio come personificazione della foga dell’arte, la stessa di cui si discuteva in premessa a questo articolo. Charlotta Mohlin interpreta quindi lo spirito dell’artista totale in potenza, ma dalla prospettiva quasi unica del sentimento. Dalla gioia della contemplazione alla violenza della creazione, interpreta in tutto e per tutto la sofferenza e l’impeto della creazione artistica.

L’essere the one, infine – una cosa simile doveva abitare pure Gloria Swanson e chissà quanti altri in passato – è anche una chiara e definitiva rappresentazione dell’alter-ego. 

Come rimettere il latte versato (su cui si è pianto) nel suo contenitore

È notorio che l’entropia dell’universo e le leggi della termodinamica ci impediscano di tornare indietro nel tempo. Naturale. Nonostante la maggior parte di noi vorrebbe poterlo fare, non si può. È una legge di natura. Partendo da questo presupposto è facilmente intuibile dove, ciò che è invisibile agli occhi, potrebbe nascondersi. Ora torniamo un attimo con la mente a Gloria Swanson e al suo Viale del Tramonto: perché si potrebbe trovare ancora un senso alla famosa risposta nella quale dice che lei, riferendosi a se stessa, è rimasta grande, è il cinema ad essere diventato piccolo. 

Ogni tanto chieditelo.

In Immortality, il cinema diventa in effetti un luogo minuscolo e contenuto, dove tutto volendo è alla portata del videogiocatore. Tutto è scopribile, perché tutto può essere non solo, visto e rivisto, ma soprattutto perché lo scorrere naturale del tempo è alla mercé dei voleri del videogiocatore. Riavvolgere il tempo, tornare indietro è l’unico modo per vedere il soprannaturale, un’intuizione a nostro avviso particolarmente brillante da parte degli autori. Anche perché tornare indietro nel tempo, in questo caso non vuol dire rifare, ma limitarsi a rivedere. Serve quindi solo alla comprensione, a capire il mondo.

Immortality è una creatura che ti fissa, ti ipnotizza, mentre la mente non fa altro che suggerirti queste parole in sequenza: sangue, arte, invisibile, misticismo, astrazione religiosa, ricordo, immortalità.

“Non è più possibile l’ingannarci o il dissimulare. La filosofia che ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile. O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto.”

Operette morali, Frammento sul suicidio, di Giacomo Leopardi, a cura di Walter Binni e Enrico Ghidetti
Tutte le opere, vol. I, Firenze: Sansoni Editore, 1969

La giusta fine.

Per finire, Immortality, racconta della consumazione di se stessi. Ci descrive, noi umani affetti da umane passioni, come candele che bruciano nel tempo. È anche per questo motivo che the one confessa, in un’intervista, come quello di bruciare sia il modo migliore di morire, perché si ha la minore probabilità di ricomporsi. Bruciamo con l’unico combustibile dell’arte e con l’unico obiettivo del ricordo proprio perché la natura ci impedisce il contrario. Lasciare traccia di sé dopo la propria scomparsa, diventa infatti l’unico mezzo privo di rimpianto. 

VV


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ECHO: la perfezione è aliena

ECHO: la perfezione è aliena

  • Edoardo Fumo

  • 16 settembre 2022
  • noninteragire

Echo, forse per eccessiva onestà intellettuale, per meticolosità o per scherzo, esprime tutto sé stesso già nel titolo. L’eco è doppiezza e inganno: dove lo specchio riflette una nostra versione ribaltata, il suono può ammaliarci, illudendoci di sentire quello che vogliamo ma non restituendoci mai una copia perfetta. L’eco è riverbero, è increspatura, è conseguenza. Questo concetto copre tutto quello che il gioco ha da offrire, dalle meccaniche ludiche al design visivo, fino al messaggio.

La prima opera di Ultra Ultra, studio di Copenaghen composto da otto membri più due freelancer, si presenta subito pensata meticolosamente. Un qualcosa dove, per caso o per volontà, tutto si incastra al meglio delle possibilità del piccolo team che l’ha creata.

Le premesse narrative sono semplici, quasi banali, e la scommessa è evidente: prendere come spunto la branca di fantascienza esistenziale e filosofica europea trasformandola in qualcosa di ancora più conciso, coinvolgendo il giocatore in una rappresentazione solo apparentemente manichea, dove bianco e nero si alternano e si mescolano ripetutamente.

La fuga è la menzogna

[DISCLAIMER: l’articolo presenta degli spoiler, tutti espressi nella prima ora di gioco. Nell’ultimo paragrafo si fa esplicito riferimento al finale]

Interpretiamo En1, una ragazza in fuga, una creatura modificata geneticamente e mentalmente da un culto presieduto da una figura che lei chiama “Nonno”. Il Nonno altri non è che un patriarca privo di  scrupoli che crea e sceglie le varianti o, come le chiama lui, le “Risorse” più meritevoli di raggiungere il Palazzo, un luogo mitico capace di garantire la vita eterna.

En, dimostrando un libero arbitrio che non dovrebbe avere, si ribella e scappa dall’Eden artificiale creato dal Nonno scegliendo una vita di espedienti e raggiri resi facili dal suo essere ingegnerizzata, dal suo essere un individuo superiore.

Tutto cambia quando Foster2, un mercenario esperto in recuperi di ogni tipo, viene assunto per riprenderla e decide invece di sacrificarsi e permetterle ancora una volta di scappare. Questo gesto la spinge ad affrontare le proprie responsabilità spingendola verso un viaggio di cento anni nel fantomatico Palazzo, con la speranza di poter riportare in vita l’unica persona che le abbia dimostrato compassione. Qui la prima bugia, o forse sarebbe più appropriato definirla distorsione. En è pienamente consapevole che così facendo non stia facendo altro che assolvere il compito per cui è stata concepita, e che le sue capacità manipolatorie abbiano convinto Foster a salvarla; eppure, ridare la vita a un individuo che non sia il patriarca, è il massimo gesto di ribellione che può permettersi.

“En”, Enki Bilal, 2017.

Fearful simmetry

Il Palazzo si scoprirà essere un intero pianeta, completamente modellato su una struttura perfetta come un cristallo. Le contraddizioni però continuano a succedersi. Il pianeta non è infatti che un guscio vuoto secondo London, l’intelligenza artificiale della nave di Foster che per tutto il gioco farà da contraltare emozionale, pur nella sua estrema logicità, al pragmatismo inumano di En.

Le costruzioni di cui è composto stanno lentamente cadendo in pezzi, quasi a voler mostrare che un Paradiso è inutile senza nessuno che lo abiti o che tutto, compresa la speranza, è soggetto a senescenza

“Echo”, Nihei Tsutomu, 2017.

En si fa strada tra gli strati superiori degli edifici in un mondo che strizza l’occhio alle superstrutture di Nihei Tsutomu e del suo “Blame!”, fino a quando non riesce a entrare in uno di essi trovandosi in una perversa rivisitazione del neoclassicismo. Il contesto è simile a un libero di “Metal Hurlant”3, una breve storia a fumetti che in poche pagine creava universi credibili a completa disposizione dell’osservatore.
Lo stesso design dei personaggi e degli elementi sci-fi ricordano tanto Enki Bilal quanto Gimenez e i suoi Metabaroni. Le stanze sono perfettamente e spaventosamente simmetriche, infinite. Echo riesce a rendere alieni elementi a noi comuni, come vasi o tavoli, inserendoli in un contesto incomprensibile.

Presto si intuisce che il Palazzo cerca di creare un ambiente tanto accogliente quanto repulsivo nei confronti del suo ospite. L’intelligenza che ne decide le azioni, di cui poco sapremo pur riuscendo a raccogliere vari collezionabili (ovviamente audio, ché l’occhio è ingannatore), e che ne illustreranno la storia, è simile a quella di una pianta carnivora o di qualsiasi altro organismo che imiti un ambiente familiare per ingannare la sua vittima.

“Guarda, ho creato dei fiori per te. Non ti piacciono?”

Poco dopo averne varcato le soglie il Palazzo metterà in campo la sua difesa finale, l’idea trasfigurante tanto a livello di gameplay quanto narrativo. Dopo aver appreso abbastanza informazioni su En inizierà a creare dei suoi cloni, gli Echo del titolo, che agiranno in base alle azioni che noi stessi compieremo.

Ogni gesto, che sia aprire una porta, usare un ascensore, nascondersi fino alle più offensive come stordire o sparare saranno da essi memorizzate. Come, del resto, risulteranno liberi di usare le nostre stesse mosse per difendersi e attaccare, trasformando quello che all’apparenza sembra un banale stealth in un puzzle ambientale. Un gioco di scacchi dove i neri muovono contemporaneamente contro altri neri e dove l’avversario non siamo altri che noi stessi.

fra le mute tombe del monumentale,
non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità.

Baustelle, Monumentale dall’album Fantasma, 2013

Questo meccanismo di apprendimento è regolato da quello che, narrativamente, viene giustificato come un malfunzionamento del sistema di difesa. Imparate un certo numero di mosse, il Palazzo resetterà il ciclo “spegnendosi”: ci renderà, cioè, liberi di comportarci come vogliamo nelle fasi di buio, presentandoci il conto con la successiva fase di luce, dove gli Echo ricorderanno tutto quello che avremo fatto. Questo concetto, all’apparenza semplice, genera tutto l’insieme di considerazioni, afferenti sia al ludico che ad ampio spettro.

“Posso lasciarti un opuscolo che parla di Dio?”

Sarebbe semplice, in un’orgia iconologica alla Panofsky, inserire nell’opera tutti i riferimenti psicologici e religiosi che una natura dualistica di questo tipo giustificherebbe: l’archetipo dell’ombra di Jung, cioè la somma delle caratteristiche personali che l’individuo vuole nascondere agli altri e a sé stesso perché lo porterebbe a commettere azioni malvagie4. Il Samsara induista, l’eterna ruota di morte e rinascita causata dal dolore subito e ricevuto, nell’illusione del Maya; altro non sarebbe che il Palazzo stesso. Per non parlare del karma, volendo restare a oriente, o di penitenza, espiazione per tornare a riferimenti culturali a noi più vicini.

Il Palazzo è Dio, come si ostina a credere il Nonno, perché genera e ridà la vita. Il Palazzo è il destino, come desidera con tutta sé stessa En, perché è la sua ultima speranza di salvezza e riscatto e l’ultimo posto in cui può mostrarsi come gli altri vorrebbero che fosse. Il Palazzo è l’alieno, è l’incomprensibile, è un’intelligenza che sempre è stata e sempre sarà.

Lo stile neoclassico che lo caratterizza non è un caso. Echo racconta il suo falso dualismo attraverso tutta l’architettura Illuminista: quindi troviamo le “Carceri di Invenzione” di Piranesi, che simboleggiano l’essere eterni prigionieri; in più, quell’aggiunta di Panopticon perfezionato dall’essere noi stessi i nostri carcerieri, fino ad arrivare a Boulée e al suo culto divino.

“Carceri VII”, Giovanni Batista Piranesi (o Nihei Tsutomu), 1760.

Come scrivono Rabreau e Morin,

I suoi progetti per edifici religiosi, metropoli, templi, chiese riflettono le nuove forme di religiosità che si manifestarono con lo spirito dell’Illuminismo, il culto della Natura o dell’Essere Supremo, il culto della Ragione Scientifica e dei Grandi Uomini, la religione civile, il misticismo massonico, eccetera. Tutte queste tendenze si compenetrano in una pseudo-religione inventata dall’architetto. L’architettura sacra di Boullée illustra il suo desiderio di applicare la sua concezione del progresso sociale alla religione.

Cos’è se non la sintesi di ciò che sia En che il Nonno credono, rivelandosi così l’una fin troppo simile all’altro?

“Projet de cathédrale métropolitaine en forme de croix grecque avec un centre bombé”, Étienne-Louis Boullée, 1782.

Echo è però grande fantascienza, e per quanto ci permetta di vagare con la mente in cerca di teorie, in parte auto assolutorie, ci mette di fronte al semplice fatto compiuto: non siamo che il risultato delle azioni compiute da noi stessi e dell’ambiente in cui siamo vissuti. L’eco non è uno specchio, non stiamo osservando una versione rovesciata di noi stessi da cui possiamo distogliere lo sguardo quando la vista ci diventa insostenibile.

L’eco è quel riverbero che continueremo costantemente a sentire e che ci ricorderà ciò che abbiamo fatto nelle e delle nostre vite, così come En si dimostra schiava di quella che dovrebbe essere la sua maggiore libertà e cioè la possibilità di scelta. 

Così parlò Zarathustra

Per quanto l’opera parta da presupposti piuttosto meccanicisti e nichilisti, alla fine lascia un messaggio di speranza. Pure se intrappolati in una ricerca che non avrà mai fine né risposte, possiamo scegliere in ogni momento di compiere qualcosa che ci rappresenti davvero. Qualcuno la interpreterà come trascendenza, qualcun altro come spinta biologica che ci porta a voler continuare a esistere nel ricordo di altri, come meme kojimiani.

“Cattedrale Spaziale”, Ultra Ultra, 2017.

La decisione presa da En alla fine del gioco, il suo sacrificarsi per ridare la vita a Foster, può essere sì vista come la massima espressione di sé stessi ma è anche voglia di spezzare il cerchio, con un ultimo rimando citazionista a “2001: Odissea nello spazio” (Kubrick, 1968). En decide di non trasformarsi in un essere divino, e nessuno suonerà “Also sprach Zarathustra Op. 30” per lei.

Resta però il sottile dubbio che gli autori, fedeli al loro assunto iniziale, lo considerino comunque un gesto controverso e in parte egoista.
Resuscitare un povero Cristo, letteralmente, a duecento anni di distanza dalla sua vita precedente per un proprio desiderio di espiazione: bene ma non benissimo.

Echo non è perfetto nell’esecuzione ma lo è nel suo essere compiuto; in effetti, il suo difetto più grande è che sia l’unico gioco di Ultra Ultra, che ha chiuso nel 2019. Uno studio che con pochissime risorse, un unico modello poligonale e un talento purissimo nel rappresentare un inconcepibile infinito attraverso il copy and paste di una generica libreria di elementi grafici, ha cercato, ed è in parte riuscito, a porre profonde domande esistenziali.

EF


NOTE:

1 “En” in svedese significa uno. Ogni elemento in Echo ha un suo peso sia narrativo che esperienziale.

2 Letteralmente “l’adottante”.

3 Metal Hurlant fu una rivista francese dedicata alla fantascienza al fantasy nata nel 1975 per volontà di Jean Giraud e Philippe Druillet. Ebbe anche una versione americana conosciuta come Heavy Metal e fu pubblicata per un breve periodo anche in Italia.

4 “Il libro rosso. Liber Novus” di Carl Gustave Jung, traduzione di Anna Maria Massimiello, Bollati Boringhieri 2012.


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Il (vero) cyberpunk è invisibile agli occhi: Else Heart.Break()

Il (vero) cyberpunk è invisibile agli occhi: Else Heart.Break()

  • Luca Rungi

  • 12 settembre 2022
  • noninteragire

Else Heart.Break(), fin dal titolo, non fa neanche finta di nascondersi dietro a un dito: per decifrarlo correttamente, infatti, sono già necessari un minimo di rudimenti di programmazione1. Il progetto nasce da un’idea del programmatore e sviluppatore Erik Svedäng e viene plasmato nell’arco di cinque anni (2010-2015) grazie al programma Nordic Games e agli sforzi congiunti di un team ridotto (tra cui spicca il nome di Niklas Åkerblad2). Tuttavia, questa piccola perla poco conosciuta di ormai sette anni fa (e disponibile per PC, Mac e Linux) è ben lontana dal voler essere una mera esperienza didattica.

Il piccolo team svedese, infatti, vuole innanzitutto raccontare una storia e, nel mentre, spronarci a interagire con gli oggetti più scontati (come una tazza di caffè o una porta) in modi che mai avremmo immaginato. Se questo ha stuzzicato la vostra fantasia, vi auguriamo una buona lettura!
C’è tanto da dire, ma niente paura: nulla di ciò che seguirà vi priverà della possibilità godere di Else Heart.Break() in futuro.

E il cyberpunk m’è dolce in questa Dorisburg

Sebastian è un giovane ragazzo che, improvvisamente, riceve un’offerta di lavoro per telefono, un’opportunità che lo porterà sulla piccola isola fittizia di Dorisburg. Giunto al porto si reca subito all’hotel; non farà in tempo a provare a entrare nella sua stanza che si verificheranno le prime stranezze le quali, oltre a lasciare sbigottiti, saranno ottimi indizi taciti e gratuiti per una parte del potenziale che potremo scatenare in futuro.

Else Heart.Break() ha un’alternanza giorno/notte, uno scorrere del tempo graduale e una routine giornaliera per ciascun personaggio dell’isola. Ah e Sebastian ha il brutto vizio di addormentarsi per strada se portato allo stremo!

Una grande nota di merito di Else Heart.Break() sta nel fatto di non dare mai al giocatore indicazioni a schermo sui suoi obiettivi correnti. Queste informazioni ci saranno comunicate dai personaggi durante le conversazioni, ma starà a noi orientarci con una piccola mappa turistica e grazie ai riferimenti offerti dai nostri interlocutori. L’assenza di una guida diretta, tuttavia, provoca un fenomeno interessante nel giocatore curioso e disposto ad accettare queste condizioni: la sovrapposizione completa di noi e del nostro avatar. Sebastian è infatti tanto spaesato quanto il giocatore: il risultato è che, quando si perderà nelle viuzze di Dorisburg, scoprendo abitazioni abbandonate o meno e luoghi curiosi, lo farà insieme a noi. Lo stesso vale per le conversazioni con i primi personaggi, durante le quali proverà a farsi accettare e a entrare nelle cerchia dei ragazzi e ragazze (una in particolare) dell’isola.

Un aspetto particolarmente potente si manifesta quando, grazie ai nostri sforzi, faremo delle piccole o grandi scoperte in maniera autonoma, senza indicazioni o avvisi a schermo di congratulazioni di alcun tipo. Sebastian e il giocatore, in queste occasioni, sono gli unici e i veri fautori di queste svolte genuine guidate esclusivamente dall’ingegno e dalla volontà di sperimentare, di usare la conoscenza ottenuta per sviluppare idee e opportunità tramite l’iterazione. E tutto ciò, naturalmente, caricherà in maniera particolare anche tutte quelle piccole svolte di trama che si dipaneranno nel corso dell’avventura di Sebastian.

Finora non si è ancora veramente discusso di ciò che rende Else Heart.Break() una piccola perla tutta da scoprire. Per farlo, è giusto partire da un piccolo parallelo con un titolo molto diverso dal punto di vista del tono, ma molto simile nelle intenzioni.

La bomba in testa

A una manciata di giorni dalla fine del 2020, Keita Takahashi pubblica finalmente il suo ultimo gioco dopo diversi anni di sviluppo: Wattam (Funomena, Annapurna Interactive). In pieno rispetto della tradizione dei titoli ideati precedentemente, il punto di Wattam è farci tornare bambini, ponendoci davanti a un contesto non solo spiccatamente vivace e spensierato a livello estetico, ma anche ricchissimo di stimoli che portano gli utenti a giocare e a sperimentare istintivamente senza forzature esterne.

Wattam, tuttavia, nasconde anche un sottotesto più che mai attuale e che funziona parecchio proprio in virtù del contrasto – strumento talvolta dimenticato – del messaggio di fondo con l’atmosfera e il tono dell’opera a livello superficiale. Per citare lo stesso Keita:

Usually, people have different layers in their minds. Even me, I have lots of layers; each layer of Keita Takahashi has a different perspective and different thoughts. Like, I don’t play video games, but I like to make video games.

Keita Takahashi su se stesso.

Keita ha avuto l’idea per Wattam guardando i suoi figli che si divertivano a costruire e distruggere subito dopo, da cui l’origine della bomba innocua del Sindaco.

Il mondo di Wattam, in principio molto ridotto, si allarga presto sia a livello spaziale che “demografico”, generando meraviglia proprio in virtù dell’espansione graduale del contesto di gioco in cui siamo stati catapultati. Else Heart.Break() fa un’operazione simile, ma in maniera improvvisa e positivamente sconvolgente: ci presenta infatti dapprima un mondo, l’isola di Dorisburg, nella sua interezza così com’è, ma accennando fin dalle prime battute di gioco alla possibilità di poter intervenire su parecchi elementi per raggiungere i nostri obiettivi grazie all’ingegno. Questo mondo poi, a un certo punto, si spalanca di fronte a noi rimanendo tuttavia esattamente come prima. Com’è possibile? Semplice: non è stata Dorisburg a cambiare, ma le possibilità di Sebastian di interagire con essa.

È proprio qui che sta l’uovo di Colombo, uno smacco brillante a tutti quegli open-world ipertrofici che ormai stanno saturando il mercato tripla A. Se il trucco magico della meraviglia sta nella percezione dell’utente e non nelle mere dimensioni di un contesto virtuale, allora forse diventare matti per creare mappe sempre più grandi e dettagliate è un po’ come guardare il proverbiale dito al posto della luna.

Trovare il nostro primo modifier è stata un’epifania incredibile. Cosa dicevamo qualche immagine fa? Che il sonno era un problema? Tsk Tsk.

Tornare bambini hackerando lattine

Ciò che permette a Sebastian di manipolare molti degli elementi che lo circondano, a prescindere e a dispetto della loro natura elettronica, è il cosiddetto modifier: un apparecchio di medie dimensioni portatile dall’aspetto sì tecnologico ma al tempo stesso un po’ vetusto (due lampadine  e tubi rigidi campeggiano in bella vista lungo i bordi). Una volta utilizzato su qualcosa di interagibile, tuttavia, ecco che accade la magia: lo schermo del modifier si piazza in primo piano, mostrando due cose molto importanti: (1) il codice relativo a quell’oggetto preciso e (2) i suggerimenti per le funzioni già disponibili per lo stesso.

Avete capito bene: in Else Heart.Break() è possibile cambiare la programmazione degli oggetti più svariati in maniera permanente. Il tutto, chiaramente, con qualche limite doveroso. Il già citato Erik Svedäng, aiutato da Johannes Gotlén, ha creato un linguaggio di programmazione accessibile proprio grazie ai modifier, detto Sprak (ovvero “linguaggio” in svedese), per offrire ai giocatori strumenti potenti ma innocui per la corretta funzionalità del titolo.

Lo Sprak, in poche parole, è una sovrastruttura dei sistemi di gioco creata appositamente per poter essere manipolata a piacere senza rischi, offrendo inoltre già parecchi strumenti per scatenare il nostro ingegno in partenza, senza impedirci di crearne di nuovi.

Nel gioco troverete tantissimi floppy contenenti le cose più svariate e anche divertenti. Interagendo con il modifier coi computer, invece, spesso troverete esempi pratici da cui trarre spunto.

Se siete arrivati a questo punto della lettura, forse vi sarà sorto un interrogativo: bisogna essere programmatori per giocare a Else Heart.Break()? Chi scrive, prima di giocarlo, aveva affrontato qualche corso nel tempo libero e quindi è difficile capire come potrebbe essere percepito da chi non ha mai sentito parlare prima di variabili, funzioni eccetera. Quel che è certo, tuttavia, è che il gioco offre sia occasioni che materiale diegetico per venire a conoscenza e fare pratica coi primi rudimenti. Oltre a qualche personaggio disponibile, troveremo infatti dei floppy in particolare (con la possibilità di consultarne e riscriverne il contenuto senza doverli inserire nei computer) che spiegano in una manciata di paragrafi alcuni concetti base.

Per incuriosirvi ulteriormente, ecco di seguito un esempio molto pratico e utile: in Else Heart.Break() le porte, così come le chiavi stesse, sono liberamente hackerabili3 tramite il modifier. Una porta chiusa è sbloccata da una chiave contenente un numero intero corretto (esempio: 123456). Se il punto quindi è aprire una porta chiusa con una chiave che non abbiamo, le soluzioni potrebbero essere due: la prima è quella di intervenire su una chiave qualsiasi in nostro possesso per implementare un cosiddetto brute force e provare tutte le combinazioni possibili in sequenza; la seconda consiste invece nel cambiare direttamente la destinazione di un’altra porta accessibile (divertente, ma devastante per i poveri npc se non gestito a dovere).

Ora solo Sebastian può accedere alla nuova destinazione speciale. La destinazione per esteso tra virgolette usata nella funzione Goto() è mostrata sempre in chiaro nel modifier per tutte le porte.

E questo è niente! Facciamo qualche altro esempio di oggetti manipolabili: caffè, lattine, computer, lampioni, una tartaruga, sigarette, cabinati. Una menzione speciale va ai quadri elettrici, una vera e propria sorpresa nella sorpresa di cui non vogliamo privarvi. Teneteli d’occhio quando ci giocherete.

Un piccolo bonus: come appena accennato, nel mondo di gioco sono presenti anche computer e cabinati liberamente accessibili. Se vi state chiedendo se sia possibile modificare o creare giochi dentro al gioco sì, avete capito benissimo (e non solo brevi avventure testuali, molte già presenti e tutte da scoprire). Inoltre, tutti gli oggetti in grado di collegarsi alla rete possiedono la funzione “Connect()”, grazie alla quale è possibile collegarsi ad altri oggetti connessi a loro volta per accedere a tutte le proprietà a loro disposizione. Un’ottima opportunità per espandere la funzionalità di un oggetto e arricchirne le potenzialità in maniera esponenziale.

Strano luogo vero? A voi scoprire di cosa si tratta.

Un gioco che stimola e richiede interesse

È innegabile che Else Heart.Break(), in un certo senso, se ne freghi dell’accessibilità immediata e di proporsi a un pubblico il più ampio possibile. Il coraggio di Else Heart.Break() sta proprio nel fatto di porsi come un modo estremamente originale di muovere i primi passi nel mondo della programmazione, rifiutando al tempo stesso qualsiasi compromesso che ne vizierebbe eccessivamente l’intento.

Il gioco è inoltre potenzialmente un sandbox ghiotto per tutti coloro che hanno già dimestichezza e che potrebbero quindi riuscire a ottenere risultati ancora più radicali ed esilaranti (ci siamo trattenuti, ma se andate a sbirciare ne vedrete delle belle). Finché c’è genuino interesse e voglia di mettersi a provare spinti dalla curiosità, Else Heart.Break() è un parco giochi cyberpunk straripante di stimoli.

Il fatto che il modifier possa essere recuperato in più di un modo, ma senza che mai nulla venga suggerito dall’alto come prevederebbe la norma dei giochi moderni, è prova ulteriore del fatto che Else Heart.Break() non voglia mai prenderci per mano, lasciando che il protagonista faccia il suo percorso (e noi con lui). Il tutto, comunque, è sempre coadiuvato da una parte narrativa che accompagnerà Sebastian, dando forma ai nostri desideri e obiettivi in maniera spontanea senza mai risultare pedante.

Poteva forse mancare un omaggio a Ingmar Bergman in un gioco svedese?

La grande differenza tra Else Heart Break() e il resto dell’offerta probabilmente sta in questo: il gioco sacrifica l’accessibilità istantanea per donare strumenti utili a imparare, divertendosi, i rudimenti di una competenza reale. Questo fattore apparentemente innocuo in realtà rappresenta una spaccatura rispetto alla norma del medium, in quanto gran parte, se non la quasi totalità, delle competenze – intese come le nozioni pratiche necessarie a completare un dato titolo – che si acquisiscono fruendo dei videogiochi, sono superflue e fittizie in quanto valide, seppur in modo squisitamente effimero, solo all’interno del contesto del gioco in questione. Queste competenze, tuttavia, sono destinate a essere prive di qualsiasi significato o utilità al di fuori di esso. Imparare invece che cos’è una funzione, per esempio, ha applicazioni oggettivamente più diramate e istruttive/costruttive.

A scanso di equivoci, il paragrafo precedente naturalmente non vuole essere bacchettone e denigrativo in generale verso gran parte dei videogiochi e il loro potenziale espressivo o competitivo (come le cosiddette speedrun). Se non ci credete, vi ricordiamo il papiro dedicato al primo Shin Megami Tensei, dell’anno scorso. Tuttavia, se in certi periodi sarete particolarmente dubbiosi riguardo il dedicare tempo a questo hobby, forse è perché nella vostra mente starà risuonando un eco della considerazione di poco fa.

Poteva forse mancare un omaggio a Ingmar Bergman in un gioco svedese?

IF (USER.INLOVE)
{REDISCOVER(CYBERPUNK)};

Nel titolo dell’articolo si era fatta la premessa di come Else Heart.Break() riesca a restituire una visione del cyberpunk estremamente originale ma al tempo stesso pura e fedele negli intenti. Dal punto di vista estetico, il titolo offre sicuramente un tocco diverso dal solito, grazie alle sue tinte vivaci e a piccoli dettagli insoliti usati, per esempio, per i volti delle persone che si riscontrano spesso anche nei dipinti dello stesso Niklas Åkerblad. Non è un caso che l’aureola multicolore, mostrata mentre un personaggio sta manipolando un oggetto tramite il modifier, sia anche presente nella copertina del suo disco Vandereer (e anche in un quadretto nel menu principale).

A proposito di musica, è assolutamente doveroso sottolineare come la colonna sonora spesso accompagni perfettamente l’azione di gioco, con i suoi motivi lo-fi frammisti a tracce più giocose elettroniche, arricchite da dettagli inaspettati. Insomma, una commistione che ben si combina con il tono dell’opera.

Banalmente, forse, ciò che Else Heart.Break() riesce a capire molto bene è che nel termine “cyberpunk” è compresa la parola “punk”. Ciò sottintende un moto sovversivo o comunque una indole contraria rispetto a quella della maggioranza. Questo è molto interessante, in quanto è sicuramente accomunabile all’intenzione di Erik e Niklas di creare un videogioco costruito intorno a un tipo di esperienza ben preciso, rifiutandosi, giustamente, di compromettere la loro visione per renderlo fruibile anche a chi, probabilmente, non è poi così interessato a calarsi nei panni di Sebastian.

Ve l’avevamo detto no? Tenete d’occhio i quadri elettrici!

Noi fruitori possiamo solo immaginare i sacrifici e il tempo investiti per creare un videogioco simile, che probabilmente non ha neppure un vero precedente nel medium. Dover quindi fare un piccolo sacrificio di attenzione e dedizione per accedere a tutto questo in cambio ci sembra un affare piuttosto ragionevole (nonché un segno di rispetto). In linea generale, prima di accusare qualsiasi videogioco di non essere abbastanza “accessibile”, bisognerebbe chiedersi sinceramente se quel gioco ci interessa davvero. Subito dopo, provare a capire se ciò che si pretende – ammettiamolo, anche in maniera un po’ arrogante – andrebbe a inficiare in maniera importante sulle intenzioni dell’opera. Che poi, pensandoci bene, in un’offerta infinita come quella di oggi, i videogiochi che non fanno per noi sono una cosa meravigliosa per il nostro orientamento.

Ma torniamo al termine “punk”. Sebastian, trascorrendo le prime serate in compagnia dei suoi coetanei, scoprirà abbastanza presto che sull’isola è effettivamente presente un gruppetto di “ribelli” che diventerà un punto di riferimento nella trama: ciò aggiunge quindi un moto sovversivo anche a livello narrativo. Un altro aspetto sovversivo, come anticipato, è dettato dal fatto che in Else Heart.Break() è possibile manipolare il codice non solo dei dispositivi elettronici, ma di fatto di tutti gli elementi interattivi a prescindere dalla loro natura.

Un elemento ulteriore, questa volta a livello se vogliamo estetico e accennato poco fa, è la rinuncia completa a gran parte di quegli elementi spesso riconducibili all’estetica cyberpunk, mentre molto è stato investito per creare delle dinamiche di gioco che costringono il giocatore a hackerare ciò che lo circonda in maniera spontanea e, di fatto, con un linguaggio di programmazione4 del tutto simile ad alcuni correntemente impiegati. Questo è ciò che rende Else Heart.Break() qualcosa di straordinario, autentico e potente.

Pop-Eye declina ogni responsabilità di gestione truffaldina della vostra carta di credito.

Il frutto degli sforzi di questo piccolo gruppo di sviluppatori non solo rinuncia agli stereotipi del genere ma riesce, al tempo stesso, a ricordarci che cos’è l’essenza del genere stesso. In quanto moto sovversivo, il cyberpunk vive nelle azioni, e muore nella moda e nel manierismo dei neon e degli aggeggi cromati svizzeri multi-uso.

Else Heart.Break() è, inoltre, nato con l’intento di riunire gli utenti appassionati al fine di scambiarsi “hackeraggi” particolarmente virtuosi, nonché avventure testuali o giochi elementari da lanciare incollando il codice altrui direttamente nei cabinati o nei terminali presenti a Dorisburg. Torna quindi alla mente il testo Masters of Doom di David Kushner, in cui John Carmack alla ID Software sosteneva puntualmente la“etica dell’hacker”, creando motori di gioco accessibili da terzi al fine di creare una iterazione collettiva, minacciando puntualmente ed energicamente di lasciare la società ogni volta che saltava fuori la parola “brevetto”.

Un piccolo omaggio al primissimo Silent Hill. Niklas Åkerblad (in arte El Huervo) ha usato campioni di dialoghi e di suoni della saga in alcuni suoi brani (come in “Closure”). Akira Yamaoka è anche menzionato nei ringraziamenti speciali.

ELSE IF (GAME.ISMASTERPIECE)
{USER.TRIGGERBIAS()};

La cosa peggiore che si possa scrivere, o dire, di un’opera, non sta nel vessarla, sminuirla o nel redarre un elenco del perché sia la cosa peggiore mai esistita. Il sostantivo più distruttivo di tutti è probabilmente, e paradossalmente, la parola “capolavoro”. Questo perché non si può definire come tale qualcosa senza alzare le aspettative all’inverosimile, viziando la fruizione futura degli altri.

Quest’ultimo paragrafo servirà infatti a sottolineare anche qualche difetto del gioco che abbiamo riscontrato, in modo da ridimensionarne la percezione prima di concludere.

  1. Nella nostra esperienza, il titolo non sempre ha gestito nel modo migliore questa comunicazione indiretta degli obiettivi da perseguire da Sebastian, causando qualche grattacapo. In particolare, il titolo dà per scontato che il giocatore capisca che Sebastian si sia preso una cotta incredibile per un personaggio in particolare.
  2. Una missione in corso viene completamente dimenticata da chi ce l’aveva assegnata in seguito a un evento preciso. La missione in sé non è fondamentale, ma il problema è che il giocatore si sentirà facilmente abbandonato a se stesso a questo punto. Quando accadrà, concentratevi quindi semplicemente sulla missione principale, cercando di capire come raggiungere il vostro scopo.
  3. Il terzo test dell’iniziazione per entrare a far parte del gruppo ribelle ha messo un po’ alla prova la nostra pazienza.
  4. I file di salvataggio, dal momento che devono necessariamente contenere tutte le modifiche del giocatore agli oggetti interattivi (oltre ai progressi), pesano circa 21 megabyte l’uno e l’auto-salvataggio, che scatta in un paio di momenti della giornata, non è disattivabile.
    Tuttavia, è possibile accedere facilmente alla cartella dei salvataggi, presente in quella del gioco stesso, per rimuoverli manualmente in caso di bisogno (oltre a copiarli e rinominarli per organizzarli meglio).

L’immagine parla da sé. Non siate timidi e interagite con tutti i terminali che trovate, le sorprese sono dietro l’angolo.

ELSE
{HEART.BREAK()};

Ci auguriamo che questo articolo vi abbia incuriosito riguardo questo titolo molto particolare e meritevole di essere provato. Purtroppo l’ostacolo maggiore, forse, non è il modo in cui Sebastian interagisce con l’ambiente ma il fatto che non sia disponibile su console e, a meno che non venga completamente rivisto, non ci sono proprio le basi per renderlo compatibile in tal senso, visto che tutti i controlli di navigazione dipendono dal mouse. Inoltre, il gioco è disponibile solo in svedese e in inglese.

Ci piace molto l’idea di concludere questo pezzo lungo e, a tratti, forse un po’ troppo sentito, con quello che probabilmente è il messaggio di fondo del gioco:
per quanto le possibilità siano plurimi e per quanto l’ingegno sia acuto e la volontà ferrea, si può davvero manipolare tutto a nostro vantaggio?

<><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><>

If(GetUser().WasReadingComplete)
{
Say(“Grazie di cuore e buon hackeraggio!”);
}

else
{
Heart.Break();
}

<><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><>

LR


NOTE:

1 Se dovessimo tradurlo in italiano, con un poco di fantasia, sarebbe qualcosa come: “Infine, se proprio non c’è un’altra possibilità, accedi al cuore e lancia la funzione spezza”. Ma la funzione è transitiva o intransitiva? Chi già si destreggia nella programmazione, probabilmente, ha già inteso.

2 Noto anche come El Huervo e per aver partecipato ai lavori di Hotline Miami, qui si è occupato della creazione del mondo, della modellazione 3D, delle animazioni e della musica.

3 In realtà al giocatore è precluso hackerare alcuni oggetti particolarmente sensibili in principio (proprio come le porte), ma sbloccare questa possibilità è questione di un pizzico di ingegno.

4 Il linguaggio Sprak è tecnicamente inquadrabile come un “linguaggio alto”. Per linguaggi alti si intende un insieme di linguaggi di programmazione posti in alto (inteso come “lontano”) rispetto al linguaggio macchina (CPU), in quanto alcuni processi come la gestione della memoria vengono automatizzati con lo scotto di prestazioni generali inferiori. I linguaggi bassi invece sono quelli più vicini al linguaggio macchina nella “classifica” e per questo, banalmente, più tecnici e complessi.


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Dieci anni di Hotline Miami

Dieci anni di Hotline Miami

  • Alfredo Savy

  • 7 settembre 2022
  • noninteragire

Raccontare oggi Hotline Miami è compito arduo. Del lavoro di Dennaton Games esistono, infatti, innumerevoli letture, susseguitesi nel corso degli anni, e ciò rende nondimeno complesso sia aggiungere qualcosa al discorso che evitare di sporcare irrimediabilmente il foglio, nel tentativo maldestro di innovare il dibattito intorno a questo straordinario videogioco.
Eppure, a un decennio di distanza dalla sua uscita – datata ventitré ottobre, duemiladodici – Hotline Miami è ancora lì, non invecchiato di un’ora. È cristallizzato nel tempo, come i suoi pavimenti dalle tinte acide, macchiati dal sangue di mafiosi russi. Ci ricorda, dunque, che bisogna prestargli ancora attenzione; per rendergli giustizia, tocca fare un passo indietro.

L’esperienza offerta da Hotline Miami chiude (almeno) due lustri di riflessione sulla violenza nel medium videoludico, che ha in Metal Gear Solid 2 (Konami, 2001) uno dei maggiori impulsi. Nel titolo di Hideo Kojima, non solo è più volte sottolineato come l’addestramento in VR crei i soldati del domani, grazie a una desensibilizzazione dell’omicidio quale atto efferato a causa della ripetibilità dello stesso in un contesto controllato, ma viene, soprattutto, rimarcata una certa feralità dell’umano, ben dipinta dal finto dualismo Raiden – Jack The Ripper.
Il buon Jack era violento prima di essere costruito come violento.

Il passato di Raiden, personaggio avatar dei videogiocatore, è violento.

Saremmo di fronte, pertanto, a una condizione pre-esistente, con le manipolazioni successive che assurgono al compito di fissare il concetto, più che crearlo. In definitiva, quella dell’autore giapponese era una metafora abbastanza chiara delle implicazioni connesse al videogioco violento, ma pure un invito a riflettere sul chi fosse il videogiocatore. Un’idea approfondita poi in Spec Ops: The Line (Yager, 2012), contemporaneo di Hotline Miami e splendida decostruzione del linguaggio adottato dagli FPS militari.

Non solo. Per capire ancora meglio il contesto in cui Hotline Miami affonda le proprie radici, è d’uopo rivolgere uno sguardo alla ricerca scientifica del periodo. Nel 2011, De Wall, Bushman e Anderson, tre accademici delle università dell’Iowa e dell’Ohio, razionalizzano definitivamente il General Aggression Model (GAM), un’elaborazione dei meccanismi che provocano cambiamenti comportamentali nell’individuo, rendendolo suscettibile a risposte aggressive, e in cui ha un ruolo la cd. media violence. Pur rinviando a contributi più esaurienti1, soprattutto in un’ottica critica, è importante rimarcare in questa sede come, all’interno della teoria del GAM, venissero considerate internalizzabili anche le esperienze virtuali.

Del resto, è una posizione degli autori sin dal lontano 2001:

Thus, an individual who frequently plays video games with violent themes is engaging in experiences that could hypothetically strengthen his or her aggression scripts and thoughts, priming the individual and rendering the scripts ready for use in real life.

Anderson, C. A., & Bushman, B. J. (2001). Effects of violent video games on aggressive behaviour, aggressive cognition, aggressive affect, physiological arousal, and prosocial behaviour: A meta-analytic review of the scientific literature. Psychological Science, 12(5), 353–359.

Perciò, accanto a una rinnovata sensibilità dei creativi su un tema trasversale all’intera produzione videoludica, si trovava un’importante costruzione teorica qual è il GAM, e un dibattito politico mai sopito: tre elementi di una tesi, che però costituisce solo un lato della problematica. 

D’accordo, è un buon meme. Come altri. Ma è un argomento fantoccio.

Difatti, ogni nuovo linguaggio è da sempre osteggiato dai governanti e, talvolta, da essi ricondotto a capro espiatorio di problemi sistemici, più difficili (e sconvenienti) da affrontare; basti pensare al famigerato Seduction of the Innocent (Wertham, 1954) che si scagliava sulla corruzione giovanile derivante dal fumetto, creando, di fatto, la Comics Code Authority. Ma questo non è un tema nuovo, bensì retrodatabile a scelta; e preoccupazioni in tal senso emergono sin dai romanzi di epoca vittoriana3, senza contare grammofoni, capelloni, Heavy Metal.

Da ciò discende una naturale antitesi, costruita a colpi di minimizzazione, deresponsabilizzazione, incapacità di trovare un terreno di confronto, slogan sul ricaricare la partita quando sono feriti i sentimenti dei personaggi negli RPG; una fisiologica risposta a un atteggiamento predatorio delle istituzioni, che vorrebbero scaricare sul videogioco pure quello che succede quando, semplicemente, si cede alle pressioni lobbistiche della NRA. E del resto, la letteratura in materia non è certo univoca.2

E ne avremo la conferma durante il gioco.

Mancava, quindi, una sintesi. Mancava, quindi, Hotline Miami.
Perché, per quanto paradossale possa sembrare, tutto questo accumulo di nozioni, propaganda, riflessioni interne al videogioco ed esterne, estensibili, alla società, è stato risolto da un piccolo titolo arthouse di due tizi svedesi che dal nulla indovinano lo zeitgeist, lo spirito del tempo.
Scandendo un prima e un dopo.

Tra tutti gli animali l’uomo è il più crudele

La prima cosa che si associa a Hotline Miami è il film Drive (Winding Refn, 2011), palese ispirazione per Dennaton, ma anche esempio vivido di eterogenesi. Perché Drive, pellicola che ha definitivamente consacrato il regista danese, ha un utilizzo totalmente diverso della violenza: è centellinata, esplosiva, memorabile. Assurge al ruolo di elemento di rottura, all’interno di un impasto dove le musiche synth pop dei Chromatics e retrowave di Kavinsky potrebbero tranquillamente essere sostituite da Born In The U.S.A. di Bruce Springsteen, soprattutto durante la gitarella fuoriporta del Pilota con Irene e Benicio.

I ringraziamenti a Nicolas Winding Refn nei titoli di coda di Hotline Miami.

Se, dunque, Hotline Miami saccheggia parzialmente il mood di Drive e alcuni aspetti simbolici tra cui il protagonista silenzioso e dannato con una giacca iconica, le somiglianze terminano lì. Al ritmo compassato, manierista e citazionista di Refn – una su tutte, la scena dell’assassinio di Ron Perlman richiama pesantemente un altro Drive, Mulholland (Lynch, 2001) – Dennaton sostituisce un’orgia di ultraviolenza, in cui sfuma il significato delle azioni del fruitore. In un certo senso, di tutto ciò è emblematico il passaggio dalla sognante e moderna San Francisco alla paranoica e paludosa Miami, collocata dall’altro lato del Paese e che funge quasi da sottosopra della città californiana. Il mito fondante di Hotline Miami è evento in Drive.

In particolare, Hotline Miami presenta una narrazione orizzontale volutamente criptica, confondente, lisergica. Jacket è in coma, così come in uno stato comatoso versa il videogiocatore: è confinato in un loop composto da “try, die, repeat”, “instant restart” e “one shot, one kill”, con nelle orecchie una colonna sonora synthwave martellante e che scandisce il tempo stesso del gameplay, rendendolo pericolosamente vicino a un rhythm game. È in trance, senza empatia, totalmente alienato da ciò che sta effettivamente facendo: massacrare delle persone, ottenendo punti per la fantasia o la rapidità delle esecuzioni. La realtà è solo un’immagine sbiadita che rimane sulla retina, composta dai cadaveri orrendamente mutilati. Gli stessi che incontra Jacket nei vari locali che frequenta.

Jacket è in coma, e così anche il videogiocatore.

Tutti gli spettatori ricordano la famosa scena dell’ascensore di Drive, mentre sarebbe impossibile farlo con la moltitudine gommosa di NPC trucidati in Hotline Miami: c’è spazio solo per l’eventuale frustrazione di non riuscire, e la gratificazione di fine livello. È solo la prima volta che disturba, provocando nausea e vomito perfino in Jacket; poi diventa routine, sfoggio di abilità, sfida. 

Dennaton riduce ai minimi termini il concetto di videogioco stesso, restituendolo a una dimensione primitiva, composta da riflessi, sudore, annichilimento, quantificazione della devastazione, premi, istinto. Lo libera da ogni sovrastruttura, mentre distribuisce maschere di animali che consentono di costruire un’esperienza più vicina alle abilità di ogni fruitore; letteralmente inner animal4, quello che c’è dentro, scevro da ogni costruzione della società. Viene totalmente decostruito, per essere infine restituito nella forma di un graffito.

Da qui in poi è tutta in discesa.

Il duo di sviluppatori svedesi è stato incredibilmente efficace nel riempire la propria opera di piccoli semi narrativi, che agiscono – perfino a livello inconscio – come giustificazione morale, autoassoluzione, pensiero magico, per poi vedersi irrimediabilmente e volutamente ridimensionati. La mafia russa, che dev’essere per forza cattiva. Il mistero delle telefonate. Una storiella esile di vendetta, dopo un salvataggio eroico.

Il vero colpo di genio è nel correlato ribaltamento di fronte, passando da Jacket a Biker. L’intero castello di credenze del videogiocatore crolla miseramente: non esiste un fine nella violenza, se non l’aver goduto della violenza stessa. Non ci sono risposte, ma solo una domanda: 

Do you like hurting other people? 

Richard a Jacket, cioè al videogiocatore.

Un interrogativo che descrive la banalità di un male non più rinnegabile, rappresentato plasticamente dallo shift di fine livello. La musica termina, si passa a uno stato cognitivo totalmente diverso, lo spazio diventa alieno. Ci si sveglia, si torna indietro. Ci si rende conto di quanto accaduto, con l’euforia che cede il passo alla vergogna. Si emerge dal coma, si fatica persino a trovare l’uscita; e poi subito in auto, verso il prossimo nonsense, segnale indifferibile di una psiche devastata che si rispecchia solo nella ripetizione di un atto atroce. Che galleggia come in Trauma, un livello meraviglioso dove una fuga disperata da un ospedale si intreccia perfettamente con Flatline di Scattle.
Ma per andare dove? Per fare che?

Le uccisioni reciproche di Jacket e Biker non hanno consistenza narrativa.

Dennaton ha raccontato con le sue meccaniche, mentre fingeva di farlo con i dialoghi. E lo dimostra con un colpo di teatro: basta una spugna e si può cancellare ogni cosa, perché tutto è futile, e a questa regola non sfuggono i personaggi. Ciò che conta è solo la domanda: l’inconsistenza dei fatti appare come irrilevante rispetto alla potenza del messaggio. Hotline Miami è tutto lì, nello scarto che separa la consapevolezza del divertimento tramite l’uccisione e l’uccisione stessa. Nella risposta affermativa all’interrogativo di Richard, nell’aver goduto di quel flow perfettamente bilanciato, di quello spargimento di sangue.
Nell’aver capito di essere soltanto un animale. 

Il tutto ricorda da vicino una grande lezione del fumetto moderno, quella di Born (Ennis, 2003): la storia della famiglia uccisa è solo un pretesto per il Punitore, in modo da costruirsi una verità accettabile per non ammettere di essere sempre stato un omicida. Lo stesso vale per il videogiocatore, che si convince di essere quello che non è; e lo fa solo per nascondere la soddisfazione che deriva da quel tipo di fruizione. Ma i nodi vengono al pettine, e hanno il gusto amaro di una risata dei developer, incontrati in uno squallido sottoscala. 

Uno schiavo obbedisce, un uomo decide liberamente di rispondere al telefono.

A tal proposito, è interessante osservare come Hotline Miami tenda a inquadrare la grande provocazione di Ken Levine in BioShock (Irrational, 2007) da un altro angolo visuale: il giocatore non è uno schiavo che, inconsapevolmente, si sottomette alle regole del suo demiurgo, ma un uomo che liberamente accetta di imboccare la strada indicatagli dal creatore, legittimandola. Potrebbe smettere di rispondere a quel telefono, spegnendo la console; eppure non lo fa, perché è attratto da ciò che gli viene proposto. Aderire alle regole dello sviluppatore assomiglia, dunque, a una perversione. 

Ed è così che il titolo di Jonatan Söderström e Dennis Wedin diventa perfino un manifesto dei legame tra chi il videogioco lo fa e chi lo subisce, cercando di illuminarne i rapporti di forza: una specie di “Discorso sulla servitù volontaria” (La Boétie, 1549) elaborato in Game Maker.

Kill ‘Em All

Grazie al suo successo critico e commerciale, all’essere diventato un cult, Hotline Miami ha indubbiamente influenzato le produzioni successive, edificando un vero e proprio filone (Miami-style) con titoli di indubbia qualità, alternati ad altri meno ispirati. Un esempio dell’ultimo caso è rinvenibile nel modesto Hong Kong Massacre (Vreski, 2019), mentre sulla scia dei videogiochi riusciti c’è sicuramente lo stimolante Katana Zero (Askiisoft, 2019), che modifica la formula di Dennaton ottenendo un feeling tutto suo, ma di cui si rinviene agevolmente la radice; su quest’ultimo torneremo in seguito. Ancora, si potrebbero citare Mother Russia Bleeds (Le Cartel Studio, 2016), Ape Out (Cuzzillo, 2019), Contract Killers (Kapi Games, 2020): in sostanza, siamo davanti a una legacy precisamente individuabile e tutt’ora ricca di uscite, molto spesso pubblicate proprio da Devolver Digital, già publisher di Hotline Miami.

Dennaton deride le costruzioni mentali del videogiocatore.

Quello che ci interessa adesso, però, non è tanto prendere atto dell’impatto di quel fast paced gameplay basato su delle macellerie messicane in pixel; al contrario, è stimolante osservare le evoluzioni successive del discorso collegato al nucleo concettuale di Hotline Miami. Un videogioco che, appunto, presentava una struttura ludica assuefacente ma basata sull’omicidio, per poi far notare al fruitore che stava, in effetti, ricevendo un feedback positivo dal dolore causato ad altri, e lo invitava a riflettere su questo. Un’accusa che colpiva, trasversalmente, sia la figura del videogiocatore che il tipo di contenuti offerti dall’industria.

È curioso che finanche Dennaton, tornata nel 2015 sul suo figlio prediletto con Hotline Miami 2: Wrong Number, non sia riuscita a replicare una formula tanto perfetta. Utilizzando un termine di paragone cinematografico, questo secondo capitolo soffre della “sindrome di Blade Runner 2049(Villeneuve, 2017): mentre il primo, storico, film di Ridley Scott metteva in scena una narrazione esile ma fondata su un interrogativo potente e perfettamente aderente alle istanze Dickiane, il sequel assemblava un complesso susseguirsi di faccende dal dubbio interesse e dall’elefantiaco incedere, nonché una morale spicciola, nascondendosi dietro un’estetica simile a quella del passato. Bene: a Wrong Number possono essere rivolte le medesime critiche. 

Senza scopo. Quello che invece prova a restituire Wrong Number.

L’aver voluto costruire un substrato narrativo effettivo che fungesse sia da prequel che da sequel,  ha mortificato l’effetto irrealtà che rende grande Hotline Miami, scombussolandone addirittura il messaggio. Come sostenuto in precedenza, è l’assoluta inconsistenza dei fatti a far emergere il vero fine dell’opera: direbbero gli americani, è tutto dannatamente pointless. Dennaton prova invece a spiegare al giocatore disattento che rispondere alla famosa domanda, senza elaborare ulteriormente, è pericoloso: che la violenza produce solo altra violenza e, alla fine, tutto si risolve nella cancellazione dell’umano stesso, che viene, metaforicamente e non, nuclearizzato. Peccato che chi non ha assorbito il messaggio del primo gioco difficilmente riuscirà a farlo con il secondo, data la sua impalcatura. 

Infatti, questo compito viene svolto mantenendo lo stile criptico del primo, che mal si confà a una parabola e diventa solo confusionario, manierista: tutte caratteristiche in precedenza assenti. Addirittura la sanzione morale investe il gameplay, non più fluido e bilanciato ma punitivo. Non deve piacerti fare del male ad altre persone, sembra urlare Dennaton; e la stessa apologia della violenza del Colonnello (Kurtz) diventa volutamente patetica.

Banalmente:

Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si consumano al primo bacio. Il più squisito miele diviene stucchevole per la sua stessa dolcezza, e basta assaggiarlo per levarsene la voglia.

William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto II, Scena VI, c.ca 1594.

La grande lezione di Hotline Miami 2: Wrong Number è che, dopo Hotline Miami, non ci fosse null’altro da aggiungere, e ogni ulteriore declinazione degli stessi concetti iniziava a sembrare già parossistica. Se Hotline Miami è Watchmen (Moore, 1986), tutto il filone successivo di ulteriori decostruzioni, oscurità e riletture superficiali della questione, appare nulla più che un voler giocare agli adulti, un prendersi sul serio che diventa esattamente uguale al vuoto pneumatico di consapevolezza che si voleva, almeno inizialmente, eradicare.

La nuclearizzazione, l’evento che chiude la serie Hotline Miami.

Quindi, riprendendo le osservazioni in apertura di articolo, siamo sì davanti a una sintesi, ma a una sintesi imperfetta; proprio il volersi assumere le proprie responsabilità su un’offerta videoludica basata solo sullo stragismo ma, allo stesso tempo, criticare la scena politica che si appropria della violenza per modellare il mondo, ha prodotto la ramificazione narrativa alla base di Wrong Number. Il quale, in effetti, è figlio del finale alternativo del predecessore, in cui viene presentata l’organizzazione ultranazionalista 50 Blessings, vera protagonista del world building del secondo capitolo.

L’eredità di Hotline Miami ha influenzato in maniera evidente The Last of Us: Parte II (Naughty Dog, 2020), con Neil Druckmann e Halley Gross che non hanno mai nascosto l’ispirazione, citandolo esplicitamente durante una sequenza di gioco. Anzi, si potrebbe dire addirittura che il titolo post-apocalittico ne sia un successore spirituale più centrato perfino rispetto a Wrong Number: nonostante ne mutui l’ultraviolenza, il cambio di prospettiva (Ellie e Abby come Jacket e Biker), la critica dell’omicidio come unico mezzo di interazione, perfino l’uso dei cani, inserisce tutti questi ingredienti in un contesto più ampio. Possiede un certo respiro: collocare determinate dinamiche all’interno di una struttura narrativa più didascalica ha contribuito alla loro novazione, oltre a renderle maggiormente fruibili per le masse (cui un blockbuster è rivolto). Operazione che il sequel vero e proprio non è riuscito a portare a termine.

Dopo un omicidio cruento, ecco la easter egg di Hotline Miami.

Consci che rispetto a Hotline Miami non poteva essere detto altro, in Naughty Dog hanno giocato la carta della revisione, chiudendo definitivamente a ogni possibile – e ulteriore – approfondimento sensato sullo stesso tema.

Non essere cattivo

La conclusione di questa disamina ha – volutamente – il nome di un certo film, quel Non essere cattivo (Caligari, 2015) che si è mosso, non senza difficoltà, sul fragile equilibrio che separa natura violenta dalla delinquenza per necessità, vagliando la possibilità di scegliere un destino diverso. Bisogna chiedersi, pertanto, l’industria videoludica quanto spazio abbia dato, ai suoi fruitori, per decidere se identificare l’altro come un fine e non solo come un mezzo. Ergo, se esista un revirement che ha reso Hotline Miami non più l’unica coordinata valida per interpretare questo medium, ma solo una delle possibili declinazioni.
Specificamente, quella più nichilista.

Journey esce lo stesso anno di Hotline Miami. Non ci sono altri elementi accostabili.

È chiaro che Hotline Miami sia stato il prodotto – e il punto di arrivo – di un meditare decennale, che pure abbiamo provato a tratteggiare; un percorso multidisciplinare, che ha impattato sulla stessa produzione del gioco, tra contributi scientifici, narrazioni politiche, riflessioni di altri autori e spinte cinematografiche. Risulterà altrettanto palese, però, che proprio dagli anni dieci si sia provato a fare altro. L’esempio di scuola è sicuramente Death Stranding (Kojima Productions, 2019), con il “ponte” rappresentato dal Social Strand System, a sua volta figlio del disarmo nucleare di Metal Gear Solid V (Konami, 2015); ma è difficile dimenticare l’impatto di Journey (Thatgamecompany, 2012) che, non senza ironia, nello stesso anno di Hotline Miami proponeva una visione agli antipodi.

Non solo. È ugualmente vero che gli sforzi per contestualizzare la violenza all’interno di uno schema si siano notevolmente intensificati. Pensiamo a The Last Guardian (Team ICO, 2016), dove Fumito Ueda continua una cavalcata che ha origine nel 2001; ovvero Horizon Forbidden West (Guerrilla, 2022), che individua la necessità di una risposta armata all’interno degli schemi tipici del conflitto di classe (ne abbiamo a lungo parlato qui). Oppure, per allargare le maglie, il Tribunale di Disco Elysium (ZA/UM, 2019), la rivoluzione in Deathloop (Arkane, 2021). Delle variazioni sul tema che sembrano solo all’apparenza scontate, ma che in realtà rifiutano l’idea alla base di Hotline Miami, quella della violenza naturale da cui è possibile emanciparsi attraverso l’autoanalisi. 

La violenza di giocare sulle rovine della civiltà.

Stiamo forse entrando nell’epoca della post-violenza, in cui certe lezioni sono state assorbite a tal punto da generare delle immagini feroci dal punto di vista visivo, eppure non avvertite come tali perché bene incartate e condite da un retrogusto di critica sociale. Golf Club: Wasteland (Demagog Studio, 2018), su tutti, propone un’estetica violentissima in cui un uomo, da solo, gioca sulle rovine del mondo: lancia la pallina sui corpi che il capitalismo ha lasciato indietro, mentre nelle cuffie risuona “O Gorizia, tu sei maledetta”. Il linguaggio si è così stratificato da risultare difficile considerare Hotline Miami l’unica risposta possibile, e critica, ai modi in cui la violenza è rappresentata, e alla natura stessa dei videogiocatori, gruppo ormai niente affatto omogeneo per cultura ed estrazione sociale. Torniamo, così, alle coordinate numerose.

A conferma di ciò, proprio Katana Zero, precedentemente citato tra i Miami-style riusciti, è abbastanza esemplificativo di un’evoluzione interna alla stessa famiglia. In questo caso, il valore assoluto espresso dal messaggio di Hotline Miami è ammorbidito dal ventaglio di opzioni dialogiche proposte al videogiocatore. Il quale, di conseguenza, può emanciparsi dalla sanzione morale di Dennaton, che lo dipinge come un sadico animale. Il resto lo fa un’impalcatura capace di fondere il concetto di perfezione come ripetibilità di un gesto, tipicamente giapponese, alla spinta narrativa che deriva dall’inserimento di un vulnerabile da proteggere, in una specie di effetto Léon (Besson, 1994). In questo modo, si ottiene un risultato al tempo stesso simile e distante dal capostipite del genere Miami.

Le opzioni di dialogo di Katana Zero cambiano la percezione del videogiocatore.

Ma Hotline Miami non perderà mai fascino, nonostante tutto. Un po’ perché afferma con forza un certo messaggio, che stiamo scoprendo ora ammetta repliche, a discapito della monoliticità con cui si presenta; un po’ perché è la summa di un certo modo di intendere il videogioco. A ben pensarci, si va forse oltre a una discussione interna al mezzo: il tutto ricorda un po’ le varie evoluzioni e capriole dopolo homo homini lupus di Hobbes, con Rousseau che replicava identificandoci come animali sociali, esattamente all’opposto. Il discorso sulle qualità dell’individuo è esteso al videogiocatore, come parte attiva della società a cui ci si vuole rivolgere. Ciclità, direbbe qualcuno.

Quella di Dennaton, insomma, rimarrà la descrizione più cinica di chi è dietro lo schermo.
Immagina un uomo, che risponde al telefono. A cui danno un indirizzo.
Entra in auto, si reca sul posto.
Compie una strage, è soddisfatto.
Legge il suo punteggio. Sorride.

AAS


NOTE:

1 Ad esempio, in Gunther B. “Does playing video games make players more violent?”, Palgrave Macmillan, London, 2016, vengono analizzate tutte le scuole di pensiero e le metodologie di analisi. Arrivando a questa conclusione:”There could be many explanations for changes in crime levels, and sometimes they are not even linked to social factors, but are simply changes in the procedures for collection and compilation of data. Linking these kinds of data to more direct interventionist tests on the psychological effects of violent video games is also problematic. Although resonating neatly with the agenda of moral panics, it represents untrustworthy science”.

2Per approfondire, qui la teoria del GAM viene utilizzata per aprire alla possibilità di internalizzazione di comportamenti, al contrario, prosociali: Greitemeyer, T., & Mugge, D. O. (2014) Video games do affect social outcomes: A meta-analytic review of the effects of violent and prosocial video game play. Personality and Social Psychology Bulletin, 40, 578-589.

3 Cfr. con Tatar, M. (1998). “Violent delights” in children’s literature. In J. Goldstein (Ed.), Why we watch: The attractions of violent entertainment (pp. 69–87). New York: Oxford University Press.

4 Che, infatti, è il titolo di uno dei brani di Scattle (al secolo David Scatliffe) presenti nel gioco.


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“Ci stai giocando male!”: quando un gioco cambia faccia

“Ci stai giocando male!”: quando un gioco cambia faccia

  • Vito Carluccio

  • 27 luglio 2022
  • noninteragire

– A me quel gioco non è proprio piaciuto, terribile.
– Non capisci nulla, il problema è che ci hai giocato male!

Un dialogo immaginario (e peperino).

Quante volte ci sarà capitato di avere una conversazione simile con qualche amico o amica?
Quante volte siamo stati proprio noi a pronunciare la prima frase? E quante altre volte ci siamo trovati dall’altra parte? Magari inveendo contro quello youtuber che proprio ha sbagliato approccio.

Se è vero che alcuni giochi hanno un game design più rigido e cercano di suggerire fortemente un approccio preciso, è vero anche il contrario. Ovvero giochi dal game design più confuso, meno focalizzato, aperti a nuove interpretazioni e personalizzazioni, magari non contemplate dagli sviluppatori. Questo può davvero far “cambiare faccia” a un gioco, tanto da offrire esperienze diversissime in base alle impostazioni da noi scelte.

The Last Guardian ha un game design preciso e studiato intorno ad una tematica precisa, non possiamo chiedergli di essere un platform rapido e reattivo come Crash Bandicoot

Lo scambio di battute che abbiamo usato in apertura può addirittura presentarsi con maggiore frequenza negli ultimi anni, per via di una tendenza che sta prendendo molto piede, soprattutto nei Tripla A (ma non senza qualche eccezione). Ci stiamo riferendo alle numerosissime impostazioni modificabili, che vengono messe a disposizione del giocatore, e che sono davvero in grado di cambiare la faccia di un gioco, in barba al game design sottrattivo e allo studio del pacing di gioco.
Per chiarire meglio il concetto, è opportuno qualche esempio; solo così sarà possibile edificare le fondamenta per la nostra argomentazione.

Assassin’s Creed Odyssey, e Valhalla, sono tra gli esempi più illustri di questa tendenza. Infatti, gli ultimi due capitoli della famosa serie di Ubisoft presentano una quantità smodata di impostazioni di gioco in grado di personalizzare fortemente la nostra partita: forti modifiche all’HUD (marker, target e segnalini vari); livelli di difficoltà divise per categorie quali combattimento, stealth o modalità di esplorazione; possibilità di decidere se uccidere o meno con attacco furtivo indipendentemente dalla differenza di livello tra noi e i nostri nemici; segnalare o meno la posizione del nostro obiettivo e tanto altro.

Giocare AC Origins, Odyssey o Valhalla senza indicazioni a schermo restituisce tutt’altra esperienza di gioco.

Ubisoft ha riposto molta cura in queste impostazioni, tanto che il gioco presenta dei preset a loro volta modificabili a piacimento. Questa attenzione alla personalizzazione del gioco da parte di Ubisoft non è stata riposta solo nella serie di Assassin’s Creed, ma possiamo trovare un altrettanto alto livello di dettaglio anche in Ghost Recon Wildlands e soprattutto in Ghost Recon Breakpoint. In quest’ultimo è addirittura possibile limitare o eliminare totalmente alcune tipologie di nemici dal gioco.

Ovviamente non solo Ubisoft ha abbracciato e spinto verso queste pratiche, ma anche molte altre software house. In The Last Of Us Part II possiamo scegliere le difficoltà per ben sei categorie diverse: Sfida, Giocatore, Nemici, Alleati, Furtività e Risorse. Il diverso bilanciamento di questi settaggi può cambiare di molto il nostro rapporto con gli scontri a fuoco, con lo stealth e con il level design.

Gli elementi di personalizzazione presenti in Ghost Recon Breakpoint gli permettono di passare da un’esperienza simulativa fino ad apparire come un action coop stile Monster Hunter in cui si va a caccia di robot giganteschi.

Nell’ultima trilogia di Hitman il giocatore può scegliere quante informazioni avere a schermo, se ricevere o meno gli input per far partire le “storie della missione”, di togliere i marker sui nemici o se far comparire o meno la mini mappa. In Sniper Elite 4 e 5 si può perfino preferire quanto vento – e la balistica in generale – possa impattare sui colpi, se tenere la mini mappa, se togliere i marker sui nemici e sugli obiettivi; ancora, è possibile modificare il livello di aggressività e organizzazione dell’intelligenza artificiale nemica, se vedere o meno dove impatterà il colpo e moltissime altre impostazioni di personalizzazione.

Ecco che la brevissima conversazione che ha aperto questo articolo inizia ad avere un’impalcatura molto solida che la sorregge. Ma cosa comporta questa tutta personalizzazione?

Se un gioco consente di mettere mano a così tante impostazioni, e quindi di stravolgerlo completamente, come si può pensare di elaborare una valutazione critica? Qual è il modo giusto di giocare? Gli sviluppatori sono riusciti a tenere tutti i possibili outcome sotto controllo? Quanto è possibile “romperlo”? Come si può dire a un amico che “ci ha giocato male” se gli sviluppatori stessi permettono di cambiare il gioco fino alla sua radice? E in ultimo: possiamo davvero parlare di opere d’arte in questo caso, con tematiche e struttura di game design affine al messaggio, o forse è il caso di parlare di prodotti d’intrattenimento nudi e crudi?

Sniper Elite 4 si stravolge completamente in base alla difficoltà selezionata, giocare con gli aiuti è una passeggiata, priva di sfida. Alzare la difficolta ed eliminare la mira assistita trasforma l’approccio al game e level design.

Sono tante domande, alcune retoriche e altre dalle difficili e controverse risposte; ma sono domande che dovrebbero iniziare a circolare nel settore, soprattutto in quelle sedi in cui si fa analisi critica.
Questo approccio “industriale” al videogioco, da vero e proprio prodotto che si modella sotto il volere del consumatore, apre diverse questioni, tra cui quelle che abbiamo sollevato poc’anzi, e crediamo che sia opportuno iniziare a produrre della letteratura al riguardo, oltre che educare il consumatore.

Tralasciando alcune mosche bianche, molte Software House inseriscono queste opzioni senza tenere sotto controllo gli effetti che hanno sul game design, oltre alla parziale o completa mancanza di spiegazione di tali impostazioni. Poco sopra abbiamo citando Sniper Elite, un gioco che presenta un numero spaventoso di personalizzazioni in grado di stravolgere il gameplay e restituire esperienze nettamente differenti. Il problema però è che queste impostazioni non sono ben spiegate al fruitore, ed è facile ritrovarsi a smanettare tra i menù, con tanto di continui riavvii, proprio per comprendere gli effetti delle scelte.

Scoprire mondi nuovi in mondi esistenti

Vogliamo chiarire che non è nostra intenzione condannare queste pratiche sempre più presenti nei nuovi videogiochi, ma anzi, crediamo che sia arrivato il momento di mettere qualche puntino sulle i, così da attivare una certa coscienza. Crediamo che questi prodotti siano davvero in grado di regalare delle esperienze di livello, e a volte studiare un po’ le impostazioni, confrontarsi e informarsi nei vari gruppi e sezioni reddit può farci scoprire una gemma nascosta in mezzo al fango.

La ricerca online e il confronto tra gli utenti non devono e non possono essere le uniche vie di educazione. Le discussioni nate intorno a queste pratiche potrebbero indurre sempre di più le Software House a completare, spiegando meglio, le varie personalizzazioni. Insomma, l’obiettivo deve essere mirare a un’integrazione strutturale di queste personalizzazioni, cosa che al momento non avviene con larga diffusione.

A volte un gioco che proprio non ci sta piacendo può cambiare totalmente faccia se rimaneggiato dal giocatore stesso. Assassin’s Creed può essere spogliato dalla necessità di raccogliere pelli, erbe e sassi, si può eliminare l’HUD, restituendo un’immagine più pulita e autentica; ciò comporta la possibilità di vagare per i boschi del Nord Europa senza meta, senza mappa o segnalini, ammirando il paesaggio e svolgendo solo le quest che capitano direttamente a tiro, senza stare a seguire il prossimo indicatore, e poi il prossimo, e poi il prossimo.

Arkane è una di quelle poche software house in grado di offrire un grado personalizzazione della difficoltà molto ampio, senza far perdere mai l’identità al game design.

Come abbiamo visto, queste impostazioni di personalizzazione aprono numerosi questioni di forma e sporcano irrimediabilmente le recensioni e le analisi critiche delle riviste di settore. Ma il rovescio della medaglia è una discreta libertà nel plasmare il prodotto sui propri gusti, riappropriandosi di un oggetto culturale che magari non era nemmeno stato pensato per offrire quel tipo di esperienza.

Sei proprio sicuro che Hitman ti faccia schifo? Prova a cambiare la tua esperienza tramite la personalizzazione del titolo, modificando l’approccio; e magari potrai scoprire il miglior sandbox sul mercato.

VC


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Kentucky Road 96: di prospettive su viaggio e libertà

Kentucky Road 96: di prospettive su viaggio e libertà

  • Francesco Farina

  • 22 luglio 2022
  • noninteragire

Kentucky Route Zero e Road 96 sono due videogame profondamente diversi. A onor del vero, esiste un dibattito sulla legittimità stessa dell’attribuzione del termine “videogame” a Kentucky Route Zero, che può più propriamente essere definito un’opera di ludonarrativa1, essendo fornito di un gameplay scheletrico. Ciononostante, è possibile rilevare alcuni tratti comuni ai due titoli, a partire dal fondamentale tema del viaggio. Proviamo allora ad esplorare questi tratti, capendo al contempo come è possibile, forse come è facile, raccontare storie così tanto diverse a partire da elementi associabili.

Il viaggio, la libertà e la dissoluzione dell’American Dream

[DISCLAIMER: l’articolo contiene moderati spoiler su Kentucky Route Zero e Road 96]

Dovrebbe essere già sufficientemente chiaro dai titoli, con il termine Route/Road a fare da trait d’union. Nell’immaginario statunitense (e di riflesso, per forza di cose, un po’ anche nel nostro), il termine Route è quello delle grandi strade che collegano il Paese, ed è dunque metonimia per viaggio, esplorazione, scoperta.

La celebre Route 66, a cui senz’altro anche la Road 96 fa riferimento, è per antonomasia la strada dei sogni e della speranza. È anche, però, la strada di chi scappa e cerca una meta, della fuga per la libertà e di chi è alla ricerca di un fine proprio:

66 is the path of a people in flight, refugees from dust and shrinking land, from the thunder of tractors and shrinking ownership, from the desert’s slow northward invasion, from the twisting winds that howl up out of Texas, from the floods that bring no richness to the land and steal what little richness is there. From all of these the people are in flight, and they come into 66 from the tributary side roads, from the wagon tracks and the rutted country roads. 66 is the mother road, the road of flight.

John Steinbeck, The Grapes of Wrath, Cap. XII.

La Route 66 è anche però nota per il suo declino, sostituito dalle più efficienti Interstate Highways, comportando così il tracollo delle economie delle città che avevano la loro raison d’être proprio nei servizi che potevano offrire al costante flusso dei viaggiatori in transito. Tracce di questo sono riscontrabili addirittura in Cars, il film Pixar del 2006 che ruota intorno alle fortune ormai perse di Radiator Springs, piccolo centro (probabilmente) situato in Arizona, che trova nell’arrivo del famoso protagonista un’occasione di rinascita proprio dopo il crollo della propria economia in seguito al decomissioning della Route 66.

La Route americana è, quindi, sinonimo di speranza e dolore, scoperta ed abbandono, in un dualismo senza fine che è lo stesso delle città che attraversa: dai grattacieli e il degrado di Chicago, fino alla sfavillante California, passando per il decadente Midwest e le polveri degli Stati del sud. La Route è quindi contraddittoria: contiene, insieme alla possibilità di riscatto, il ricordo di una passata grandeur, ma al contempo profuma di sogni infranti e di un futuro scuro. È in questa ambivalenza, in questo mescolio di libertà e fallimento, di salvezza e di agonia – il tutto sotto la lente del viaggio di speranza in una terra desolata e abbattuta dagli eventi – che possiamo trovare il vero punto di contatto tra Kentucky Route Zero e Road 96.

La Route 66 ha colpito profondamente la cultura popolare USA, anche nella musica.

La libertà non è un pranzo di gala

Road 96 è un gioco odiosamente imperfetto. Fortunatamente, è quel tipo di imperfezione che, fra ingenuità di scrittura e approssimazione nel gameplay2, incastona momenti di rara grandiosità. Il gioco tratta di un manipolo di giovani senza nome che, assoggettati a un distopico regime totalitario, provano a fuggire dal Paese d’origine, passando proprio dalla salvifica Route 66 del titolo. Che assurge, quindi, al ruolo di crocevia di tutti i loro percorsi, e di porta della libertà.

Il regime è descritto con pochissimi dettagli di merito: corruzione, campi di lavoro, stampa asservita. La descrizione di Petria, il Paese in cui tutto si svolge, è pensata per non dare indicazioni chiare sulla weltanschauung che anima il feroce dittatore Tyrak. L’assenza di un’evidente ideologia politica non è casuale, ma funzionale alla creazione di un non-luogo summa di tutte le storture di un totalitarismo; l’escamotage è funzionale a porre l’enfasi sulle esperienze personali dei piccoli “senzanome”, i ragazzini in fuga che ci troveremo a comandare.

Gli NPC del gioco ne saranno la croce e delizia, per via delle possibilità narrative che aprono ma anche di una scrittura spesso deludente.

Questa particolare scelta di design ha i suoi pregi. Senza concentrarci sul contrastare l’ideologia del leader, magari mettendoci in mezzo i nostri bias personali, possiamo vivere davvero quello che affrontano i ragazzi: povertà, nostalgia di casa, paura della polizia. Il potere di immedesimazione, in queste circostanze, è ammirevole, tanto da farci davvero interrogare su quanto sia doveroso difendere un giovane sconosciuto con gli stessi sogni di libertà di chi lo controlla, e magari solo un poco più idealista, dagli attacchi di una polizia che, nella realtà, non esiterebbe un secondo a catturare anche il giocatore stesso, mandandolo incontro a morte certa senza possibilità di perdono (né da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, né dal permadeath del titolo).

Il susseguirsi di personaggi diversi permette anche un moderata, ma apprezzabile, spazio di role playing all’interno dei molti scenari generati proceduralmente, tutti svolti all’interno di Petria; la quale, nel suo aspetto esteriore, vuole essere una replica degli USA e della Route 66. Con le sue pompe petrolifere, diner, paesaggi che vanno dal deserto ai boschi di conifere, sembra infatti ricondursi agli USA, in una versione particolarmente decadente.

Da un punto di vista estetico i richiami ad una versione particolarmente decadente degli States.

Se quindi il viaggio è al centro del tema del gioco, e se in ogni circostanza non possiamo che sentire l’anelito di libertà che si nasconde dietro i nostri ragazzi e, probabilmente, dietro i developer, una certa povertà di scrittura corrompe gli svariati tentativi di celebrare la libertà vera e propria, e anzi in più di un passo finisce per minare il messaggio sottostante. Tralasciando le incommentabili sezioni di gameplay, aldilà delle macchiette stereotipate che sono i personaggi principali, addirittura andando oltre certi assurdi siparietti comici probabilmente pensati per alleggerire l’esperienza e che risultano al contrario agghiaccianti3, il problema di Road 96 è l’assoluta, infantile schematicità delle “scelte politiche” possibili.

La totale astrazione del sistema politico di Petria aggrava questa situazione, e tutto finisce per sembrare parossistico, perdendo molto presto ogni possibile mordente. La libertà, così facendo, viene svilita e impoverita, ridotta a reclame da volantino. Un gran peccato, considerando gli spezzoni davvero potenti che Road 96 è in grado di regalare in quegli scenari in cui decide di prescindere dalla politica e concentrarsi sulla pura ricerca di salvezza, solidarietà e amicizia all’interno di un viaggio. Una libertà che finisce per essere quindi in parte ben raccontata, in parte platealmente castrata. Diversamente da quanto accade nell’altro titolo di questo approfondimento, e cioè Kentucky Route Zero.

L’avventuroso viaggio verso il civico di fianco

Kentucky Route Zero è all’opposto dello spettro, rispetto a Road 96. Dove Road 96 è concreto, duro e polveroso, Kentucky Route Zero è invece un continuo mistero, un’opera di realismo magico sempre sollevato di un passo rispetto al nostro mondo, ma ancora capace di raccontare la durezza della realtà. Nel suo incedere episodico, i protagonisti ci mostreranno stralci della loro vita e dei segni che ha lasciato sulla loro persona, mentre il viaggio, in questo caso, si intarsierà di eventi man mano più surreali. Si tratterà di piccole cose, piccole realtà che gravitano intorno alla necessità del primo protagonista di realizzare una consegna, l’ultima della carriera, prima della chiusura dell’antiquario per il quale lavora. A lui presto si accompagnerà una donna in cerca di sé, e via via altri personaggi, in un riuscito misto di semplicità umana e irriducibile complessità dell’essere.

Il primo elemento da sottolineare è proprio questo misto di semplicità e astrazione, di dignitosa povertà e al contempo di infinita poesia, che rappresentano un unicum nel medium videoludico. Vengono in mente le parole di Christian Bobin:

Cerco di raccogliere delle cose poverissime, apparentemente inutili, e di portarle nel linguaggio. Perché credo soffriamo di un linguaggio che è sempre più ridotto, sempre più funzionale. Abbiamo reso il mondo estraneo a noi stessi, e forse ciò che chiamiamo poesia è solo riabilitare questo mondo e addomesticarlo di nuovo.

Christian Bobin, Abitare poeticamente il mondo (Le platrier siffleur).

È questo lo scopo di Kentucky Road Zero: riappropriarsi delle cose più semplici e restituire a noi tutta la loro piena statura, pregna di mistero, significato e bellezza. Il contesto che sceglie, per rivalutare il reale, è proprio quello del viaggio. Un viaggio lungo in prima battuta i paesaggi del Kentucky, compromessi e abbandonati sulle vestigia di una altra grande strada, la Interstate 65 che, con la Route 66, condivide Chicago come capolinea a nord.

Dopo le fasi iniziali, il viaggio si sposterà sulle strade di quella Route 0 che dà il nome all’opera: una strada sotterranea, inesistibile, la cui struttura incomprensibile sembra modificarsi ad ogni nostro passaggio, in un crescendo di surrealtà sempre più marcate, fuori dalle possibilità della fisica e della logica. La pacatezza e semplicità dei protagonisti principali di fronte a tutto, con la ferma ambizione di completare la consegna, non farà altro che rafforzare questo senso di profondo mistero diffuso per tutta la durata del titolo, riempiendoci di immagini evocative e di una bellezza antica.

Il viaggio in Kentucky Route Zero è, quindi, molto più mistico e onirico rispetto a quello di Road 96, pur rimanendo radicato nella realtà. Anche in quest’opera, però, il tema della libertà è fondamentale, sia come orizzonte ultimo che, come vedremo, nelle meccaniche. La libertà in primo luogo è quella del principale protagonista, lo sbiadito Conway.

Nel dipanarsi degli eventi capiremo anche il valore che ha per lui quest’ultima consegna, da realizzare in questa misteriosa ed introvabile Dogwood Drive 5. Non si tratta di semplice senso del dovere: Conway vuole completare il suo lavoro per essere finalmente libero dai suoi demoni, dai suoi errori che sembrano assediarlo.

Con la sua estetica Low-Poly, Kentucky Route Zero accosterà sempre situazioni quotidiane e surreali.

Ex alcolizzato, il nostro fattorino lavora per un negozio di antiquariato gestito da un’anziana, con cui sembrerebbe aver avuto impliciti trascorsi. La donna (Lysette, questo il suo nome) ha ormai ineludibili problemi di senilità, e il suo negozio è prossimo alla chiusura. La sua famiglia è ormai morta, e il figlio Charlie è deceduto cadendo da un tetto su cui stava lavorando in luogo di Conway, probabilmente troppo ubriaco per presentarsi al lavoro quel giorno. Con questi presupposti, è chiaro che completare quest’ultima consegna ha un orizzonte liberatorio e salvifico, per il nostro fattorino.

La centralità attribuita ad una azione così banale, in un contesto di aquile gigantesche, barche-mammut e realtà virtuali semi-coscienti, sembra proprio avere la finalità di rimettere la vita vera, le “cose poverissime” di Bobin, al centro del discorso. Lo scopo ultimo è proprio riappropriarsi del mondo che, anche in questo Kentucky Route Zero come in Road 96, sembra ormai perso e di proprietà della pura “funzione”. Tanto perso che gli immensi apparati burocratici hanno ormai fagocitato tutto all’interno della Route 0, al punto che la cattedrale della zona è stata requisita e resa sede per un improbabile “Bureau of Reclaimed Spaces”.

Questo obiettivo, unitamente alla sua estetica low-poly, giocata tutti su luci e prospettiva, ricordano da vicino l’opera fotografica di Fan Ho, artista cino-hongkonghese:

A Fan Ho non importa raccontare lo sviluppo incontrollato, disumanizzante, a seguito di una crescente sovrappopolazione, a lui interessa recuperare lo spirito di una identità collettiva già compromessa. Nelle sue foto non c’è caos né disordine né, come vedrete, sono affollate: pochi soggetti, a volte uno solo, strade pressoché vuote, come a rimarcare la supremazia dell’uomo sul suo contesto.

Giuseppe Cicozzetti – Scriptphotography

La similitudine estetica non è certamente un caso. Non perché gli sviluppatori di Cardboard Computer si siano ispirati a Fan Ho, quanto perché l’obiettivo comune di ridare centralità all’esperienza umana prende, nelle due opere, le stesse strade, vuole raggiungere gli stessi obiettivi.

Le somiglianze estetiche fra Kentucky Road Zero (a sinistra) e Fan Ho (a destra) derivano dalla medesima passione per l’uomo.

Anche in Kentucky Ruote Zero c’è lo spettro dello sviluppo disumanizzante. Uno spettro che prenderà corpo, sconfiggendo Conway, che ricadrà nel demone dell’alcol divenendone letteralmente schiavo, finendo inglobato nei mostruosi ingranaggi di una azienda che produce whisky.

Conway perderà dunque le sue sembianze umane, divenendo un ibrido spettro/automa, di nuovo in un eterno lavoro senza uscita. Ancora: le grinfie del capitalismo senza scrupoli faranno pesantemente capolino nel racconto del crollo di una miniera e delle relative tragiche conseguenze sulle comunità intorno alla Route Zero. Ciononostante, lungo la sua interezza, Kentucky Route Zero non smette mai di esternare un gusto pieno per la vita, anche nelle sue sfaccettature più dolenti e tragiche, che proprio nella semplicità della quotidianità, all’interno di una comunità sempre più allargata che esplode sul finale, sembra reclamare quel recupero dell’identità collettiva apparentemente compromessa dal disastro avanzare degli eventi.

La regalità sociale della quotidianità

C’è un secondo spiraglio di libertà, che si apre nel procedere dell’avventura. Una libertà più sottile, che si contrappone direttamente alla “castrazione” della libertà descritta per Road 96. In Kentucky Route Zero non c’è una vera e propria “possibilità di scelta”: è possibile, piuttosto, scegliere fra diverse opzioni di dialogo che, anzichè impattare sullo sviluppo della trama, saranno specchio della nostra attitudine all’esperienza.

Fin dal principio, e in misura crescente rispetto all’aggiunta di altri compagni, le nostre scelte di dialogo parleranno di noi, della nostra fretta di arrivare al punto, del nostro desiderio di scoprire Conway o di comprendere i misteri impossibili della Route 0. Spesso, scegliendo l’opzione di dialogo di Shannon – prima compagna ad aggiungersi a Conway e secondo personaggio per importanza – daremo una scossa di pragmaticità al discorso, laddove Conway si perderà spesso in racconti del passato e domande personali all’interlocutore. Junebug, conturbante cantante dallo stile punk, ci permetterà, con il suo black humor, di commentare umoristicamente gli eventi, mentre il piccolo Ezra, nonostante abbia perso i genitori, potrà sempre portare quello sguardo felicemente infantile sulle più assurde situazioni che ci troveremo ad affrontare.

È qui quindi la libertà di Kentucky Route Zero: non si dimostra tanto nella clamorosità delle scelte, ma si manifesta nel primo sottilissimo crepuscolo dell’impatto della coscienza. Non è un semplice gioco di incastri fra cause ed effetti, ma rivela in noi la nostra attitudine al mondo: Kentucky Route Zero ci mette davanti ad ognuno dei suoi piccoli eventi, banali o mistici che siano, e ci obbliga a spalancarci, scegliendo le risposte in base alla nostra indole, alla nostra curiosità, alla nostra percezione di cosa sia più importante. Siamo chiamati a stare di fronte a questo in maniera quasi insensibile, ma è anche tale opacità a garantire la lealtà della nostra risposta.

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È l’esatto contrario della trasparenza di Road 96: lì dove più era cristallino, infatti, Road 96 cade. La tripartizione delle scelte politiche ci metteva di fronte a scelte chiare, con un esito prevedibile, addirittura sottolineate da rispettivi loghi; giusto per evitare fraintendimenti. In questa sua pretesa di perfezione nel rapporto causa-effetto sta anche il suo peccato originale, la frustrazione della libertà promessa. Non è diverso dalle numerose critiche rivolte alla dialogue wheel di BioWare, che nelle sue velleità di semplificazione e dinamicità si costringeva a ridursi spesso a macchietta, troppo prevedibile e limitante.

Per essere davvero liberi serve qualcosa di più, e forse qualche pretesa di meno. Kentucky Route Zero centra sempre questo obiettivo, nella sua fine poetica e nelle sue mistiche peripezie del quotidiano. Road 96, invece, ci riesce solo a tratti. Nella sua pretesa di raccontare la realtà dei massimi sistemi, scambia troppo spesso la libertà per la retorica: una trappola da cui riesce a sfuggire solo quando si focalizza sui suoi piccoli personaggi.

FSF


NOTE:

1 Lo fa per esempio Stefano Calzati su The Games Machine, in questo pezzo.

2 Sarebbe bastato non mettere le sezioni di gameplay action/puzzle e avremmo avuto un’esperienza drammaticamente superiore. Peccato!

3 A titolo di esempio, a quale scopo inserire uno scenario in cui la corrotta giornalista serva del regime cade dal finestrino dell’auto mentre balla ascoltando la radio?


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