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Cosa ci rimane di Horizon Forbidden West

Cosa ci rimane di Horizon Forbidden West

  • Alfredo Savy

  • 29 giugno 2022
  • noninteragire

Il seguente articolo su Horizon Forbidden West è da considerarsi come continuazione di un dialogo iniziato nel lontano 2017. Pur essendo autonomo, non possiamo che consigliare la lettura di questo precedente pezzo a chi voglia approfondire ulteriormente il collegamento tra il secondo e il primo capitolo della saga di Aloy, soprattutto in termini tematici.


Cinque anni: questo è il tempo trascorso tra i due Horizon, Forbidden West e Zero Dawn. Di acqua ne è passata sotto i ponti – compreso il lancio di una nuova generazione di console – e soprattutto è cambiato chi concorreva, nella finestra di uscita, proprio con il lavoro di Guerrilla. Al tempo che fu, c’è stato il colossale The Legend of Zelda: Breath of The Wild; adesso, l’attenzione è focalizzata – per non dire fagocitata – da Elden Ring, l’opera di From Software che ha ridefinito, una volta e per sempre, il rapporto tra i Souls e l’Open World.

Parlare di Horizon Forbidden West paragonandolo con i titoli a esso contemporanei è un po’, sadicamente, il tratto distintivo della produzione. “Non” è forse la prima cosa che salta in mente quando si discute di Horizon: “non è Zelda”, “non è Elden Ring”. Esiste in primis come negazione: ne sono stabiliti i confini per opposizione, ridimensionandolo di fronte ai capolavori. Questo atteggiamento, forse, ha creato le basi di una subalternità non solo intellettuale, ma addirittura afferente lo spirito con cui il videogioco viene approcciato; e ciò vale sia per i fruitori che per la critica.

Questa volta si va in California.

Non che in questa sede si voglia tirare la volata a Horizon perché è meglio dei due sopra citati, sia chiaro; lasciamo volentieri ad altri questo ingrato compito, e pure di cavarsi fuori dal correlato ginepraio. Epperò, una cosa va chiarita subito: la tempistica di rilascio di Forbidden West – e di Zero Dawn – ha sicuramente inciso nella valutazione complessiva del lascito, e del significato più intimo, dei due videogiochi dello studio olandese. Essere usciti assieme a una coppia di colossi, soprattutto in quanto avvertiti immediatamente come tali da parte del grande pubblico e da chi dovrebbe occuparsi di analisi critica, ha inevitabilmente impattato anche sulla percezione di Zero Dawn e Forbidden West. Ma questo è solo il primo dei due tasselli che compongono quel “non” di cui si scriveva poc’anzi.

A questa trappola, in verità, non è sfuggito nemmeno lo stesso Pop-Eye, che pure fa del rifiuto della hype culture uno dei suoi fondamentali. Abbiamo scritto per Elden Ring ben tre articoli: un provato e una riflessione sul world building a cura di quella penna evocativa che è Vincenzo Vecchio, e il cerebrale apporto di Vito Carluccio, che ha ragionato dell’open world realizzato da Miyazaki e co. Per Horizon Forbidden West, invece? Uno solo, firmato da Giacomo Temperini, in cui doveva pure smezzarsi il palcoscenico con l’altro Horizon, quello targato Playground Games. Dunque non ci sentiamo particolarmente esenti dal fenomeno descritto nel paragrafo precedente, e alla questione “allocazione delle risorse critiche” che abbiamo peraltro sollevato.

In realtà, l’articolo di Giacomo toccava un punto fondamentale. Nella sua disamina, suggeriva che una determinata struttura ludica – e il corrispondente ciclo del gameplay – fossero elementi ricorrenti in molte produzioni moderne, originate più o meno consapevolmente dal concept Ubisoft: Horizon Forbidden West sarebbe una di quelle. Il pattern che si presenta in questi videogiochi è più o meno costante, generando uno stimolo svuota-mappa e differendo le esperienze in base a fattori perlopiù estetici che, quindi, diventano identitari. 

L’estetica techno-cafonal crea un limite percettivo?

Ora, per non scadere in una miserabile autoreferenzialità, bisogna tirare le somme. Il fatto è che, banalmente, i temi a cui si accompagna Horizon Forbidden West sono così esplosivi da non giustificare la narcosi successiva delle varie comunità, anche quelle più impegnate politicamente. Qualcosa fa massa, non torna: e non è possibile risolvere questa perplessità con il solo “erano tutti a giocare a Elden Ring”. O meglio, funziona solo in parte. Ci dev’essere altro: e se i due colpevoli fossero proprio gli elementi distintivi di Horizon, e cioè il deja-vu ludico adottato da Guerrilla e l’estetica techno-cafonal?

La risposta è probabilmente sì. Nel caso di Horizon, la forma ha assorbito il contenuto, decretando la stessa capacità del sequel di Aloy di essere avvertito come veicolo di messaggi importanti. D’altronde siamo spesso portati a prendere sul serio ciò che si prende a sua volta sul serio: un videogioco che si presenta con delle macchine robot all’interno di uno scenario tribale e coloratissimo, beh, da quel punto di vista non aiuta. Eppure, in Horizon Forbidden West viene ripresa e ampliata una prospettiva anticapitalista, già presente nel primo episodio, che qui raggiunge vette davvero importanti e su cui vale la pena di riflettere.

Insomma, ci siamo capiti: la contemporaneità con Elden Ring (e Zelda) ha spostato l’attenzione, mentre il presentarsi prima facie come un baraccone ha fatto il resto. Se il primo aspetto è ormai consegnato alla storia, il secondo può essere invece ancora indagato, allo scopo di prevenire che avvenga ugualmente in futuro. Perché, in Horizon Forbidden West, gli scrittori di Guerrilla hanno calcato così tanto la mano su certi topoi, palesando il proprio pensiero, da far derubricare la mancanza di attenzione collettiva più come a un misto di brutto tempismo e pregiudizio da parte di fruitori e critica che a una mancanza degli autori stessi. Horizon prova a farsi capire; siamo noi a non volerlo afferrare. Non è questione, va sottolineato con forza, di limiti culturali, bensì di atteggiamento.

Tutto questo sfarzo può ritorcersi contro.

L’intento di questo articolo è, quindi, quello di provare a ricostruire i punti di fascino di Horizon Forbidden West, emancipandolo dall’aura di mero giocattolone – che pure in parte è – evidenziando sia quello che dice che come lo dice, cioè l’espressione di quel messaggio attraverso l’impalcatura videoludica. 

Più che nell’Ovest proibito andremo nel Sud lecito. E sì, questo è un modo carino per chiedervi di continuare a leggere più in basso.

Un’oncia di azione vale quanto una tonnellata di teoria

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER su Horizon Forbidden West]

Verbena, un’ereditiera; Stanley Chen, imprenditore e visionario; Gerard, uno degli uomini più ricchi della Terra e alla guida di un conglomerato industriale; Erik, proprietario di un’agenzia militare privata. Questa lista di proscrizione non contiene altri nomi che quelli degli antagonisti di Horizon Forbidden West, i cosiddetti Zenith. Una banda di capitalisti senza controllo, a cui va ad aggiungersi Tilda van der Meer, mecenate e buco nero dell’egoismo mondiale, incarnatosi incredibilmente in una singola donna. Al videogiocatore, gli scrittori di Guerrilla propongono come nemici, avversari, pericolo per la vita biologica stessa, le persone più facoltose del pianeta. Che vengono dipinti, pur con qualche intermezzo democristiano – tra cui figura la quest di Alvaquali veri e propri mostri.

Dopo un primo capitolo che, nemmeno tanto timidamente, aveva già avanzato critiche profonde nei confronti delle figure messianiche à là Elon Musk – di cui Ted Faro costituisce una protesi videoludica, voluta o nata da una combinazione decisamente troppo fortunata per credere che non sia così- e diventate un po’ il simbolo di questa new wave del capitalismo mondiale contemporaneo, nel sequel Guerrilla ha alzato il tiro. E di parecchio. Horizon Forbidden West sembra quasi voler investigare nella dimensione antropologica del capitalista, disegnandolo come un soggetto lacerato all’interno e logorato dal suo immane istinto di appropriazione. Un’appropriazione che lo rende non solo tanto egoriferito da dubitare della sua salute mentale, ma anche profondamente disumano.

Gli Zenith, meglio morti che vivi.

Abbiamo di fronte, quindi, qualcosa di molto simile a quello che Helen Hindpere e compagni (nel senso più pieno del termine) avevano fatto dire a un certo personaggio, in un certo videogioco:

The mask of humanity fall from capital. It has to take it off to kill everyone — everything you love; all the hope and tenderness in the word. It has to take it off, just for one second. To do the deed.

da Disco Elysium, ZA/UM, 2019

La stessa violenza perpetrata da Aloy sembra quindi cambiare le coordinate di senso, e non esistere più solo in quanto potenza distruttiva legata alle esigenze del videogioco e del videogiocatore, ma come vero e proprio atto di autodifesa. Il che richiama altre parole, questa volta di un – purtroppo – non famosissimo pensatore italiano:

(…) perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a lavorare per lui ed a servirlo, l’altro se vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati.

Errico Malatesta, Pensiero e Volontà, 1924

Il mondo di Horizon è profondamente tormentato dalle remote scelte sbagliate di un sistema fallato, che per inseguire il profitto aveva condannato il pianeta già in passato; e ora torna in tutta la sua ferocia, direttamente dalle stelle. Atterra su un nuovo-vecchio mondo per decidere, ancora una volta, le sorti di qualcosa che aveva già distrutto. E allora, davanti a un debito che non spetta pagare, di fronte alla subiezione intrinseca ai padroni, non rimane altro che reagire. In questo senso, Horizon appare come un videogioco marcatamente europeo.

Questo passaggio richiede un approfondimento ulteriore. Mentre Horizon Forbidden West da un lato si fa portatore di istanze progressiste, e cioè utilizza il mondo fittizio per veicolare messaggi riguardo l’identità di genere, sessuale e l’allargamento dovuto delle cosiddette libertà liberali, dall’altro opera una riflessione che impatta direttamente sul conflitto di classe; o, comunque, sulle difficoltà in cui incappa una comunità dove esiste una forbice molto larga tra chi possiede le risorse e chi, al contrario, le subisce

Aloy è in primo piano, ma esistono anche gli altri.

Lo sforzo di operare una sintesi tra le pulsioni individualistiche, tipiche della tradizione anglosassone, e la necessità di configurare l’attività umana anche in senso di collettività, proveniente dall’Est, ha rappresentato il tratto distintivo del Vecchio Continente durante tutto il secondo dopoguerra, se non proprio l’intero secolo breve. Le persone in Guerrilla pare ricordino che i diritti civili, senza diritti sociali, restano diritti individuali.1

Andando più nello specifico, si potrebbe rilevare come l’eccezionalità e la caparbietà di Aloy vengano costantemente riconosciute durante il corso dell’avventura, così com’è sottolineato che non sia tanto il corredo genetico di una persona ma l’insieme di valori e di esperienze, da cui gli stessi sono maturati, a renderla tale (e su questo torneremo poi). Contemporaneamente, Aloy è considerata una pedina necessaria ma non sufficiente, che solo attraverso l’aiuto degli altri, un’organizzazione formata da più persone, riesce a portare a termine il proprio incarico. 

L’essere umano esiste sia in quanto soggetto dotato di qualità uniche e non replicabili, da preservare e curare, sia in quanto corpo inserito all’interno delle formazioni sociali, le cui necessità devono essere tenute in conto e sono necessarie all’avanzamento della specie. Questo è il difficile equilibrio continentale, capace di rigettare un modello basato solo sull’esasperata soggettività, ma pure quello antiteticamente fondato sull’annullamento della stessa. Lezione, d’altronde, recepita dalle carte costituzionali europee che, accanto alle libertà individuali, accolgono la visione dell’uomo all’interno di organismi complessi (associazione, partiti politici, famiglia ecc.).

Aloy, Tilda e la funzione dell’arte.

Lo squilibrio – questa volta non delle macchine, ma tra queste due forze contrapposte – produce le Tilda van der Meer di questo mondo. E cioè delle persone davvero orribili, che si approcciano all’arte e all’alterità in maniera esecrabile: volendo, cioè, possedere tutto, senza differenze tra quadri e viventi. Eppure la sua bulimia culturale avrebbe dovuto mettere in guardia il videogiocatore; se già Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) aveva avvertito dei cambiamenti percettivi collegati alla modifica del luogo di esposizione dell’opera, trovare dei Vermeer e dei Rembrandt a casa di una ricca opulenta – per soddisfare un solitario godimento – li deforma definitivamente. Diventano, infatti, nient’altro che masturbazione intellettualoide, strumenti di auto-affermazione e non di condivisione; un gioco che si fa per costruire l’immagine di sé.

Non è un caso che, nella meravigliosa scena della galleria privata, ci siano solo dipinti del Secolo d’oro della pittura olandese: il Seicento è anche il periodo della nascita del capitalismo mercantile proprio nei Paesi Bassi, l’antesignano del sistema attuale. Un altro filo rosso, un’eredità che resiste a chi l’ha fisicamente creata; esattamente come Nemesis, lo spirito del capitalismo che si abbatte di nuovo sulla Terra e da cui gli stessi creatori volevano sfuggire. Utilizzando, ancora una volta, il pianeta come mezzo e non fine.

Che fare?

Stabilito quindi ciò di cui parla Horizon Forbidden West, è tempo di investigare come sono espressi questi temi: di sottoporre a critica la struttura ludica e il linguaggio adoperato per veicolare il messaggio.
Prima di farlo, però, è opportuna una digressione. I due piani analitici sono quello esistenziale, quantitativo, e il corrispettivo modale, qualitativo. 

Aloy e Beta; Vermeer e la sua copia.

Più chiaramente: bisogna capire se il lavoro di Guerrilla propone dei temi all’interno nel comparto narrativo tradizionale (cutscene delle quest principali, ad esempio) che sono assenti nel giocato, oppure se, semplicemente, quei temi sono sì presenti ma tendono ad affogare in un mare di contenuti, dispersivo e caciarone. Ci passa la differenza tra raccontare male o non farlo affatto: se un videogioco propone la centralità di alcuni argomenti e poi li ignora clamorosamente per la più gran parte del tempo, non sta curvando il game design in funzione degli obiettivi che si è autoimposto. E viene a mancare quella prospettiva teleologica di cui abbiamo parlato più volte.

Tornando alle considerazioni espresse in apertura di articolo, è fondamentale ribadire che l’accostamento di Horizon Forbidden West a un titolo spazialmente organizzato come Ubisoft insegna, è quantomai condivisibile. Guerrilla ha, però, inserito tracce del discorso che prova a portare avanti in quasi ogni attività, dai collezionabili alle secondarie: ha provato a stringere il cappio dell’offerta ludica attorno all’attività antropica capitalista. La stessa che ha agito sulla biosfera, distruggendola prima e rischiando di farlo nuovamente poi. Insomma, ha spremuto una formula rodatissima – e che dimostra ancora di saper vendere sul mercato – basata sul bigger is better, tentando di renderla compatibile con il comparto narrativo.

Per farlo, ha adottato delle soluzioni classiche basate sui raccordi ludonarrativi. Ad esempio, l’urgenza della missione di Aloy viene raffreddata da Gaia, che sposta la fine del mondo di lì a qualche mese, creando lo spazio per evitare contrasti tra obiettivi del personaggi e girovagare del videogiocatore. Ancora, inizialmente, nel Timore, viene bloccato il ciclo giorno-notte in virtù della presenza di un obiettivo urgente, così da far apparire ogni deviazione rispetto all’impellenza di trama comunque risolta durante una sola giornata. Dopotutto, la stessa rigidità dei sistemi di arrampicata, resi più smooth dai tempi di Zero Dawn ma comunque ben distanti dalla sensazione di totale libertà presente in Breath of the Wild, rinforza l’idea che in Guerrilla abbiano cercato una via mediana tra l’esplorazione fine a se stessa e un’esperienza più focalizzata, per quanto possibile; cosa che si riflette anche sul quest design, e non sempre brillantemente.

L’arrampicata, più croce che delizia.

I due aspetti che però più colpiscono, sono esterni alla tradizione.
Il primo riguarda la potenza narrativa delle boss fight, che acquisiscono un significato importante grazie all’illuminazione fornita dai ruoli dei personaggi; in quella conclusiva, Aloy combatte per non essere ridotta a oggetto, usando violenza contro chi non la considera come una persona. Al contrario, con Erik, l’uso della forza diviene legittimo per sfuggire al braccio armato del capitale, quello che non accetta alcuna mediazione. 

Tornano, insomma, i concetti lacaniani del “discorso del capitalista” e del “discorso del padrone”, con la dialettica ottocentesca, tipica del servo-padrone, che cede il passo a quella della sfrenata corsa all’appropriazione, ben descritto dall’euforismo maniacale di Tilda van der Meer2. La quale, in effetti, vuole possedere la protagonista di Horizon Forbidden West; e così Aloy si ritrova, simbolicamente, a combattere con le due facce storiche del capitale.

L’altro aspetto riguarda le potenzialità delle periferiche per enfatizzare i temi del videogioco, una prospettiva interessante soprattutto per i prossimi anni. Il poter sentire il mondo attraverso le mani grazie al DualSense costruisce, nel videogiocatore, un legame emotivo con la natura, da proteggere e preservare a ogni costo. Far tuffare Aloy nell’acqua caraibica della Baia di San Francisco, ricevere un minuscolo feedback percettivo delle onde che confonde il cervello per un millisecondo, edificando un accostamento con il ricordo di una nuotata vera, crea dei sentieri non ancora battuti. Il dibattito attorno a queste nuove tecnologie si è davvero raramente incentrato sui riverberi narrativi delle stesse, e Horizon Forbidden West inizia a mostrare che possano essere qualcosa in più che mere gimmick.

Sì, dovevate fare di più.

Alla luce di ciò, risulta impossibile sostenere la mancanza esistenziale dei temi nel ventaglio di proposte ludiche, e davvero difficile ritenere la realizzazione così deficitaria da minare la comprensione del messaggio. Al contrario, si aprono scenari riflessivi importanti: Horizon rappresenta le multinazionali che inglobano e rivendono anche le critiche che sono a esse riferibili, come nel caso di Amazon e la serie The Boys, oppure è un cavallo di Troia che utilizza uno schema commerciale gradito alle corp per lanciare un missile? 

E se ci fossimo già detti tutto e, quindi, l’unico modo per ribadire ciò che è importante sia incastonarlo all’interno di un contenitore che, per regola d’esperienza, non sarebbe adatto? Se fosse importante sensibilizzare anche attraverso la locura, perché digeribile da un numero enorme di persone?
Ecco, sarebbe il caso di iniziare a parlarne.

Complesse eredità e differenti percezioni

Come Guerrilla, anche noi decidiamo, in chiusura, di osare un pochino. Com’è universalmente noto, con “Meme”, “Gene” e “Scene” si è soliti riferirsi alle fondamenta della trilogia di Metal Gear Solid, quella composta dai primi tre capitoli e conclusasi, idealmente, con Snake Eater nel lontano 2004. Nella visione di Hideo Kojima, la costruzione del sé passa attraverso il rapporto con tre grandezze in realtà indisponibili al soggetto: la sua genetica (Gene), le informazioni (Meme) e il contesto storico in cui vive (Scene). 

I ringraziamenti di Guerrilla a Kojima Production.

Dopo aver portato a termine le peripezie di Aloy, non è peregrino pensare che il rapporto tra Guerrilla e Kojima Production vada oltre la cessione del Decima Engine e che esista, invece, un’influenza e una stima capaci di estendersi anche ai contenuti. Horizon, tra tutti i Tripla A moderni, è quello che maggiormente riprende gli argomenti di Metal Gear Solid; e non è difficile identificare le tre grandezze appena descritte proprio in Forbidden West. 

La distanza che separa due soggetti geneticamente identici come Aloy e Beta è data dalle esperienze di vita cui sono state entrambe sottoposte, e l’assetto valoriale che è stato, conseguentemente, generato. Non esiste alcun destino manifesto; e nemmeno il possesso dei geni di un altro rende quella persona, dominanti o recessivi che siano. Se già nel primo capitolo Aloy – Snake voleva emanciparsi in tutti i modi dalla predestinazione, qui arriva infine a distaccarsi da Elisabet – Big Boss e dalla sua eredità, quella Outer Heaven creata dal progetto Zero Dawn. Non pianifica un nuovo mondo ma cerca di salvare il proprio, mantenendolo integro dalla minaccia finale.

Dai geni di Liquid e Solid…

Come invece sottovalutare l’apporto delle informazioni nella creazione di una cultura? L’intero corso della tribù dei Quen è segnato da una lettura completamente fuorviante del passato, da una mitizzazione degli avvenimenti e dalla mancanza di accesso a dei dati considerati proibiti. Questo comporta manipolazioni e fanatismi, con importanti ricadute nel presente: addirittura il titolo di Amministratore delegato (CEO) diventa sacrale. Crea una religione, in vece di una comprensione ragionevole dei fatti; e, di converso, modella la società in maniera deforme. La stessa vicenda del database Apollo, finalmente recuperato, assurgerà a un ruolo centrale nel capitolo conclusivo della saga.

Per ultimo, Scene. Ricavata stavolta dal presente – cui Guerrilla ha saputo dare una rinnovata dignità scuotendolo dall’encefalogramma piatto di Zero Dawn – è ben descritta dal ruolo di Regalla, dalla funzione di burattinaio destinata a Sylens e dal concetto di “grand scheme of things” in cui ogni persona ricade, volente o nolente. Le relazioni tra esseri umani sono indirizzate non solo dal corredo naturale e dalle informazioni che generano la percezione delle cose, ma anche e soprattutto dalla realtà dove si è calati; il conflitto tra Carja e Tenakth non è diverso. Una vera e propria Guerra Fredda che si muove tra intransigenza e distensione, e in cui ognuno recita una parte.

…a quelli di Aloy e Beta.

Horizon Forbidden West è, dunque, un gioco interessante e che merita un palcoscenico importante all’interno del discorso videoludico, che sappia ritornare sui suoi pregi ed evidenziare i tanti difetti.

Rispondendo alla domanda (implicita) che dà il nome all’articolo, di questo sequel ci rimane intanto una certezza, che è quella di un importante indirizzo politico-riflessivo adottato da Guerrilla. Ma anche, e soprattutto, un’amarezza: l’abito fa ancora il monaco3. Spetta alla critica spezzare il pregiudizio, o almeno a riflettervi attorno; e ciò vale anche per i titoli colpevoli di aver venduto milioni di copie senza reinventare la ruota.

AAS


NOTE:

1 Questa volta non c’è nemmeno l’ipocrisia di un videogioco che parla di lotta al capitalismo mentre lo studio finisce a chiedere crunch ai propri dipendenti, cosa che Guerrilla non ha fatto.

2 La loro differenza dev’essere compresa entro un indice storico: il godimento, come si dà all’interno del discorso del capitalista, è il regime del desiderio completamente asservito alla logica del capitale, da cui le sue componenti mistiche, rivoluzionarie e utopiche vengono detournées, deviate ed estorte, oppure deformate in modo tale da poter essere messe a servizio della teologia del danaro. Alla mistica dell’amor cortese, «che mai non fina», si sostituisce la ricerca ansiosa dell’ultimo gadget.”
Trovate il resto qui.

3Ci sarebbe da aprire una lunga parentesi sull’accoglienza riservata a Citizen Sleeper (Jump Over The Age, 2022), percepito come una critica molto feroce al capitale mentre è, a conti fatti, assai più morbida di quella presente in Forbidden West. Ma la abbiamo, in parte, già formulata.


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Tunic è una sfida all’abisso della contemporaneità digitale

Tunic è una sfida all’abisso della contemporaneità digitale

  • Francesco Farina

  • 15 giugno 2022
  • noninteragire

La nostalgia è un sentimento controverso. Il rimpianto per il passato può essere infatti dettato, più che da un giudizio di merito su problematiche reali del presente, da un malcelato desiderio di tornare a un periodo più semplice per sé, un non-luogo dove i problemi non erano percepiti, le difficoltà avevano scala ridotta e la morte sembrava talmente lontana da esistere solo per gli altri. Un altro problema della nostalgia è che vende, e come tutto quello che vende è presto mercificata, riprodotta artatamente, svilita. Nel mondo del gaming lo si vede ormai ovunque e continuamente, tanto che è inutile indugiare ad elencarne i casi specifici: il fenomeno è naturalmente vivissimo in tutti i contesti umani.

La nostalgia però può anche essere uno strumento utile, una bacchetta da rabdomante per individuare quanto si sia perso nel tempo, e che meriterebbe di essere recuperato. Tunic nasce precisamente da questo senso di nostalgia, dalla scoperta che nel corso del tempo qualcosa è andato tremendamente perduto. Che cosa sia questa cosa che Tunic prova a recuperare, però, è meno scontato di quanto sembri.

Reinventare la ruota

Intendiamoci: il programmatico recupero del passato è un obiettivo manifesto di Tunic. Basta avere una minimale memoria storica del videogame per rendersi conto di quanto sia chiara l’intenzione di riportare a nuovo un set di meccaniche, platealmente ripreso dai primissimi Zelda per NES, che in tempi recenti è sembrato andare perduto. Che questo sia il desiderio lo si capisce fin dalla prima schermata, fin dal titolo del gioco.1

Per non dilungarci nello spiegarne il perché useremo le dirette parole del creatore stesso di Tunic, Andrew Shouldice:

The core of it was the desire to make a game that captured the same feelings of playing a game as a kid. Say, a NES game. Playing the game, flipping through the manual, and trying to understand this cryptic world. There are lots of games out there that try to evoke nostalgia because they look, and play, and sound like classic games. But it was really that feeling of wonder and exploring the unknown that I wanted to capture.

Andrew Shouldice, intervista a Gamerant.

Il recupero effettuato in Tunic non è quindi cosmetico. Non si fa carne tramite un pretenzioso comparto grafico di stampo retrò né trapiantando tout court usurate meccaniche di gameplay, ma va al cuore della grandiosità dell’esperienza: il senso di libertà e di mistero, la forza della scoperta continua totalmente dipendente dalle scelte e dalle intuizioni del giocatore.

I richiami visivi a Zelda sono costanti per tutta l’avventura.

Ad ulteriore testimonianza della opportunità di questa operazione ci sono le mosse della stessa Nintendo che, nel 20172, dopo un periodo relativamente di stanca della serie Zelda, fece uscire quel rivoluzionario Breath of the Wild la cui grandezza sta, in larghissima parte, nell’aver trasportato nel presente queste stesse peculiarità.

Nostalgia della realtà

La nostalgia di Tunic però non è semplicemente rivolta ad un modo antico di fare videogiochi. Il sentimento alla base è più profondo ed universale, e ci parla di un desiderio di realtà e di fisicità ineliminabile dal cuore dell’uomo, ma che la contemporaneità digitale ostacola e tenta perpetuamente di estirparci.
È questo che rende Tunic un’esperienza pregna e memorabile.

Il coloratissimo mondo di gioco.

In Tunic, questo desiderio di solidità prende diverse forme. La prima e più immediata all’occhio è la veste grafica: il colorato mondo low-poly, con i suoi giochi di luce e la sua struttura a livelli orizzontali sovrapposti, ricorda le sembianze di un diorama o, meglio, di un libro pop-up. L’impatto visivo è quindi straordinariamente plastico, quasi tattile, ed è un ulteriore rimando anche al tentativo di Shouldice di riportare in vita le sensazioni provate durante l’infanzia.

Lavatevi le mani prima di maneggiarlo.

Una seconda e ancor più importante forma di questa ribellione alla tirannia dell’informazione digitale, è l’ormai celebre manuale d’istruzioni presente all’interno del titolo.

Il manuale, composto da una cinquantina di pagine sparse nel mondo di gioco, va ricostruito man mano che si avanza nell’avventura e presenta al suo interno un mare di suggerimenti e indicazioni, tanto sui comandi (facendoci scoprire magari dopo ore di gioco meccaniche disponibili dall’inizio ma quasi impossibili da concepire autonomamente) quanto sulla lore, fornendoci poi mappe, indizi, carezze.

Aldilà dell’originalità della soluzione, la chiave di volta di questo manuale è il suo essere oggetto, oggetto fisico inserito in un contesto digitale. È un libretto vero, fatto di pagine strappate da ricomporre: è sgualcito, scolorito ai bordi, presenta tagli e strappi e appunti in corsivo. È fisico anche nella sua navigazione, che scorre pagina dopo pagina accompagnata da una animazione che vuole in tutto e per tutto restituire la fisicità dell’esperienza.

Presenta, per dirlo con le parole di Byung-chul Han, le caratteristiche di un vero e proprio oggetto e non di una pura informazione digitale:

La parola oggetto viene dal verbo latino obicere, che significa opporre, contrapporre, obiettare. In essa è insita la negatività della resistenza. Originariamente, l’oggetto è qualcosa che mi oppone resistenza, mi si contrappone e mi resiste. […] Gli oggetti digitali non possiedono la negatività dell’obicere. Non li percepisco in quanto resistenza.

da “Le non cose: Come abbiamo smesso di vivere il reale” di Byung-chul Han, Simone Aglan-Buttazzi.

Diversamente dagli oggetti puramente digitali, dunque, il manuale di istruzioni di Tunic oppone resistenza, richiede una conoscenza sensoriale e quasi tattile. Le informazioni di cui si fa portatore vengono scoperte solo impegnandosi in una relazione diretta con esso, perché le indicazioni sono nascoste al suo interno anche e soprattutto per forma non scritta, dato che la lingua parlata (e scritta) nel mondo di Tunic non viene mai tradotta e resterà sempre inintelligibile e misteriosa.

La contemporaneità digitale invece ci impone indicatori, segnali, tutorial, anche wiki dedicate a ogni angolo di umanamente sperimentabile, sottraendo così ogni carattere di riottosità alla realtà e, in ultima analisi, annullando l’altro e derubricando il mistero a residuo del passato. La digitalizzazione è in primo luogo informazione, ubiqua informazione la cui onnipresente disponibilità ha caratteri pornografici.

La qualità dell’obicere viene così a mancare del tutto: Tunic rifiuta questa pornografia del sempre disponibile e la sostituisce con l’erotismo della realtà oggettuale, sempre velata di un mistero irriducibile. La relazione che si crea con il manuale di istruzioni di Tunic ricorda quindi quella descritta da Antoine Roquentin, protagonista della Nausea di Sartre:

Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di piú. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive.

da “La Nausea”, di Jean-Paul Sartre.

It’s dangerous to go alone

La nostalgia della realtà è anche, in Tunic, la nostalgia della comunità. Nei piani di Shouldice vi era proprio anche questo: provare a reinstillare il desiderio di vivere il gioco all’interno di una comunità il più possibile reale e carnale. Con le parole di Harris Foster, Senior Community Manager di Finji, producer di Tunic:

It has a feeling of mystery that I haven’t felt in 15 years. We have the internet now, which makes these things way easier, but Tunic makes you want to get out there and talk to your friends about it.

Harris Foster, intervista a Wireframe.

La misteriosità insita nell’incedere seguendo le indicazioni sommarie del manuale, scritte nel suo linguaggio indecifrabile3, e tutto il progressivo disvelarsi degli aspetti più cupi e tragici del mondo di gioco, fanno venire voglia di comunicare, di relazionarci direttamente con qualcuno per condividere le esperienze vissute e aiutarci nella progressione. È questa la nostalgia di un tempo meno digitalizzato, in cui la nostra relazione con l’Altro, con gli amici di scuola, era una componente fondamentale anche del videogioco stesso.

Foster afferma quello che sembrerebbe un paradosso: Tunic ti fa venire voglia di uscire a parlarne con gli amici sebbene con Internet le cose sarebbero più facili. In realtà, più che un paradosso, è proprio la facilità della Rete a scatenare, in un gioco dall’indole “erotica” e non “pornografica”, il desiderio di condivisione diretta, fisica e reale con l’Altro. In questo senso, Tunic prova a costruire Comunità, ovvero gruppi di persone prossime che si fanno culla di cultura. È l’opposto della community imposta dai giganti del mondo digitale, che della comunità è solamente una mercificazione e commercializzazione, e quindi in ultima analisi uno svilimento.

Aprire quel magnifico portone dorato è uno di quei momenti che vorrete condividere.

Questo tentativo è di nuovo testimoniato dal noto Discord creato dai developer specificatamente per i reviewer, invitati al suo interno prima del lancio. Anche in fase di embargo, evidentemente, Shouldice non poteva concepire Tunic senza la sua dimensione fortemente comunitaria.

Riscoprire per riconquistare

[DISCLAIMER: da qui in poi l’articolo contiene spoiler su Tunic]

La riscoperta della realtà e della comunità non si ferma però né al libretto né all’incoraggiato e suscitato desiderio di relazione con uno o più amici. Nell’ultimo quarto del gioco queste dinamiche si contestualizzano all’interno dell’avventura stessa del nostro volpino protagonista, e riverberano nelle azioni che ci si trova a dover compiere.

Nello scorrere del gioco ci troveremo infatti a perdere letteralmente il nostro corpo fisico, vagando come spettri nel mondo. Durante questa fase il mondo sarà trasfigurato: la palette passerà da vividi colori naturali (su tutti il verde di alberi e prati) a colori elettrici: azzurri e viola che non stonerebbero sulle insegne al neon della Los Angeles di Blade Runner, o ancor meglio nell’universo di Tron. Inoltre, il mondo si popolerà di svariate volpi nostre simili. Questi personaggi sconsolati, sparsi in gran numero nel mondo di gioco, saranno comunque tutte monadi indistinte, e anzi sarà proprio la loro quantità a rafforzare l’effetto di isolamento, in quanto parleranno tutte quel linguaggio indecifrabile già citato.

Così tante persone (o volpi) e così poco da dirsi: enfatizzato dal contesto estetico che fortemente rimanda al virtuale, quello rappresentato è davvero il mondo virtuale delle community, dove ognuno produce sé stesso piuttosto che rapportarsi all’altro.

A salvarci da questo impasse sarà allora la riscoperta di sé e del proprio corpo. Saremo, infatti, chiamati a recuperare le nostre caratteristiche fisiche, i nostri upgrade conquistati nel corso dell’avventura fino a quel momento, in un percorso che culminerà proprio con il riportare mondo al contesto iniziale, permettendoci così di completare la nostra missione salvifica; missione che, per dirsi veramente completa, dovrà di nuovo affidarsi al nostro ormai amato manuale di istruzioni. Esaminandone ogni centimetro potremo infatti scoprire ancora nuovi segreti e indizi, che infine ci porteranno a completare il manuale stesso e sbloccare il vero finale.

Sarà proprio utilizzando il manuale completo che, nelle parole del gioco stesso, potremo “condividere la nostra conoscenza” con l’Erede, il boss finale del gioco il quale, invece di sfidarci a duello, al tocco del manuale riconquisterà il proprio corpo, esattamente come già successo al protagonista. Si inginocchierà, poi, di fronte alla nostra volpe in una posa simile a quella che assumeva subito dopo averci sconfitto in battaglia, quasi perdono di quanto ci faceva morire.

Invece di un cupo duello dal triste destino, dunque, l’epilogo definitivo scioglie la costante ambivalenza del gioco, sempre sospeso fra giocosità e angoscia, e regala immagini di pura letizia, ricche di momenti spesi, in compagnia del nuovo amico trovato, ad esperire il magnifico mondo del gioco, annusandone i fiori, visitandone gli angoli sperduti e a riposando all’ombra dei suoi grandi alberi.

La conclusione di Tunic è quindi il trionfo della realtà e della relazione con l’Altro, contro l’atomizzazione della contemporaneità ultradigitalizzata e strabordante di community. E poco importa che si stia parlando di un videogioco. Poco importa che Shouldice ha provato a fare comunità partendo da Discord, che naturalmente è esso stesso un canale digitale, così come poco importa se, in fondo, il manuale di istruzioni è digitale anch’esso. Ancora: Tunic è distribuito unicamente per via digitale, e pure attraverso il Game Pass, ovvero il canale di distribuzione meno fisico in assoluto, tanto da non darci nemmeno l’effettiva proprietà del titolo.

Gira a destra per girare a destra.

Poco importa, dicevamo: l’esperimento è predigitale nelle intenzioni, anche se il tentativo resterà inevitabilmente ironico. Dopotutto è emblematico che internet, come era ovvio aspettarsi, abbia preso e sputato Tunic, producendosi nelle consuete, minuziose guide che ne violentano gli intenti. Tutto questo sembrerà paradossale, ma come afferma l’anonimo curatore della Fondazione Elia Spallanzani4 molto spesso i cosiddetti paradossi non sono altro che ovvietà mascherate dal linguaggio.
Paradossalmente.

FSF


NOTE:

1 La tunica del titolo è un chiaro riferimento a quella indossata da Link, pressoché identica a quella indossata dalla volpe protagonista.

2 Vale la pena di ricordare che lo sviluppo di Tunic è partito nel 2015, due anni prima dell’uscita di BOTW.

3 Più o meno; in realtà qualcuno dovrebbe averlo decifrato.

4 per esempio in questo pezzo.


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L’amore ci farà a pezzi: da Solanin a Florence, sola andata

L’amore ci farà a pezzi: da Solanin a Florence, sola andata

  • Alfredo Savy

  • 1 giugno 2022
  • noninteragire

Che poi, alle volte, è veramente solo questione di lampi notturni. Di quelle immagini che ti prendono, e non ti lasciano; o almeno non lo fanno per tutto il tempo che si dovrebbe dedicare al sonno. Il problema è il giorno dopo, quando le idee si schiariscono: ciò che era presente alla mente, quel collegamento così palese, non c’è più. Al contrario, diventa leggero e distante. Come quel sogno lontano a cui hai rinunciato, a cui la tua mente ha rinunciato, mentre ricostruiva i fili rossi, le tracce, i legami tra quelle due opere così diverse e distanti tra loro.
Ecco: si può dire che la connessione tra Florence e Solanin resista alla prova della mattina.

Prima le presentazioni, ove mai ce ne fosse bisogno. E le facciamo bene.
Solanin è un manga realizzato da Inio Asano (Buonanotte Punpun, La fine del mondo e prima dell’alba, Eroi), uscito sul mercato nel lontano 2005; Florence è un videogioco, sviluppato da Mountains Studio e pubblicato da Annapurna nel 2018.
Di che parlano? Meglio lasciare che lo spieghi Ian Curtis.

When routine bites hard and ambitions are low

And resentment rides high but emotions won’t grow

And we’re changing our ways, taking different roads

Then love, love will tear us apart again

Love Will Tear Us Apart, da Unknown Pleasures, Joy Division, Factory, 1980.

In questo caso, tirare in causa una delle band post-punk più influenti della storia non è solo un esercizio di stile. Florence e Solanin raccontano della morte dell’amore: e lo fanno in un modo proprio, toccante, con la musica che assume una determinata centralità in entrambi i racconti.

Joy Division live. Prendete nota della regia, servirà.

L’amore ci farà a pezzi, scandiva al microfono il per sempre ventitreenne cantautore di Stretford, UK; ed è di quel farsi fare a pezzi che queste due opere, in effetti, sono pregne. Ma anche del volersi aprire al mondo dopo un trauma, dell’alienazione del lavoro, della voglia di fuga da un certo grigiore, della crescita, della solitudine.

Insomma, a un certo punto i Joy Division si fanno New Order,

I can’t tell you where we’re going

I guess there’s just no way of knowing

True Faith, da Substence, New Order, Factory, 1987.

e la disperazione tipicamente ricollegata alla (fine della) giovinezza si trasforma in saggezza nei confronti dell’ineluttabilità delle cose, nella consapevolezza di godere di quella bellezza dell’estate sapendo che finirà, per poi ricominciare. Quelli che una volta erano Unknown Pleasures, piaceri sconosciuti figli di un inganno generazionale – bugie di una vita che sarebbe lì, pronta a lasciarsi prendere a morsi – assumono la dimensione giammai del rimpianto, ma della lezione intimamente correlata al processo di crescita. 

La violenza della passione e la gioia dell’intimità cedono il passo, in Florence e Solanin, a una riscoperta di se stessi anche e soprattutto grazie al ruolo dell’arte, vero e proprio strumento in grado di permettere l’evasione dalla morte. Quella vera e quella spirituale. Il videogiocatore e il lettore sono messi nelle condizioni di vedere tutto: errori, incomprensioni, fini e inizi. Non gli viene mai restituita una dimensione monodimensionale degli avvenimenti; una tecnica utilizzata anche in Opinioni di un clown (Böll, 1963) – e bisogna tenerlo a mente, visto che questo libro tornerà più volte, nella nostra analisi.

Far parlare il gioco, sempre una buona idea.

Eppure, oltre il messaggio, diviene centrale anche il confronto tra i due mezzi di espressione che quel messaggio, in effetti, lo veicolano. Abbiamo detto che i parallelismi tematici sono tanti e forti: la funzione della musica e dell’arte, la complessità di una relazione sentimentale, il paradigma del cambiamento. Ecco, una disamina che voglia definirsi tale non può evitare di discutere del come, oltre che del cosa. 

 E lo faremo. Oh sì che lo faremo.

Quando sei qui con me

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene spoiler su Solanin e Florence]

Il primo aspetto fondamentale per inquadrare il discorso è la particolare struttura di Florence. Il titolo di Mountains è visivamente organizzato per apparire come una graphic novel, un modo elegante per definire un fumetto auto-conclusivo dai contorni più o meno stabiliti.
Quindi, l’occasione appare particolarmente ghiotta per una comparazione con gli strumenti di questo mezzo di espressione, quelli utilizzati per restituire dei momenti altamente emotivi tramite l’uso sapiente della propria grammatica. Ovviamente, Solanin ne possiede di eccezionali.

Alcuni studi preliminari dei personaggi di Florence.

Su queste pagine, in passato, abbiamo parlato di Unpacking (Witch Beam, 2021) offrendo una soluzione interpretativa fondata su una riedizione dell’effetto Kulešov in salsa videoludica, e definendo di conseguenza una nuova geografia creativa. In questo caso, l’operazione sarà simile ma diversa allo stesso tempo; vogliamo sì evidenziare le peculiarità di queste forme d’arte, ma anche i meccanismi di “aggancio empatico” nei confronti dei fruitori.

Per farlo, è necessario partire dalla definizione di fumetto contenuta in Capire il fumetto (McCloud, 1993), uno dei testi fondamentali per comprenderne il linguaggio.

Juxtaposed pictorial and other images in deliberate sequence, intended to convey information and/or to produce an aesthetic response in the viewer.

Scott McCloud, Understanding Comics, 1983, cap. I

Data la contiguità tematica tra le due opere, possiamo non solo operare un’analisi critica del modo in cui ciascuna di esse organizza la propria messa in scena ma, grazie alla peculiare forma fumettistica di Florence, comprendere cosa succede se – come in effetti è accaduto – esiste un’ibridazione tra linguaggi.
Più banalmente: che ruolo ha il gameplay nella closure fumettistica? 2

Infatti, il lettore mette in atto un processo cognitivo denominato closure 1, in cui dal parziale ricava il totale, dallo speciale il generale, basandosi su una regola derivante dall’esperienza. Il lettore colma i vuoti tra vignetta e vignetta, partecipando in maniera profonda allo svolgimento dell’azione dal punto di vista interpretativo; attribuisce, quindi, tempo e spazio all’azione.

Pur non essendo una prerogativa del solo fumetto, è in questa forma d’arte che la closure trova il suo maggiore ambito di applicazione: è nel non detto che esplode la potenza di questo medium, rappresentato da quello che McCloud chiama, non senza eleganza, “limbo del margine”.

Da ciò consegue che, a seconda del modo in cui le vignette sono associate, si avranno diversi tipi di montaggio che corrispondono, a loro volta, a differenti modi di stimolare la closure. Ed è qui che torniamo a Solanin e Florence.

Fig. 0: Solanin. Montaggio parallelo.

Appare dunque evidente che il perno sia rappresentato dalle immagini: poste in una determinata sequenza, creano una risposta nel lettore. A differenza del cinema, in cui il racconto assume i connotati della fluidità, nel fumetto è proprio l’ordine in cui le vignette statiche si presentano a creare quella sensazione di movimento, e a garantire la fruizione.

Questa stanza non ha più pareti

Per rispondere a questa domanda, è utile partire da due momenti cruciali per gli snodi narrativi di Florence e Solanin, in cui salgono in cattedra la componente musicale e i processi di elaborazione del distacco. Sebbene sia vero che la relazione tra Florence Yeoh e Krish non veda la scomparsa fisica del compagno come quella tra Meiko e Taneda, è altrettanto corretto considerare le evoluzioni della psicologia di coppia che collocano l’esperienza della rottura di una relazione ai primi posti in una potenziale classifica dei traumi esistenziali (Holmes e Rahe, 1967).  

Dicevamo della musica. Florence e Solanin la considerano innanzitutto quale espediente narrativo per rappresentare simbolicamente il collante tra i personaggi, e come vera protagonista sia della fase di innamoramento di Florence che, agli antipodi, di quella di definitiva liberazione di Meiko. Inio Asano utilizza nella scena del concerto finale un montaggio aggressivo e composito, variando da quello cosiddetto definito da soggetto a soggetto a quello da momento a momento. 

Fig. 1: Solanin. Il concerto. Montaggio da soggetto a soggetto.

I movimenti di macchina di Asano sono rapidi e decisi, rappresentando plasticamente la tensione del gruppo, e la loro catarsi. C’è il dolore, l’esaltazione dovuta al ritmo che esplode dalle casse, la rabbia, la concentrazione, lo sbigottimento di chi assiste e, infine, il cruciale passaggio sulla sola Meiko. L’atto smette di essere ripreso nella sua complessità e la matita del mangaka si concentra unicamente sulla ragazza, a cui viene dedicato un fenomenale close-up di un singolo frammento. Sta lasciando Taneda, e questa volta per sempre; il che fa pendant con una vignetta precedente nella quale gli amici – tramite un montaggio diverso, questa volta parallelo – rivedono in lei proprio il giovane scomparso.

Attraverso l’utilizzo di questi espedienti, l’autore giapponese riesce a ricreare una sensazione di dolore espresso tramite l’arte, che assurge a punto cardinale della sintesi spaziale – temporale operata tramite closure. Il lettore non può sentire la musica, ma la avverte; non partecipa attivamente all’azione, ma la riempie di significato; il margine di McCloudiana memoria diventa un urlo senza fine. O, almeno, fino a quando la canzone non finisce davvero, e così la sequenza si conclude.

ig. 2: Solanin. Montaggio da momento a momento.

Al contrario, in Florence la musica segna un attimo di altrettanta liberazione, ma stavolta da un grigiore precedente e ossessivo. Mediante la sola pressione di un comando, il videogiocatore guida la ragazza lungo le note: il telefono si scarica, le cuffie vengono rimosse e si ricollega alla realtà. In questo caso, il gameplay funge da cordone ombelicale tra controllante e controllato, con il primo che riesce a sentire ciò che sente il secondo. 

Realizzandosi il tutto all’interno di una lunga e sola sequenza in movimento, il gameplay annulla la closure propria del fumetto ma amplifica la sensazione di benessere e fissa il momento nel tempo. Ed è incredibile notare come la stessa sequenza, riproposta in maniera rigidamente fumettistica, abbia un impatto e richieda uno sforzo totalmente differente.

Fig. 3: Florence. Senza gameplay, ricostruzione.

Dopo la morte di Taneda e l’addio di Krish, Asano e Mountains ci mostrano una lunga fase depressiva di Meiko e Florence, funzionale poi alla loro rinascita. Un termine comodo di comparazione è proprio il monumentale “Opinioni di un clown”, citato a inizio articolo.

C’è una bella parola: niente. Non pensare a niente. Non al Kanzler o al katholon, pensa al clown che piange nella vasca da bagno, al caffè che gli sgocciola sulle pantofole.

H. Böll, Opinioni di un clown, prima ed. 1963, Mondadori, 2001, cap. XIV.

Lo scrittore tedesco, con periodi cadenzati e un capitolo corto, stuzzica l’immaginazione del lettore e gli regala un quadro straziante di assoluta disperazione, alternando la figura di Maria alla situazione attuale di Hans Schnier. 

Fig. 4: Solanin. Montaggio da scena a scena.

In modo non totalmente dissimile, Inio Asano sceglie un montaggio da scena a scena ma con un singolo soggetto: mentre la giornata trascorre, Meiko rimane quasi immobile, finendo in posizione fetale.
In questo caso, è prodotto un contrasto emotivo: il lettore avverte il passaggio del tempo tramite la closure, ma capisce che Meiko è in uno stato catatonico. La tensione tra questi due elementi fa il resto.

Gli autori di Florence, invece, insistono sull’inversione delle operazioni di trasloco per creare una risposta data dal contrasto con l’inizio della convivenza e il conseguente spacchettamento; in questo caso, il gameplay funge da facilitatore della closure, arricchendo il senso e le coordinate spaziali – temporali.

Fig. 5: Florence. Superamento del lutto.

Perciò, se è vero che da un lato il gameplay costringa lo sviluppatore a condensare alcune sezioni e a evitare frammentazioni per ragioni strettamente ludiche, è altrettanto vero che possieda un impatto non trascurabile in termini di facilitazione dei processi di closure, arrivando ad amplificare certe sensazioni che il fumetto – dal canto suo – cerca di produrre tramite un uso sapiente del montaggio. 

Ma alberi

Come se tutto questo non fosse già abbastanza interessante, Solanin e Florence riescono anche a offrire un contributo alla discussione riguardo l’alienazione riconducibile al lavoro d’ufficio, e all’impatto di una certa macchinosità produttiva all’interno della ricerca esistenziale, tipica del passaggio dalla gioventù all’età adulta.

Come in “Opinioni di un clown” – che, si è capito, costituisce il tertium comparationis di quest’analisi – le dinamiche sentimentali sembrano, a tratti, un escamotage per aprirsi ai grandi temi generazionali e, contestualmente, indagare le dinamiche sociali di una Germania Ovest ipocrita e incapace di staccarsi con il passato, così Florence e Solanin appaiono particolarmente severi nei confronti della dimensione lavorativa3.

Asano tratteggia una condizione umiliante degli uffici e che spinge all’escapismo, nonché una tendenza a giudizi desolanti da parte di famiglia e addirittura coetanei. Florence, attraverso delle piccolissime sezioni di gameplay in cui è chiesto al giocatore di risolvere degli enigmi stupidissimi, cerca di restituire quella ripetitività di fondo del lavoro ad alta intensità e bassa qualifica.

Solanin e la critica al lavoro d’ufficio.

En passant, appare addirittura paradossale che due opere non specificamente orientate a una critica organica dei sistemi capitalistici, siano più efficaci e decise nel trasmettere certi messaggi di altri titoli, che pure quel compito si assumono per scelta.

L’ultimo esempio della categoria è certamente Citizen Sleeper (Jump Over The Age, 2022). Pur esulando da questa trattazione un’analisi più specifica del titolo e rinviando ad altre sedi una descrizione delle sue caratteristiche, non si può fare a meno di notare come un videogioco che parla di capitalismo interplanetario, alienazione e cicli di produzione si riveli poi estremamente accondiscendente nei confronti del giocatore. Così tanto da deviare il messaggio e far apparire il capitalismo delle corp esecrabile, mentre quello etico la società perfetta per ritrovare se stessi, contraddicendo le sue stesse meccaniche.

Florence e l’alienazione.

Ma non divaghiamo e non approfittiamo oltremodo della generosità dei nostri lettori. Se avete amato visceralmente Solanin, allora Florence vi coinvolgerà ed emozionerà; se avete apprezzato Florence, Solanin potrebbe aprirvi le porte di uno splendido mangaka qual è Inio Asano. E, magari, potrebbero offrirvi anche qualche riflessione ulteriore rispetto a quelle del nostro pezzo.

AAS


NOTE:

1 Per approfondire: Saitta, G. (2016). Tra cinema e fumetto: due usi del montaggio. ENTHYMEMA, (13), 75–107. https://doi.org/10.13130/2037-2426/6097

2 Per una definizione quantitativa di “gameplay” raccomandiamo la lettura di questo saggio scritto da Joan Soler-Adillon, che lo definisce come “insieme complesso composto da azioni del giocatore, regole, meccaniche”. Ne abbiamo già parlato in passato nell’approfondimento dedicato a Chinatown Detective Agency.

3 Il che appare paradossale, considerando ciò che è emerso su Mountains Studio e Ken Wong. Per approfondire, qui un ottimo editoriale sulla questione.


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Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?

Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?

  • Vito Carluccio

  • 25 maggio 2022
  • noninteragire

Elden Ring è senza dubbio il fenomeno del momento, un titolo che è stato in grado di far avvicinare un gran numero di nuovi giocatori a questo genere considerato hardcore.
L’elevato numero di vendite raggiunte ha generato anche numerose discussioni riguardo alla sua struttura. Si sono susseguite analisi e lunghi wall of text relativi alla grossa novità introdotta da From Software rispetto ai vecchi capitoli: ovvero, l’open world.

Moltissimi si sono lanciati in lodi sperticate verso l’open world proposto in Elden Ring, arrivando anche a definirlo rivoluzionario e in grado di settare un nuovo standard. Ma è davvero così?

In questa sede analizzeremo le scelte di level e game design di From Software, per capire se effettivamente si può parlare di rivoluzione o meno.

Elden Ring ha senza dubbio convinto la critica, ma è davvero rivoluzionario?

Un Souls a mondo aperto

Possiamo essere d’accordo nel definire Elden Ring “un Dark Souls a mondo aperto”: ma questo non può certamente essere una frase sminuente. L’introduzione dell’open world in una formula consolidata come quella dei Soulslike, non è cosa da poco. Anzi, la scelta di inserire una struttura simile, in un genere così fortemente identitario, non poteva che comportare delle modifiche. Essere un Dark Souls a mondo aperto è un cosa seria e From Software ha accolto molto bene la sfida, introducendo diversi cambiamenti.

Sebbene la cara vecchia struttura del level design, tipica dei Souls, sia forte e pulsante nei cosiddetti “Legacy Dugeon”, il vero stravolgimento di Elden Ring risiede nella struttura del mondo aperto.
L’open world, infatti, si è tirato dietro una serie di modifiche al game design che rendono l’esperienza di gioco assai differente nel genere. Queste modifiche hanno il preciso compito di alleggerire la navigazione della mappa rendendo il gioco molto più accessibile e fluido rispetto al passato. Le numerose differenze sono capaci di fornire un vero e proprio parco giochi al giocatore più smaliziato che potrà sbizzarrirsi con l’incredibile varietà delle build, mai così ricche e personalizzabili.

Mai prima d’ora un Souls aveva avuto un così alta varietà di possibili build, è semplicemente impressionante.

Proprio questa è la chiave della filosofia di Elden Ring: la costruzione di un level design aperto, variegato, enorme e ricco di luoghi stracolmi di ricompense utili ad arricchire le nostre possibili build. Senza, ovviamente, dimenticare di enfatizzare l’anima archeologa dei più curiosi, i quali avranno una quantità smodata di elementi unici e narrativi che permettono di ricostruire la “storia” di quei luoghi affascinanti e antichi.

Le novità strutturali che rompono col passato

Elden Ring presenta una moltitudine di piccole aggiunte o modifiche alla vecchia formula di From Software, ma le basi di tutte queste micro-novità le possiamo riassumere in quattro macro-scelte di design che hanno, in qualche modo, creato una rottura più o meno forte con l’esperienza tipica dei Soulslike:

  • La presenza della mappa
    Per la prima volta in un Soulslike il giocatore potrà visualizzare una mappa del mondo di gioco. Nonostante non sia dettagliatissima, rimane comunque un elemento che permette al giocatore di non sentirsi quasi mai sperduto, isolato e senza una via di fuga. A questo si aggiunge anche la presenza di una bussola nella parte superiore dello schermo che fornisce sempre dei punti di riferimento personalizzabili ed extra diegetici, una grossa differenza nell’approccio all’esplorazione.
  • Il viaggio rapido attivo fin da subito
    Rispetto al capostipite della serie, in Elden Ring abbiamo accesso al viaggio rapido appena riusciamo a sbloccare uno dei numerosissimi checkpoint. Questa scelta precisa permette al giocatore di non dover ripercorrere più e più volte le stesse aree come invece accadeva in Dark Souls o Demon Souls. Il viaggio rapido cambia totalmente il nostro rapporto con il level design, ora non sarà più necessario imparare i vari anfratti ed i passaggi più veloci tra un falò e l’altro, basterà arrivarci solo una volta senza memorizzare i pattern dei nemici e le varie strade e shortcut.
  • Il cavallo
    In continuità con il viaggio rapido e con la presenza della mappa, il cavallo ci permette di vivere lo spazio del level design in maniera molto più rilassata: i nemici riusciranno molto raramente ad accerchiarci e il nostro destriero ci darà quasi sempre un via di fuga. Inoltre, la presenza di un mezzo di spostamento così veloce rende la morte molto meno punitiva: perdere le nostre preziose rune non è più un dramma, la bussola nella parte superiore dello schermo ci mostrerà addirittura il punto esatto in cui trovare le nostre rune cadute. Non sarà più necessario ricordare il level design per poter tornare nell’ultimo posto in cui siamo morti, basterà salire in groppa a Torrent, puntare le rune utilizzando la bussola e correre verso le nostre rune perdute.
  • Mancanza di massicce barriere architettoniche
    Nei vecchi capitoli era sempre molto difficile orientarsi e trovare i passaggi giusti per procedere nell’avventura (finestra rotta di Anor Londo parlo proprio di te), ora invece avremo molto spesso la strada spianata davanti a noi e sarà estremamente più semplice farsi un’idea della conformazione della mappa e della dislocazione dei punti di interesse. Inoltre, ci sarà segnalata anche la direzione vaga degli snodi principali dell’avventura grazie alla scia che fuori esce da alcuni luoghi di grazia.

Tutte queste nuove aggiunte collaborano tra loro per fornire un’esperienza di gioco più accessibile, fluida e non troppo punitiva.

La morte non fa più paura, Torrent ci porterà a recuperare le rune in batter d’occhio.

Il viaggio rapido non ci permetterà più di rimanere incastrati a Petit Londo, accerchiati da fantasmi invincibili per chi è appena arrivato al santuario del legame del fuoco, come poteva avvenire in Dark Souls. Il cavallo ci aiuterà a fare del platforming pericoloso in scioltezza e, in caso di morte, nessun problema: torno subito. La mappa, la bussola e la mancanza di barriere non ci faranno mai sentire sperduti e disorientati come in Old Yharnam. Ora siamo spinti ad esplorare, provare una strada nuova e, se incontriamo dei nemici troppo forti, potremo aggirarli o potremo aprire la mappa, selezionare un altro luogo di grazia e provare un’altra via o un’altra area dalla parte opposta del continente. Non ci sono vincoli stretti.

Niente di nuovo, tanto di tutto e grande maestria

Queste fondamentali modifiche strutturali sorreggono un fine ben preciso e ben pensato: dare al giocatore la libertà di sperimentare, sbagliare, riprovare ed esplorare l’immenso mondo di gioco.

Un game design costruito intorno a questo obiettivo diventa degno di nota grazie alla quantità e alla qualità degli elementi che lo compongono; proprio qui Elden Ring si fa capolavoro e diviene qualcosa in più che “un souls open world”.

Elden Ring ha centinaia di Boss Fight, a volte simili tra loro ma mai davvero identiche. La conformazione dell’arena può cambiare in modo sostanziale uno scontro e durante il corso dell’avventura non mancheranno sorprese in questo senso. La quantità del tutto è spaventosa e senza eguali: armamenti, armature, infusioni, ceneri di guerra, potenziamenti, bombe, oggetti per il crafting, talismani, oggetti unici con abilità attive e passive e chissà cos’altro stiamo dimenticando di citare.

Questa impressionante quantità ci spinge all’esplorazione del mondo di gioco, mai così veloce e accessibile, assumendo un connotato assuefacente proprio grazie alla varietà delle ricompense che possono cambiare totalmente la nostra build e quindi anche il nostro modo di giocare. Ma non solo: la quantità è anche nelle ambientazioni. Ci sono tantissimi luoghi, dungeon, rovine, villaggi, caverne e intere regioni variegate, dettagliate e visivamente impressionanti.

Il gioco presenta oltre 100 boss fight, alcune si ripetono ma ognuno di loro ha una particolarità che aiuta a non sentire il peso della ripetizione.

Questa quantità e questa qualità sono il carburante che rende le quattro macro-scelte di design descritte sopra una macchina perfetta. Un videogioco in grado di offrire un sense of wonder eccezionale che poi sfocia nella concretezza dei numeri delle statistiche della propria build, un lavoro pazzesco.

Arrivando al nocciolo della questione, possiamo dire che sono queste quattro macro-aggiunte, in relazione alla quantità e alla qualità dei vari elementi che rivoluzionano la struttura tipica dei souls like.
Ma davvero possiamo parlare, in Elden Ring, di rivoluzione dell’open world in toto o addirittura di un nuovo standard?

Rivoluzione si o no?

Senza nessun dubbio la struttura open world di Elden Ring ha portato delle sostanziali differenze dalla classica formula dei Soulslike. L’esperienza di gioco ricorda tanto il passato ma le novità nel game design sono talmente profonde da stravolgere l’approccio che il giocatore ha sempre avuto con questo genere. La morte fa meno paura, il level design è più aperto, gli spostamenti molto più veloci e la navigazione delle aree molto meno punitiva.  L’introduzione dell’open world è stata gestita in maniera egregia da From Software la quale è riuscita, anche grazie ad un massiccio riutilizzo di asset e di animazioni, a inserire una quantità impressionate di ogni singola componente che costituisce il core gameplay. Questa stupenda fusione degli elementi è in grado di creare un costante senso di scoperta e di progressione, sia dal punto di vista della lore che dal punto di vista dell’evoluzione del personaggio.

La mappa di gioco è enorme e densa di luoghi, boss, tesori e segreti di ogni sorta, non ci sarà certamente da annoiarsi.

È bene, però, precisare che tutti questi elementi non hanno un valore rivoluzionario nell’approccio all’open world. La quantità del tutto, la bellezza degli scenari, la cura riposta nella progressione e nel senso di scoperta non possono essere parametri capaci creare nuovi standard o di stravolgere la struttura dei mondi aperti. Sono elementi unici, pensati bene e legati ancora meglio in modo magistrale, ma di certo niente di “nuovo” o “mai visto prima”.

The Elder Scrolls: Oblivion introdusse il Radiant IA: un sistema innovativo di routine e intelligenza artificiale per tutti gli NPC che popolavano un RPG open world 3D, ormai sedici anni fa. Assassin’s Creed nel 2007 cambiò per sempre l’approccio spaziale che il giocatore aveva sempre avuto con il level design, grazie ad un sistema di movimento completamente libero e senza nessun ostacolo. L’anno prima Gears Of War rivoluzionava gli shooter in terza persona con un game design costruito intorno ad un sistema di coperture innovativo e sorretto da un enemy design ad hoc. Zelda Breath Of The Wild nel 2017 immise un approccio all’open world stravolgente, basato sui sistemi, con elementi di gameplay emergente, sistema chimico e di progressione totalmente aperto.

Una rissa scatenatasi in completa autonomia grazie al Radiant IA di Oblivion.

Ecco, sono i sistemi che rivoluzionano il videogioco e settano nuovi standard: non è la quantità, la varietà e il bilanciamento di quegli elementi che abbiamo già visto e rivisto.

Elden Ring fa proprio questo: prende alcuni elementi tipici di altri giochi con struttura open world, li utilizza in modo equilibrato, pensato e preciso, e riesce a costruire un vero e proprio capolavoro, che però non rivoluziona nulla.

C’è un valore in tutto questo, c’è maestria nel fondere così bene questi elementi, nel costruire un videogioco così grande e così dettagliato con un piglio autoriale e uno story telling atipico e riconoscibile. C’è tanto di in Elden Ring, ma non c’è la rivoluzione. E va bene così.

VC


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Di regole, meccaniche e agenzie investigative a Singapore

Di regole, meccaniche e agenzie investigative a Singapore

  • Alfredo Savy

  • 6 maggio 2022
  • noninteragire

Uno dei temi più caldi della conversazione videoludica contemporanea, che coinvolge nelle sue premesse anche “Chinatown Detective Agency” (General Interactive co., 2022), riguarda la ripetitività di certi schemi, tanto frequenti da diventare immediatamente riconoscibili ai fruitori. Un creare semplice da parte di chi il videogioco lo sviluppa e che, pressato da certe esigenze di mercato, proprio su quella riconoscibilità, spesso ben ricompensata dagli utenti, inchioda le sue decisioni di game design.

Da questo punto di vista, il videogioco ad alto budget risulta essere spesso ingessato. Più cresce l’investimento, meno si rischia; perciò, in termini di freschezza concettuale, si guarda alla scena indie come àncora di salvataggio – con tutti i “se” e i “ma” del caso.

D’altronde, anche per una questione meramente economica, i potenziali destinatari di questo tipo di videogiochi sono più aperti alla sperimentazione rispetto a un pubblico più generalista e dunque conviene accontentarli. Si chiama segmentazione del mercato, baby (ma pure cogliere due piccioni con una fava).

Disco Elysium, straordinario RPG investigativo.

Nell’ultimo periodo abbiamo assistito a una certa proliferazione di buone idee nell’ambito del cosiddetto “Detective Genre”, il videogioco investigativo (a cui non a caso è stato riservato un panel alla Ludonarracon2022). Sicuramente i due esponenti più preziosi sono “Return of the Obra Dinn” (Pope, 2018) e “Disco Elysium” (ZA/UM, 2019), ma un certo riconoscimento è stato ottenuto, ad esempio, anche dalla città romana di “The Forgotten City” (Modern Storyteller, 2021). Insomma, pare che risolvere misteri sia foriero di una certa creatività.

Proprio su questa scia cerca di inserirsi Chinatown Detective Agency e lo fa in un modo semplice ed elegante, sebbene non propriamente innovativo.
Per utilizzare le parole di Mark Fillon, Creative Director di Chinatown Detective Agency:

As the years progressed, I’ve always wondered why nobody used that mechanic in modern games.

Mark Fillon, Creative Director, dal podcast SIFTER del 30 aprile 2022.

“Quella meccanica” a cui Fillon fa riferimento appartiene a un gioco uscito qualche decennio fa, “Where in the World is Carmen Sandiego?” (Brøderbund, 1985), e da cui bisogna partire per comprendere le radici del game design di Chinatown Detective Agency. Lo scopo di questo titolo era, riassumendo, quello di indagare in giro per il mondo, ostacolando una V.I.L.E. organizzazione criminale: per farlo, serviva una buona dose di nozioni di geografia. Queste ultime erano fornite dal cosiddetto “Libro dei fatti”, un almanacco che riassumeva tutti gli eventi rilevanti nel corso dei decenni, e che veniva allegato al videogioco stesso. 

Insomma, in “Where in the World is Carmen Sandiego?” il videogiocatore doveva utilizzare una fonte esterna per risolvere delle sfide interne; e da questa lezione è nato Chinatown Detective Agency. Come nel titolo di Brøderbund, anche la protagonista Amira Darma verrà sottoposta a una serie di enigmi, risolvibili mediante l’accesso a Internet: il nostro Internet, quello reale. Chinatown Detective Agency si prefigge perciò di allargare lo spazio ludico fino a inglobare quello reale; di sottoporlo alle sue regole. Come vedremo, questo tentativo – e il correlato patrimonio di cui si propone come unico erede – rappresentano un po’ croce e delizia del lavoro di General Interactive.

La versione deluxe di “Where in the World is Carmen Sandiego”. Le influenze sulla UX di Chinatown Detective Agency sono evidenti.

La discussione che apre Chinatown Detective Agency è, forse, più interessante di quanto non lo sia questo buon videogioco. Sebbene nel panorama moderno ci siano stati dei ricorsi sporadici a tale genere di costruzioni ludonarrative – basti pensare al primo Metal Gear Solid dove la frequenza di Meryl si trovava sulla scatola – è innegabile che il ricorso così sistematico, totalizzante, al pescare informazioni esterne sia un tratto distintivo di questo titolo. Ciò comporta, inevitabilmente, una serie di considerazioni sul rapporto tra le strutture che lo compongono, e sui limiti fisiologici di questa impostazione.

Ordinamenti videoludici ed effettività

In un interessante contributo risalente agli anni Duemila, Miguel Sicart presentava una proposta definitoria di “meccaniche” e di “regole” all’interno del videogioco, cercando di risolvere il conflitto tra la scuola, potremmo dire, “formalistica” e quella “pragmatistica” ovvero “deterministica”. 

In effetti, prima della sintesi del Sicart, esisteva (e, da un certo punto di vista, continua a esistere) un certo attrito tra gli studiosi che sostengono vi sia una distanza delle regole dalle meccaniche (Avedon, 1971), rispetto a chi, invece, supporta la sussunzione delle seconde nelle prime (Lundgren e Björk, 2003) oppure identifica tali categorie solo in rapporto agli obiettivi da raggiungere (Järvinen, 2008).

In particolare, nel saggio viene affermato che:

Game mechanics are methods invoked by agents, designed for interaction with the game state. (…) Implicit in this definition is an ontological difference between rules and mechanics. Game mechanics are concerned with the actual interaction with the game state, while rules provide the possibility space where that interaction is possible (…).

Miguel Sicart, Defining Game Mechanics, in Game Studies volume 8, issue 2, December 2008

Pertanto, per “meccanica” si intende lo strumento mediante il quale il fruitore interagisce con la struttura ludica, e per “regola” l’elemento che permette alla meccanica di agire. Partendo da questa modellizzazione si potrebbe dire che la regola legittima la meccanica, la quale non sarebbe altro che una possibilità concreta di interazione.
E quali sarebbero le caratteristiche della regola? La generalità, dato che si rivolge a tutti i fruitori; l’astrattezza, visto che è applicabile a tutti i casi concreti presentii nel videogioco; l’imperatività per l’incapacità del fruitore di sostituirla con un’altra regola, a sua discrezione.

La Regola d’oro di Chinatown Detective Agency.

Da ciò consegue che la regola videoludica non è altro che una norma giuridica, capace di comporre un ordinamento specifico per ogni videogioco; il policy-maker di questo particolare ordinamento videoludico è lo sviluppatore, colui che per definizione detta e collega le regole ai concreti metodi di fruizione, cioè alle meccaniche. Creando almeno un perimetro minimo.

E infatti:

Rules are normative, while mechanics are performative.

ivi.

Ancora, uno dei principi fondamentali di un ordinamento giuridico è il principio di effettività: è effettivo se e soltanto se le norme che lo compongono sono concretamente applicabili 1, e dunque non esistono solo come lettera morta. Ecco il punto: adesso torniamo, finalmente, a Chinatown Detective Agency.

Per risolvere i casi di cui si compone la storia, General Interactive ha – come detto in precedenza – imperniato il suo gioco su una meccanica ben precisa: quella di dover ricercare le informazioni esternamente al titolo stesso. Quest’azione, sebbene prevista da una regola, non può essere in alcun modo controllata dallo sviluppatore, e quindi vale finché vale.
Una norma che si basa unicamente sull’osservanza volontaria del fruitore è manchevole di quella effettività appena descritta; ciò ha importanti ripercussioni sul game design, sia dal punto di vista della solidità che da quello della coerenza. 

In altre parole, General Interactive non può in alcun modo indirizzare il videogiocatore sulla ricerca online – come prevedrebbe la sua stessa regola – invece che sulla soluzione diretta degli enigmi; non può, insomma, regolare il piano della realtà. Non solo: come ammesso dallo stesso sviluppatore, Chinatown Detective Agency sta modificando le query di Google, e talvolta la soluzione agli enigmi compare direttamente nella barra del motore di ricerca, colpendo persino il giocatore in buona fede.

Diciamo no alle generalizzazioni

La questione della fragilità della regola influenza anche il rapporto tra grandezze ludiche e narrative. Senza voler anticipare nulla di rilevante, il racconto di Chinatown Detective Agency ha come perno una rilettura critica del nostro tempo, sapientemente proiettata a quindici anni da ora, nel 2037.

Un esempio della naturale incompletezza di Chinatown Detective Agency: senza Google Maps l’indizio è inutile.

Ovviamente tutto ciò non significa che gli Autori, spesso e volentieri, non rompano la quarta parete per comunicare direttamente con chi è dall’altra parte dello schermo; semplicemente la questione si pone ora su un piano diverso, in quanto Chinatown Detective Agency ingloba ciò che è fuori in ciò che è dentro. È un gioco che vive per definizione di meccanismi eteroderivati, geneticamente incompleto. Da ciò consegue che paragonare un’esperienza di gioco classica, basata sul disinteresse di cui sopra, a un titolo che autorizza espressamente l’attività esterna del videogiocatore, significa approcciarsi male alla questione in termini proprio metodologici.

Si potrebbe, per ultimo, opporre che tutta la faccenda ha rilevanza solo sul piano teorico e per nulla dal punto di vista pratico. Anche questa prospettiva appare criticabile, dal momento in cui ci avviamo, a spron battuto, verso una commistione sempre maggiore tra reale e virtuale, al punto di non poter più distinguere l’uno dall’altro (qualcuno ha detto Metaverso?); da questo punto di vista, è il benvenuto ogni studio, o critica, dei processi comunicativi e di regolamentazione delle attività tra i due piani. 

Mantenendo uno sguardo più focalizzato, invece, si può facilmente osservare come a precise visioni da parte degli studi tendano a corrispondere dei game design più rigidi, onde cercare di piegare il fruitore verso quella che – secondo gli sviluppatori – potrebbe essere una certa linea di autenticità. Ne è un esempio il recente Deathloop che, tra le altre cose, impedisce di salvare durante le fasi che compongono il ciclo: in questo modo si evita il save scumming e si accettano le conseguenze delle proprie azioni, seguendo il flusso disegnato da Arkane. Oppure, provocatoriamente, si potrebbe considerare come meccanismo di effettivizzazione della regola finanche la difficoltà dei Souls, e la conseguente abilità biologica del giocatore per cui non basta solo vedere ma bisogna anche saper fare. 

In Elden Ring la difficoltà rende effettiva la regola?

Insomma, il game design di Chinatown Detective Agency è sicuramente intrigante ma, al fine di separare una presa di posizione netta da un semplice esercizio di stile, è fondamentale inserire dei bilanciamenti che permettano alla regola di regolare i processi di esternalizzazione. Alla luce di ciò, è evidente come la struttura realizzata da General Interactive sia perfezionabile: con una randomizzazione degli enigmi si potevano realizzare run uniche, riducendo la possibilità di appoggiarsi a soluzioni prodotte da altri o di incappare in indicazioni cruciali, favorendo anche il confronto online riguardo gli strumenti per giungere alla conclusione del gioco.

Una struttura del genere avrebbe – infine – reso effettivo anche il ricorso all’aiuto di Mei Ling, un NPC capace di risolvere istantaneamente gli enigmi dopo il pagamento di moneta sonante. Anche in questo caso, la possibilità di ricorrere al web per scavalcare questa costruzione risulta in una mortificazione della stessa. Parafrasando quanto detto proprio dallo sviluppatore nel podcast citato a inizio articolo, la sola speranza che il videogiocatore giochi “pulito” non sembra abbastanza, data comunque l’intenzione di offrire un prodotto anche divisivo, purché stimolante. 

Tra raccordi ludonarrativi e frizioni inconsapevoli

La questione della fragilità della regola influenza anche il rapporto tra grandezze ludiche e narrative. Senza voler anticipare nulla di rilevante, il racconto di Chinatown Detective Agency ha come perno una rilettura critica del nostro tempo, sapientemente proiettata a quindici anni da ora, nel 2037.

La critica ai sistemi capitalistici è molto presente in Chinatown Detective Agency.

Tornano quindi i grandi temi del post-modernismo: accumulazione del capitale, dominio della cultura pop, deregolamentazione, decentralizzazione, accelerazionismo concettuale e fisico, attraverso una specie di venerazione apotropaica del trasporto pubblico (che è, volutamente, al centro di un ramo narrativo). A questa carrellata – non propriamente originale, ma che sicuramente non fa male ribadire al pubblico – troviamo delle peculiarità tipiche della scena di Singapore, come le megachurch. Dopotutto, Chinatown Detective Agency offre un’ottima rappresentazione di un cyberpunk localizzato, che costruisce anche attraverso i suoi personaggi.

Tra tutti questi topoi, a rubare la scena è certamente il collasso del libero mercato quale elemento distintivo del presente di Amira Darma, letteralmente costretta a scavare nel torbido di una società che ha smesso di funzionare organicamente, e da un bel pezzo. Amira è un’investigatrice privata la cui attività principale è, ovviamente, quella di ricostruire la verità partendo da indizi o soffiate varie. L’incastro che General Interactive cerca è quello tra il videogiocatore – che investiga – e il controllo di un personaggio narrativamente collocato nella posizione di investigatrice. In poche parole, la meccanica riflette la posizione del PG nella storia, annullando qualsiasi idiosincrasia. 

Accanto a questa fusione tra azione e ruolo, Chinatown Detective Agency presenta alcuni meccanismi che, su queste pagine, abbiamo talvolta identificato come di raccordo ludonarrativo (per approfondire, ne abbiamo parlato qui). Il più evidente riguarda certamente il tempo, una grandezza che attraversa integralmente il lavoro di General Interactive. Amira ha delle scadenze precise per recarsi a un appuntamento, risolvere un caso o raggiungere un luogo: pena, il game over. Quando il gioco ha un’urgenza lo segnala, e spesso agisce di conseguenza: chiude talvolta gli spazi, bloccando il viaggio in metropolitana se si è, ad esempio, su una scena del crimine.

Insomma, tutto sembra perfettamente allineato: abbiamo una meccanica che riflette la condizione narrativa, e un gameplay che avverte le necessità del racconto riducendo le azioni a seconda di queste. Eppure, proprio partendo dalla concezione del gameplay come “insieme complesso” (Soler-Adillon, 2019), e cioè composto proprio da azioni del giocatore, regole e meccaniche, si può individuare il vero punto di contrasto all’interno di Chinatown Detective Agency. Il fatto che un videogioco parli di fallimento del libero mercato deregolamentato e, per farlo, si affidi a una meccanica basata su una regola osservata in maniera totalmente volontaria dal videogiocatore, appare paradossale. 

Il mancato rispetto di una priorità conduce al Game Over.

Il non aver implementato dei meccanismi correttivi e di effettivizzazione della regola non conduce, quindi, solo alla possibilità che venga spezzato il legame tra azione investigativa e controllo di Amira Darma – che andava probabilmente difeso con le unghie e con i denti in quanto elemento caratterizzante l’intera esperienza – ma si estende a una considerazione più generale. Lo strumento scelto per regolare l’attività del giocatore è lo stesso che si presume fallito, su larga scala, nel 2037 di Chinatown Detective Agency. Ai posteri lasciamo volentieri il dibattito sul fatto che questo tipo di frizione ricada, o meno, all’interno della dissonanza ludonarrativa (ché è sinceramente un po’ stantio). 

A conti fatti, dopo i tanti appunti critici, si potrebbe essere portati a credere che Chinatown Detective Agency sia un brutto gioco. Non è così; l’aver recuperato una meccanica sepolta in un passato arcaico e aver provato a modernizzarla lo configura, almeno, come un tentativo interessante. Forse gli si può imputare di sottovalutare l’ampiezza dello strumento a cui si rivolge per colmare le proprie lacune, che non è esattamente l’almanacco di Carmen Sandiego. 

Eppure vale la pena di provarlo: fosse anche solo per il merito indiscusso di sollevare una discussione interessante in un periodo fiacco, unito a una pixel art deliziosa.

AAS


NOTE:

1 Per approfondire: Santi Romano, L’ordinamento giuridico, ult. ed Quodlibet, Macerata 2018; H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 2000.

2 Probabilmente le microtransazioni corrodono il concetto, soprattutto nell’ambito dei cd. pay-to-win. Fortunatamente, le esperienza single player di questo tipo sono piuttosto limitate. Qui un contributo estremamente interessante sulla dicotomia reale/virtuale negli MMORPG.


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Ci siamo dimenticati troppo presto di Deathloop

Ci siamo dimenticati troppo presto di Deathloop

  • Alfredo Savy

  • 1 aprile 2022
  • noninteragire

La religione dell’istante è un problema della modernità. E pure piuttosto serio.
Ormai almeno una volta al mese fagocitiamo un videogioco, un libro, una serie, un fumetto, un film che viene trattato a destra e a manca come se fosse l’opera definitiva, quella che può avere un lascito fondamentale sia all’interno delle rispettive industrie che nell’immaginario collettivo. Sorpresa: non accade praticamente mai, eppure la società continua a rimanere intrappolata in questo circolo vizioso di subitanea glorificazione e altrettanto repentino abbandono.
Come dite? È un modo più elegante di affermare che siamo tutti bloccati in un loop di consumo? Beh, sì. Ed è piuttosto ironico che a farne le spese – tra i tanti – ci sia finito proprio un titolo che del loop fa la sua meccanica portante: Deathloop, di Arkane Studios (2021).

Fermiamoci un momento. Questa parte dell’articolo va ben ponderata perché è un attimo e si perde il lettore al suono di un poderoso OK BOOMER, con tanto di furioso click in alto a destra (o a sinistra, dipende dal sistema operativo). Un click di disappunto.
Siccome ricevere quest’accoglienza drastica sarebbe un colpo al cuore, puntualizziamo da subito che il tema non è darci di gomito a vicenda rivangando i bei tempi di una volta in cui usciva un capolavoro all’anno ma era veramente un capolavoro mica come oggi. Anzi a dire la verità non ce ne può fregar di meno, ed è un bene che l’industria dell’intrattenimento sia in forma e che sforni prodotti validi con una buona frequenza. 

88/100, altissimo. Persone che ne parlano dopo sei mesi? Quasi nessuna.

Il j’accuse riguarda, invece, i danni che ha portato questo modo di vendere, di commercializzare, che viene ben tollerato dalla stampa di categoria. Ci si aggrappa violentemente al fenomeno di turno, ne si attende messianicamente la venuta, lo si celebra per un lasso di tempo piuttosto ristretto e poi si passa a mangiare l’hamburger successivo. Così è stato anche per Deathloop, appunto. Che ha ricevuto una grossa accoglienza dalle testate nazionali e internazionali, eppure solo qualche mese dopo sembra totalmente sparito dalla discussione, senza che si sia potuta formare una vera critica e un dibattito sui punti di forza (e di debolezza) di questo videogioco.

Eppure ci sarebbe parecchio da dire, su Deathloop. Innanzitutto che è un titolo incredibilmente furbo1, che ha sfruttato la congiuntura di inizio generazione come un’arma affilata e non come un malus, ribaltando il tavolo e rendendo ciò che poteva sembrare un limite un grosso pregio. Poi, che la struttura adottata ha incidentalmente esaltato pure tutte le qualità positive di Arkane, che non sono poche. Infine, che al netto di un modo di raccontare molto traballante, trasmetta un messaggio potente ma con alcune difficoltà nel mostrarsi.

Ah, è pure artisticamente meraviglioso. Vi pare poco?

Friggere il pesce con l’acqua

Qualche tempo fa su questi schermi è comparso un contributo sull’utilizzo di una struttura ciclica all’interno del videogioco, e a cui rimandiamo per le considerazioni generali e i paragoni tra media diversi. Quello che preme sottolineare nuovamente in questa sede, è che tale scelta di Game Design sia particolarmente acuta quando, nel momento di decidere un budget per lo sviluppo di un titolo, si deve tenere in conto che quest’ultimo sarà lanciato su un mercato piccolino qual è quello di inizio generazione. Pur essendo uscito dopo una decina di mesi dal lancio delle nuove console, è impossibile evitare di pensare che la dimensione della base installata (o meglio: la previsione della dimensione della base installata) non abbia influito nella realizzazione di Deathloop. 

Insomma: se sai che i tuoi acquirenti potenziali saranno pochi, puoi fare qualcosa di abbastanza insignificante (sia sul lungo che sul medio periodo) come mascherare una tech demo da titolo completo per mostrare i muscoli dei nuovi hardware, o cercare una soluzione molto intelligente per cavare il ragno dal buco.
Bene, Arkane ha cercato – e trovato – una soluzione molto intelligente.

Letteralmente lo scopo di Deathloop.

La realizzazione della struttura a loop consente, infatti, di riciclare asset e ambientazioni, dando però una consistenza narrativa all’intero impianto. Mediante cambiamenti relativamente importanti nelle mappe – condizioni meteo, ora del giorno, posizione dei nemici, dei boss e del loot – e non particolarmente onerosi da realizzare, si possono costruire degli scenari diversi, la cui staticità è giustificata dall’eterno ritorno dell’uguale. Se si aggiunge a questo disegno il principio dei vasi comunicanti dove i cambiamenti apportati nello scenario A influenzano anche B, C e D, all’interno dei quali è presente una forte espressione del concetto di videogioco sistemico, si capisce perché la ricetta di Deathloop sia quantomeno efficace.

Il level design di Arkane si esprime nella sua forma migliore proprio nel momento in cui è abbinato al concetto di loop. La ripetizione delle mappe permette di acquisire una conoscenza sempre più precisa dei modi di affrontare l’obiettivo, dalle scorciatoie per entrare e uscire dai punti di interesse fino alla posizione degli Eternalisti da affrontare e dei Visionari da eliminare. Il senso di progressione costante è dato dall’infusione delle tavolette e delle armi, che varia l’approccio consentendo di incrociare le meccaniche, con lo scopo di ottenere degli output capaci di andare anche oltre quelli espressamente previsti dagli sviluppatori (caratteristica dei cd. system games, appunto). 

La mappa di Updaam, una delle zone di Blackreef.

Pertanto, la trovata di un Game Design ciclico ha rafforzato i punti di forza della software house francese, rendendo Deathloop un gioco incredibilmente riuscito nel flusso generale e nella costruzione di una curva di crescita coerente, permettendo al fruitore di smussare – loop dopo loop – le proprie debolezze, arrivando a compiere degli omicidi coreografici nel momento in cui la conoscenza gli permette una padronanza perfetta dei sistemi ludici. In effetti, Deathloop riesce in modo così convincente a soddisfare gli obiettivi che si è posto, da indurre a pensare se non sia questa la forma per eccellenza in cui i giochi Arkane trovino la loro massima realizzazione; ed è proprio in Mooncrash di Prey che ne abbiamo altresì apprezzato una forma embrionale.

Paradossalmente, per ottenere questo pacing, lo sviluppatore tende a minimizzare proprio la penalità dell’anello temporale, il cui aspetto negativo consiste nel “temere” la morte quale riavvio e che spinge a giocare in maniera conservativa. Al contrario, la presenza di un numero finito di vite prima del game over, che addirittura si rigenerano a ogni cambio di orario (e quindi di livello), lo avvicina alla frenesia di un arcade game. Questo diventa ancora più evidente nelle fasi avanzate dell’avventura, quando ormai si dispone di un arsenale notevole e di perk che assecondano lo stile che il videogiocatore si è auto-imposto (perché più consono alle sue abilità o più appagante): il muoversi attraverso la mappa con un certo ritmo, conoscendo a memoria ogni anfratto e posizione, rende praticamente impossibile morire e totalmente irragionevole preoccuparsi di questa possibilità. 

Spezza o proteggi il loop. Deathloop contiene una modalità PvP.

Perciò, si potrebbe credere che Arkane a un certo punto abbia sacrificato il loop sull’altare della progressione e del ritmo, trasformando l’intera Blackreef in un parco giochi dove divertirsi a combinare gli strumenti gentilmente concessi dai creatori. Quest’idea sarebbe addirittura rafforzata dalla presenza di una IA poco scaltra e abbottonata, che fa rassomigliare pericolosamente gli NPC avversari a dei birilli, e una conduzione degli accadimenti un pizzico troppo guidata: entrambi questi fattori hanno senso nell’economia complessiva del titolo, ma sviliscono la circolarità dell’esperienza. Sembra, perciò, che già nella sezione mediana della campagna il loop diventi qualcosa che esiste solo sullo sfondo, e che ha un peso unicamente in virtù della conoscenza acquisita in passato: non sarebbe più, quindi, l’elemento centrale del titolo.

Friggere il pesce con Blaise Pascal

A venirci incontro e – almeno parzialmente – a smentire quest’idea, è proprio la funzione della narrativa. Sebbene lo scheletro di Deathloop sia di una semplicità disarmante (uccidi tutti i Visionari in un unico giorno, spezza il ciclo), è il parzialmente detto, e i temi a cui si accompagna, a presentare un certo fascino e colmare alcune problematiche. 

Qualche tempo fa abbiamo discusso di raccordo ludonarrativo sulle pagine di Pop-Eye, definendolo genericamente come l’insieme di strumenti che legano (o cercano di legare) la componente ludica alla narrazione. Bene: è proprio quando si rafforza l’impressione di avvertire un eccesso – fino a diventare quasi totalizzante – del gioco sulle premesse del titolo, nel momento in cui assurge a solida realtà il dubbio di aver smarrito la centralità del loop per poter fruire di un ingranaggio gameplay-istico così intrigante e bilanciato, tramite l’eredità dei perk e delle armi da un ciclo all’altro, che emerge la natura strettamente narrativa di Deathloop. 

Il fruitore, insomma, inizia a capire che cos’è Blackreef e di che cosa parla questo videogioco.
E scopre che è tremendamente simile a qualcosa già detto sul finire del Seicento:

L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte.

B. Pascal, Pensieri, n. 171.

Non esistono, probabilmente, molte realizzazioni più plastiche del concetto di divertissement pascaliano rispetto all’isola in cui è ambientato Deathloop. Un luogo dove vivere l’eternità smarrendosi in essa, perdendo la capacità di ricordare tra i cicli e in cui ci si abbandona all’unica attività che l’uomo è in grado di produrre per non riflettere sui problemi che lo attanagliano: distrarsi. Blackreef è una perenne festa, si crogiola nella ludopatia più esasperata, nel fine a se stesso. Perfino le attività dei Visionari, i mecenati che dirigono il programma AEON, appaiono ricorsive, inconcludenti, velleitarie. In poche parole, futili. E, come nello spartito del filosofo francese, condurranno tutti – senza allarmi – alla morte.

A questo punto, il videogiocatore che inizia a trattare Blackreef come un luna park perché è diventato grande e forte, che scava nelle sue profondità fatte di bunker segreti a mò di Lost (Abrams, Lindelof, Lieber, 2004), che la rivolta come un calzino cercando di migliorare il suo arsenale e le sue possibilità, che se ne fotte della morte, non si sta allontanando dalle premesse concettuali di Deathloop; anzi, le sta espressamente perorando.

È diventato un edonista del gioco ormai modellato a sua immagine e somiglianza, e si rispecchia in esso per sfuggire dalla noia. Insomma, è un Visionario, esattamente come Colt prima del controllo. Ed ecco il nostro raccordo ludonarrativo.

A chi sta parlando, esattamente?

Ancora, è proprio la noia un altro elemento che caratterizza la gente di Deathloop. Viene quindi naturale il paragone con La noia (Moravia, 1960), in cui viene descritto questo stato d’animo:

La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.

A. Moravia, La noia, 1960.

In effetti è proprio il distacco dal reale che genera l’universo di Deathloop, la necessità di separarsi da un mondo probabilmente sul baratro dell’Apocalisse, o che l’ha addirittura superato. Le pedine di Blackreef appaiono come nulla più e nulla meno che annoiati borghesi, la crema di una società finita ma ancora capace di prendersi in giro – almeno nel nostro tempo – fino agli anni Ottanta del volere è potere.

Un ripudio orgiastico (nel vero senso della parola) dell’esistenzialismo, in cui la domanda sul significato dell’esistere è ormai totalmente smarrita. La noia porta con sé addirittura la perdita della memoria; in effetti anche il videogiocatore non sa più cosa ha fatto prima di svegliarsi sulla spiaggia. Solo l’uccisione, intesa come sopraffazione più brutale dell’uomo sull’uomo, permette di ricordare. E, come gli Eternalisti, anche il videogiocatore vuole allontanarsi dalla sua realtà per godere di uno spazio infinito.

Un esempio di narrazione autodiegetica. Divertente.

La stessa estetica di Blackreef, così brillante, positiva e figlia degli anni Sessanta (casualmente il periodo in cui il Moravia rifletteva a sua volta su temi simili) inizia ad apparire presto volutamente dissonante rispetto al cosa si vuole veicolare. Va sottolineato, però, che il messaggio non emerge mai in tutta la sua potenza: Arkane non appare in forma smagliante, e la commistione tra una narrazione fortemente diegetica nei menù e nelle frasi a schermo spesso non comunica bene con lo “show, don’t tell” tipico degli audiolog o dei file di testo. Lo stesso finale si presenta troppo anticlimatico e sintetico, sebbene interessante nei suoi riverberi metanarrativi in cui il gioco viene terminato perché non più divertente.

Friggere il pesce con la Rivoluzione

Il lascito di Deathloop non è, quindi, banale. Non lo è per l’esaltazione di un gameplay perfettamente bilanciato mediante l’uso del loop a cui si accompagnano dei meccanismi sistemici decisamente validi, e men che meno nell’immagine del mondo come luogo ludico dei borghesi annoiati. 

Da questo punto di vista, l’eredità del videogioco di Arkane non può essere sottovalutata: insegna a spezzare una routine, ad assumersi le responsabilità del cambiamento e a reagire. Insegna a fare la Rivoluzione. D’altronde Deathloop, pur mascherandolo abbastanza bene con una narrativa fin troppo diluita e diverse sovrastrutture, rimane un gioco con un certo sottotesto politico.

I Visionari. Artisti, scienziati, imprenditori. Tutti annoiati?

Il termine rivoluzione – dal latino revolutio – indicava inizialmente un movimento degli astri celesti che si concludeva nel punto di partenza, per poi ricominciare: un loop, appunto. È solo nella concezione moderna che ha assunto un significato diverso e antitetico, cioè di rottura dell’ordine delle cose. I concetti di circolarità ed eversione sono legati indissolubilmente; in questo senso, un titolo che parla di rivoluzione, legandola alla rottura di una struttura (anche ludica) ad anello, sembra aver colto decisamente il cuore della questione.

D’altronde non si può non notare come, tra i vari anelli da spezzare, ci sia anche quello del consumo di cui discutevamo in apertura: questo è pur sempre un pezzo sul loop, eh.
Che ha visto proprio in Deathloop una delle ultime vittime di cotanto meccanismo perverso, il quale non permette di focalizzarsi per davvero su qualcosa prima di passare alla successiva. E che ci ha portato troppo presto a dimenticare questo gran lavoro di Arkane.
Adesso, però, è tempo di ricordare.

AAS


NOTE:

1 È talmente furbo da aver riciclato gli asset di Dishonored ponendosi nello stesso universo, come emerge da una presentazione di Bethesda.


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Elden Ring e l’universo difettoso di Hidetaka Miyazaki

Elden Ring e l’universo difettoso di Hidetaka Miyazaki

  • Vincenzo Vecchio

  • 4 marzo 2022
  • noninteragire

In questi ultimi giorni, in campo videoludico, non si fa che parlare di Elden Ring. Era di certo prevedibile, non fosse altro se non per alimentare la bolla mediatica, tipicamente internettiana, che contiene al suo interno le sorprendenti lodi delle recensioni delle riviste specializzate, l’hype smisurato delle community dei fan di vecchia data e addirittura la sete di esistenza dei nuovi adepti alla religione di punizione e redenzione che sacralizza l’esperienza soulsiana.

Era di certo prevedibile anche per il fenomeno fast food che ci spinge tutti a consumare la cultura pop un morso alla volta. Una stortura ormai comune che ha come naturale deriva quella di focalizzare a rango di capolavoro ogni opera nella finestra di uscita della stessa, leccata e subito espulsa senza per forza dover passare per un accettabile periodo di tempo che ne possa gestire la giusta digestione.

Elden Ring è, nel momento in cui scriviamo, nella lista dei migliori videogiochi mai recensiti sulla piattaforma metacritic. Un successo certamente meritato, per le tante qualità del nuovo titolo giapponese, ma che ci spinge paradossalmente a ragionare su un aspetto molto preciso del media videoludico e del processo di sviluppo in generale. Elden Ring è infatti problematico dal punto di vista tecnico.

Tralasciando i problemi di performance come il frame rate ballerino o il vistoso pop-in nell’open world – che possono essere certo parecchio fastidiosi in un videogioco in cui una schivata ti può evitare la morte – vogliamo concentrarci qui sui treni persi da FromSoftware sul piano tecnologico. Quegli aspetti che si considerano ormai scontati pensando alla maggior parte delle software house che gestiscono budget medio-alti, che sono diventati degli standard in parecchi studi di sviluppo. Stiamo parlando di IA, fisica, routine degli NPC (Personaggi Non Giocanti).

Insomma, parliamo degli aspetti che regolano i sistemi del videogioco piuttosto che elementi che rendono perfette le prestazioni. Non vogliamo discutere di grafica insomma, men che meno del sonoro, ma di tutti quegli elementi che contribuiscono normalmente alla buona riuscita della coerenza ambientale di un videogioco. A maggior ragione in un open-world, caratteristica e aggiunta maggiore del nuovo ARPG di FromSoftware.

Controcorrente e controintuitivo

Per addentrarci meglio del discorso prendiamo l’esempio degli NPC: i personaggi non giocanti, in Elden Ring come in tutti i precedenti souls, sono tecnologicamente arretrati rispetto ad altri videogiochi dello stesso genere di appartenenza. Non hanno una routine di vita credibile, non hanno interazioni particolari. Sono gestiti oggettivamente, in maniera rigida e assoluta. Non compiono un’attività diurna o notturna, non lavorano di giorno e riposano di notte come i fabbri di casa Bethesda. Sono in fin dei conti, i più semplici dei pulsanti attivabili che non fanno altro che esistere in attesa del videogiocatore.

Stabilito questo, la giusta prospettiva da cui interrogarsi, secondo noi, è chiedersi in quale contesto si può considerare un difetto. È lecito definirlo come tale anche in un videogioco dove questo tipo di sforzo tecnico non è necessario alla coerenza interna del titolo? Si potrebbe facilmente rispondere di no a mente fredda. Se, per l’appunto, non fagocitati immediatamente da quella bolla mediatica che tutto banalizza in favore di una massimizzazione estemporanea della fruizione del videogioco, a scapito dell’analisi dello stesso.

FromSoftware ha una visione precisa della narrazione, del modo di intendere il world building, delle ere cicliche che si susseguono, della concezione del tempo. Hanno sviluppato negli anni il loro modus pensandi et operandi riguardo l’ARPG, basato sulla visione generalmente austera di Hidetaka Miyazaki. Una concezione che, a scopi narrativi, rende tutto l’ambiente di gioco cristallizzato in una stasi ciclica ed eterna.

Mettiamo da subito una cosa in chiaro: probabilmente la maggior parte delle scelte nei videogiochi sono influenzate dai limiti tecnici. È naturale: creare una qualsiasi opera prevede, presto o tardi, di scendere a compromessi.
Che siano tecnici, di budget, di competenze, poco importa; ogni progetto subisce degli aggiustamenti più o meno importanti rispetto all’idea su carta. 

Miyazaki ha fatto di quel miscuglio di cose – limiti tecnici, limiti della propria software house, le paranoie riguardo la propria concezione del videogioco e le sue idee ovviamente – una sorta di linguaggio che si ripete costantemente in un universo che a sua volta si ripete costantemente.

È come se il mondo immaginato dall’autore giapponese, ogni volta si riciclasse rendendo tutto il processo incontestabilmente coerente con se stesso. Insomma, l’elemento condizionante imposto dal limite tecnico che SquareEnix in una serie come quella di Final Fantasy ha, ad ogni iterazione, superato spesso magnificamente con l’evoluzione tecnologica degli asset, FromSoftware l’ha fatto diventare qualcos’altro incorporandolo nella propria concezione di videogioco.

Teatrale o artificiale

L’incoerenza oggettiva degli NPC, immobili ed eternamente piantati con un chiodo sulla mappa fino a nuovo input, diventa coerente con uno qualsiasi dei mondi di Hidetaka Miyazaki, perché risultano simili, affini allo spirito narrativo dell’ambiente circostante. Tutti quei personaggi si qualificano come assurdi, ciclici – anche e soprattutto da un titolo all’altro, da un’iterazione all’altra – diventando spettri che ritornano ed esistono esclusivamente per il videogiocatore che sa di trovarli in quel preciso posto, di quella precisa mappa, di quel preciso mondo immobile e decadente.

È una differenza di approccio specularmente opposta a quella della maggioranza di software house che invece puntano generalmente alla ricostruzione di un ambiente simulativo il più vicino possibile ad una comune e più generica riproduzione della realtà.

La vita di un NPC può essere davvero molto triste, soprattutto se ha una parte da recitare in un mondo ciclico e infinito.

È come se lo studio di sviluppo giapponese imponesse (in primis al videogiocatore, poi al prescelto ciclico di ogni souls) un teatro con delle quinte (il mondo in rovina), degli attori esitanti e poco convinti (NPC), una via, o viaggio che dir si voglia, di sofferenza da seguire (la punitiva difficoltà e la poco velata depressione cronica che sovrasta ogni aspetto simulato nel mondo di gioco), fino a fare di tutto questo una commedia per lo più muta da riciclare all’infinito.

Miyazaki gioca allo stesso tempo con la disillusione narrativa e diegetica dei suoi personaggi, e infine anche con la sospensione dell’incredulità del videogiocatore stesso. Una sorta di archetipo dunque, uno stampo da riempire ogni volta con una mitologia diversa ma affine a quel mondo. È per questo che FromSoftware fa sempre lo stesso videogioco, con limitate evoluzioni tecnologiche nei suoi titoli.

Ed è, altresì, per questo che certe mancanze tecniche hanno contribuito a modellare parte del linguaggio di FromSoftware. Probabilmente oggi non sarebbe più considerabile un’evoluzione coerente inserire le routine credibili agli NPC in un videogioco come Elden Ring, ma vorrebbe dire quasi cambiare lingua. Il paragone – già suggerito in precedenza – con la serie Final Fantasy, che ha invece sempre puntato all’evoluzione tecnologica costante come sovrastruttura della serie, è più calzante che mai per descrivere il percorso inverso attuato da FromSoftware.

Non si capisce come in effetti, per considerare migliore o più coerente Elden Ring si debba cercare a tutti i costi la cosiddetta evoluzione, che significherebbe in effetti la normalizzazione del world building, la standardizzazione sui canoni occidentali dell’open world. Miyazaki ha imposto nel tempo un linguaggio con cui raccontare il videogioco, il suo. E questa imposizione è passata.

Tutto questo non toglie certamente il diritto di critica al lato tecnico dei titoli FromSoftware, una critica che rimane del tutto legittima e condivisibile. Si vuole solo mettere in luce il fatto che a causa del discorso sul linguaggio derivato di Miyazaki, se anche le flebile evoluzione tecnica dei souls si dovesse per sempre arrestare a quella di Elden Ring, queste stesse mancanze rimarrebbero elementi di linguaggio e non più solo arretratezza tecnica.

Cioè sarebbero da considerarsi alla stregua di mere caratteristiche, cosa che per qualsiasi altra serie diventerebbe una situazione molto più problematica se non un vero e proprio disastro. È davvero molto difficile capire quanto ci sia di voluto in questo processo, probabilmente poco, pochissimo, quantomeno all’inizio della produzione di FromSoftware. Ma tra la necessità di mascherare delle carenze nel campo delle competenze si può comunque notare l’intelligenza nello sfruttare i punti deboli di uno sviluppo.

A dire il vero delle evoluzioni ci sono state nello sviluppo di Elden Ring, o meglio delle involuzioni. Come scrivevamo nell’articolo sulla prova del network test, pubblicato qualche mese fa, FromSoftware aveva a suo tempo fatto opera di sottrazione dal concetto classico di ARPG, estraendo la narrazione, rimuovendo la mappa e così via. Farla tornare in Elden Ring, dove, trattandosi di un open-world, diventa indispensabile, ha significato un rinnegamento mica da poco del concept iniziale di souls.

Una scelta senza dubbio sofferta che ci conferma la volontà ormai chiara, da parte di FromSoftware, di andare da soli per la propria strada anche a costo di contraddirsi.

VV


N.B. La copertina dell’articolo è di u/TheRoverComics mentre le fanart sono di @nikiichi_tobita.


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Amare, ancora, Mass Effect 2

Amare, ancora, Mass Effect 2

  • Alfredo Savy

  • 11 febbraio 2022
  • noninteragire

Lo sguardo di Shepard è rivolto allo spazio profondo. Cerca di raggiungerlo aguzzando la vista, ma è inutile; sono separati dai freddi vetri della Normandy SR2, ancora abbellita dall’araldica del gruppo sovranista umano Cerberus. E da svariate tonnellate di buio, che si esprime – non senza umorismo – attraverso una distanza calcolata in anni luce.

Eppure è proprio da un luogo recondito, lontano da ogni occhio biologico e da ogni scanner di bordo, che sta emergendo finalmente quella minaccia fino ad allora solo sussurrata, incontrata incidentalmente, trattenuta e studiata.
Nell’attesa, tutto ciò che rimane è aggrapparsi a una donna, o a un uomo. Che guarda lontano alla ricerca del segnale che la battaglia stia per iniziare.

Il rapporto con l’ignoto è uno dei punti di fascino di Mass Effect.

Qualunque sia stato il finale di Mass Effect 2 scelto dal giocatore, qualsiasi sia stato l’ordine degli eventi affrontati nel secondo capitolo della Space Opera di BioWare, non può che essere questa la sensazione, l’immagine, che rimane alla mente dopo averlo concluso.
Una figura che scruta l’immensità, per sempre cristallizzata nel momento che precede l’Apocalisse.

E, in effetti, questa è anche la sorte che il destino ha riservato allo stesso titolo. Mass Effect 2 è lì, sospeso. Sospeso tra un primo capitolo di grande impatto, ma forse acerbo nella gestione di alcune scelte di Game Design; e un terzo che ha chiuso, non senza polemiche, l’intera Saga del Comandante Shepard. 

Eppure, Mass Effect 2 è un videogioco che si regge sulle proprie gambe, con delle qualità capaci di superare l’idea che si può averne considerandolo solo come il fratello di mezzo di una grande trilogia. È con questa seconda installazione che il lavoro di BioWare si emancipa totalmente dalle sue ispirazioni cinematografiche, letterarie  Star Wars (Lucas, 1977) e Dune (Herbert, 1965) su tutte – e videoludiche, tra cui emerge, per ammissione stessa degli sviluppatori, Star Control II (Toys for Bob, 1992).

Questa struttura compare alla nausea nelle secondarie del primo Mass Effect.

Si distanzia da esse in grande stile: acquisiscono forza molte tematiche già introdotte in precedenza, quali il rapporto tra sintetici e organici, la convivenza tra culture differenti, l’immobilismo istituzionale come catena, l’incapacità di far fronte in maniera unitaria a un problema comune, la tecnologia, il ciclo della vita e il destino cattivo. Cambia anche l’impatto visivo: si adotta una prospettiva ancora più accelerazionista e dal sapore fusion, disperata, estrema e classica al tempo stesso.
Ma avremo tempo e modo di parlarne; non sarebbe intelligente spararsi tutte le cartucce ora, no?

In realtà, l’aspetto più importante del lavoro di BioWare, nell’elaborazione di un discorso critico, è l’armonia tra le parti che lo compongono. D’altronde un videogioco, come un qualsiasi essere vivente della Galassia di Shepard, è formato da vari organi; in questo particolare linguaggio, però, spesso le funzionalità e le necessità di ognuno di essi si sovrappongono litigiosamente, come in delle pericolose infezioni multisistemiche.
Bene: Mass Effect 2 è dotato di un ottimo sistema immunitario (e dunque non è un Quarian), capace di prevenire i problemi. Ed è da qui che conviene partire con la nostra analisi.

Da dissonanza a raccordo ludonarrativo? Mass Effect 2 come case-study

Prima di incentrare il discorso su Mass Effect 2 ci tocca un po’ di teoria. Nella storia recente di questo medium si è fatto un gran parlare di dissonanza ludonarrativa, una categoria critica che è diventata un po’ come il nero: sta bene con tutto. Soprattutto negli ultimi tempi abbiamo assistito a numerosi tentativi di razionalizzare il concetto, che dal famoso intervento di Hocking su BioShock ha subìto notevoli rimaneggiamenti.

A sparare si spara un sacco. Ora bisogna vedere se ha un senso.

Da tutta questa discussione, emerge che il confine della dissonanza ludonarrativa è assai labile: siamo passati dal definire come tale un’incompatibilità grossolana ed evidente tra le azioni ludiche proposte al fruitore e i temi del videogioco, con l’effetto di quasi dissacrare questi ultimi, fino a elaborarla come un termine generico mediante il quale vengono raggruppate tutte le frizioni tra gameplay e narrazione.

Una di queste incompatibilità è rivelata nel momento in cui dalla main quest si dipana un certo senso di urgenza mentre la struttura ludica – nel significato più pieno di set di regole e metodi di fruizione proposti dallo sviluppatore al videogiocatore – è costruita come se quell’urgenza non esistesse. Ciò provoca uno scollamento tra priorità dell’avatar e del controllante, che è tanto più grave quanto più si lega alle tematiche proprie del titolo (per approfondire: ne abbiamo parlato a lungo nel pezzo dedicato a Cyberpunk 2077).

Estrapolando ciò che sosteneva Markku Eskelinen nell’articolo diventato il manifesto di una certa corrente e appartenente a un discorso molto più vasto,

Se ti lancio una palla suppongo che non la lasci cadere e aspetti fino a quando non inizia a raccontarti delle storie.

Markku Eskelinen, The Gaming Situation.

si potrebbe affermare che sia altrettanto vera l’obiezione secondo cui mettersi a giocare con questa benedetta palla mentre viene urlato che l’appartamento sta andando a fuoco non è proprio una gran pensata.

La minaccia dei Collettori, un potenziale elemento di disfunzionalità.

Alla luce di ciò, sorge un dubbio logico-sistematico: perché non ribaltare la prospettiva e realizzare uno strumento critico capace di definire in positivo il coordinamento tra giocato e narrato?

Da questo punto di vista, Mass Effect 2 può venirci incontro. L’ossatura del titolo è semplice: abbiamo quest principali che riguardano il filone dei Collettori, secondarie incentrate sulla lealtà dell’equipaggio e terziarie simil-incarichi, chiamate missioni N7. In questa costruzione si inseriscono anche i DLC (Firewalker, Overlord, L’Ombra e Avvento) che sono cronologicamente disponibili a essere affrontati in qualsiasi momento dell’avventura, o quasi.

La grande sfida è, quindi, far convivere una minaccia per la Galassia che si presenta come impellente – qual è quella dei Collettori – con la necessità di far giocare il giocatore, e dunque permettergli di affrontare un numero importante di attività organizzate secondo un quest design imperniato su un gunplay in terza persona armi/poteri.

Shepard scavalca una copertura sulla nave dell’Ombra, nel DLC omonimo.

Per la precisione, Mass Effect 2 utilizza tre strumenti che potremmo definire di raccordo ludonarrativo, con il fine di ridurre a coerenza le parti di cui è composto: il principio di giustificazione delle missioni lealtà, la restrizione degli spazi e il dare un peso al tempo quando necessario.

In primo luogo, la presenza di un principio di giustificazione alle missioni lealtà permette di inquadrarle non come strutture meramente ludiche – la cui esistenza è connaturata all’esigenza di offrire intrattenimento al fruitore, dilatando i tempi richiesti al completamento del gioco e all’ottenimento del good ending – ma come un atto potenzialmente dovuto a un equipaggio che si avvia a svolgere una Missione Suicida. 

Raccordo ludonarrativo, Fig.1: Jacob e il principio di giustificazione.

In maniera molto elegante, BioWare fa dire a Jacob Taylor che tutti i membri della Normandy desiderano chiudere con il loro passato prima di avanzare con l’incarico, che vogliono risolvere le ultime faccende in sospeso prima di tuffarsi in un’operazione potenzialmente mortale.
Questa piccola frase, all’apparenza insignificante, muta la posizione di queste missioni in Mass Effect 2: da quel momento non rappresentano più solo dei momenti ludici da affrontare per raccogliere esperienza, salvare un personaggio dalla morte, godere di dialoghi ben scritti o di scontri a fuoco che intrattengono, ma contribuiscono alla sensazione di una fusione tra azione e contesto in quell’azione è inserita.

Il secondo aspetto di fondamentale importanza riguarda la restrizione degli spazi ludici quando la main quest si attiva. Legando lo sblocco delle missioni principali a una progressione generale, e impedendo al videogiocatore di bighellonare per la Galassia se improvvisamente i Collettori iniziano a sequestrare degli innocenti coloni, i Game Designer di Mass Effect 2 sono riusciti a risolvere un problema concettuale del primo capitolo: quello delle missioni di Schrödinger.

Raccordo ludonarrativo, Fig.2: l’Uomo Misterioso ha individuato i Collettori, quindi si va e basta.

Gli incarichi di Feros e Therum, dove rispettivamente una colonia è sotto attacco Geth e Liara T’Soni è dispersa, possono essere cristallizzati, rimandati a data da destinarsi senza che vi siano conseguenze di sorta; ed è consentito dirottare l’attenzione di Shepard su compiti sicuramente meno urgenti come l’esplorazione fine a se stessa.
Quelle situazioni rimarranno lì, bloccate. Ferme. Né morte né vive, fino all’arrivo del giocatore.

Insomma, BioWare ha avuto il coraggio di stravolgere una formula collaudata e di incastrare meglio i contenuti proprio perché ha saputo ragionare sul paradigma del primo Mass Effect, ottenendone uno migliore.

L’ultimo strumento di raccordo ludonarrativo è rappresentato dal peso che il gioco dà al tempo, in una fase cruciale qual è quella posteriore al rapimento dell’equipaggio della Normandy.
Diretta conseguenza logica della restrizione degli spazi precedente, suona più o meno così: se il giocatore rispetta l’urgenza che Mass Effect 2 prevede per quel segmento narrativo, potrà salvare i suoi sottoposti; nel caso in cui non l’avverta come tale li troverà morti. Siamo agli antipodi rispetto alle missioni di Schrödinger precedentemente descritte per il primo Mass Effect.

Raccordo ludonarrativo, Fig.3: Kelly Chambers muore se il giocatore non accetta l’urgenza.

In questo caso, gli autori di Mass Effect 2 hanno ragionato come veri e propri master di un rpg pen and paper, punendo un party che ignora una situazione definita come impellente: ancora una volta le esigenze ludiche e quelle narrative si fondono. Alla luce della limitazione dell’esplorazione precedente, è però possibile pensare che sia una scelta di Game Design ben più consapevole rispetto al meccanismo decisioni/conseguenze che si è soliti trovare in molti giochi di ruolo.

Tale concezione acquisisce un significato ulteriore se confrontata con l’idea di Gameplay Poetico espressa da Mitchell et al. in un articolo comparso abbastanza recentemente su gamestudies.org. Con “Gameplay Poetico” si intende un modello di sviluppo basato sul continuo straniamento (defamiliarizing) del videogiocatore, imperniato su una serie di tecniche tra cui emerge quella dell’informazione imperfetta. Di base, chi è dall’altra parte dello schermo proverà sempre a influenzare il risultato finale cercando di prevedere le intenzioni del gioco; sta quindi allo sviluppatore cercare di rendere quest’operazione il meno semplice possibile. Non si tratta di narratore inattendibile, sia ben chiaro; si tratta di nascondere gli output per generare una sorpresa in chi è dall’altra parte dello schermo e ottenere titoli unici.

Raccordo ludonarrativo, Fig.4: Kelly Chambers è viva se il giocatore accetta l’urgenza.

In effetti, Mass Effect 2 non indirizza in maniera decisa il giocatore, ma lo catapulta in delle situazioni che – almeno nelle produzioni Tripla A – non è spesso abituato a processare. In una blind run, ha solo dei piccoli indizi che lo portano a seguire un certo percorso invece che un altro; e non è semplice capire se concentrarsi su quello che può essere avvertito come un contorno, senza lanciarsi immediatamente al recupero del transponder del portale di Omega-4, possa risultare in un finale positivo o meno. Il fruitore è portato a scegliere senza sapere che sceglie; e per questo risulta incomprensibile la posizione di chi insiste, ancora oggi, a concentrarsi sul bipolarismo buono/cattivo, Paragon/Renegade, sottintendendo una debolezza intrinseca al sistema. Senza rendersi conto, però, che arruolare, fidelizzare, procrastinare e priorizzare hanno un impatto notevole nell’influenzare l’andamento dei fatti, risultando quindi scelte implicite e dotate di una certa pesantezza. 

Ed è dunque importante sottolineare che il modo di ottenere un output migliore sia proprio quello di assorbire i meccanismi di raccordo ludonarrativo, cercando di intuire la volontà degli sviluppatori nell’unire grandezze spesso in conflitto. 

Raccordo ludonarrativo, Fig.5: anche la scoperta della nave dei Collettori comporta una chiusura degli spazi.

Tutto questo discorso potrà apparire forse barocco per alcuni e inutilmente prolisso. In realtà, anche alla luce dei recenti sviluppi dei videogiochi ad alto budget, Mass Effect 2 rappresenta una specie di mosca bianca per la consapevolezza con cui maneggia le grandezze di cui è composto; e la cui fruizione, a più di un decennio dalla sua uscita, continua a rimanere una boccata d’aria fresca.

Ed è paradossale che proprio il suo successore non abbia interiorizzato questa lezione: la presenza di missioni Priorità e, al tempo stesso, di quest missabili nel caso si dia la precedenza all’urgenza che lo stesso gioco segnala, pone Mass Effect 3 concettualmente agli antipodi rispetto alla seconda installazione della Space Opera di BioWare.

Mass Effect 2 è nella sua estetica

Approcciandoci al gioco in maniera un po’ più poetica, non si può fare a meno di notare l’enorme impegno profuso da BioWare nella direzione artistica di Mass Effect 2. Si passa, quasi senza soluzione di continuità, dagli scenari cyberpunk su Illium, la Cittadella e Omega (declinati in maniera tra loro antitetica: degradata l’ultima, borghesi e prosperose le prime due) agli spazi devastati di Tuchanka, con in bella vista le ferite di un conflitto mai sopito, tra calcinacci ed edifici in procinto di crollare.

Estetica biopunk, la nave dei Collettori.

Ancora, attraversiamo flotte migranti tipicamente appartenenti al filone visivo della Space Opera ed egualmente giriamo per i corridoi della Normandy come fossimo nell’USS Enterprise; visitiamo delle colonie umane periferiche, ai margini della Galassia conosciuta, caratterizzate da un tocco industrial. A tutto questo è abbinato il freddo e distaccato metallo delle strutture Geth e le atmosfere biopunk di quelle dei Collettori, con le loro putrescenti costruzioni, composte da materiale organico misto all’acciaio, che si oppongono ai lussureggianti pianeti-giardino incontrati durante il viaggio.

Questo meccanismo di differenziazione estetica è correlato alla necessità di donare un’identità precisa a ogni missione.
Il concetto va chiarito meglio. Il quest design di Mass Effect 2 non è esaltante e, spesso e volentieri, non lo è nemmeno il level design: entrambi si riducono a dei percorsi lineari dove si avanza sparando, come nel più classico degli svuota-stanze. Il gunplay è sicuramente più raffinato rispetto al primo capitolo e la combinazione con i poteri risulta più asciutta e funzionale a variare il ritmo del combattimento, così come è meglio gestito il sistema di coperture; eppure il rischio è che, dopo decine e decine di ore a svolgere di fatto la stessa azione, si ricada in una monotonia di fondo. 

Estetica cyberpunk, Illium.

Questa ripetizione del ciclo non è solo pericolosa dal punto di vista della noia che sopraggiungerebbe con il passare del tempo, ma anche nell’ottica di un potenziale lascito al videogiocatore. Per dirla in altri termini: se la più gran parte delle quest di Mass Effect 2 possiede una struttura simile, c’è la possibilità che si impastino nella mente di chi lo gioca, affievolendone il ricordo e impedendo, sul lungo periodo, di distinguere l’una dall’altra. Gli sviluppatori hanno cercato, quindi, di imprimere un certo carattere estetico a ogni missione, cercando di fissare la memoria attraverso dei repentini cambi di registro.

A distanza di anni, si può dire che la sfida sia stata – almeno in parte – vinta. Stimolando il videogiocatore dal punto di vista visivo e correlando una determinata estetica ai temi morali di cui spesso sono avviluppate le quest, lo studio canadese ha ottenuto un titolo capace di farsi ricordare.

Paradisi tropicali, e velenosi.

La rimozione del Mako e dei pianeti liberamente esplorabili del primo Mass Effect poteva essere una scelta fatale nell’economia complessiva del lavoro di BioWare, in quanto funzionali a variare il passo del gameplay; e non è un caso che, in due DLC – Firewalker e Overlord – ricompaia un veicolo e addirittura uno spazio aperto. Eppure, grazie a una certa perizia nella scrittura di dialoghi e situazioni, il nuovo modello funziona; e l’attenzione di BioWare nel costruire le missioni secondarie è ben lontana dal riciclo di asset – a tratti indisponente – del precedente capitolo. Per non parlare del prologo, una vera montagna russa che sa ancora stupire. 

Oltre a questo aspetto, un ulteriore salto in avanti è dato dall’adozione di una fotografia che vive di contrasti e di un lavoro di inquadrature molto più certosino durante i confronti con i personaggi o in momenti chiave dei singoli incarichi. Mass Effect 2 utilizza straordinariamente bene non solo le cromie ma si diletta anche e soprattutto in vertiginosi close-up, sapendo regalare dei momenti di vero appagamento estetico non certo comuni negli RPG, dove spesso è adottata una regia monocorde e protocollare. 

Prego, ma il tuo problema è stato risolto dieci ore fa e svariati giorni prima. Perché sei ancora qui fermo?

L’unico aspetto negativo di quest’approccio rimane l’eccessivo immobilismo delle mappe-hub, Illium, Omega e Tuchanka, sacrificate sull’altare del primo impatto. Sebbene faccia parte del modus operandi di BioWare anche oltre Mass Effect 2 (basti pensare a Dragon Age: Inquisition), la staticità di luoghi che dovrebbero essere caratterizzati da un notevole dinamismo a un certo punto diventa un problema serio in termini di sospensione dell’incredulità. Al secondo passaggio nei pressi dell’Afterlife, o ancor peggio al terzo, lo sforzo richiesto al fruitore per fargli accettare una scenografia che sa di museo delle cere più che di ambiente vivo, assume i cardini di una pretesa troppo ambiziosa.

Nuovi personaggi e nuove prospettive

L’ultimo aspetto meritevole di nota riguarda l’introduzione, in Mass Effect 2, di un microcosmo di personaggi e organizzazioni appena accennati in precedenza.
Il passaggio di Shepard da orgoglio dell’Alleanza, e primo Spettro umano, ad agente di una pericolosa organizzazione con delle politiche certamente non etiche, comporta un notevole cambio di prospettiva. Nonostante il modo in cui verifichi il distacco dallo status quo sia più o meno traumatico a seconda delle decisioni prese nel finale di Mass Effect, il nostro protagonista si troverà comunque ad agire come cane sciolto e con il fardello di trovare un punto di equilibrio tra la necessità di salvare la Galassia e diventare un pupazzo di privati che vogliono decidere del destino evolutivo di una razza. Oppure a non trovarlo affatto: Shepard può benissimo decidere di sposare in toto la causa di Cerberus, ed è lasciato al giocatore un buono spazio di role-playing all’interno di una struttura comunque piuttosto rigida e story-driven. 

Le distruzioni di Tuchanka, missione fedeltà di Mordin.

Per accompagnare questo ribaltamento, BioWare allarga il supporting cast. L’inclusione di nuovi personaggi come Thane, Jack, Miranda, Samara, Legion e Mordin arricchisce notevolmente il gioco, introducendo delle figure grigie e che cercano di venire a patti con i propri dilemmi personali. Abbiamo, quindi, uno scienziato che ha applicato la visione utilitaristica di Jeremy Bentham al destino di una razza, sacrificando la loro possibilità di procreare sull’altare della felicità della Galassia, costruendo la sua morale sui fatti; un alieno morente che sembra uscito da Blade Runner e cita continuamente la separazione tra corpo e anima (e pure Thomas Hobbes); una Punitore in salsa Asari alla caccia della figlia, serial killer emozionale; un sintetico che combatte tra l’appartenenza totale a una comunità e l’inizio di una individualizzazione del sé; una sociopatica omicida che prova a riprendere il controllo della sua vita dopo essere stata trattata solo come mezzo e mai come fine e che, ironicamente, finisce in un meccanismo di incomprensioni verso l’unica persona con uno stato d’animo simile al suo. Insomma, lo sviluppatore ha proseguito un discorso già iniziato nel 2007, disegnando dei comprimari ancora più profondi rispetto al passato e per questo in grado di farsi apprezzare anche da chi preferisce il primo capitolo al secondo.

Tutto questa caratterizzazione contribuisce a creare delle missioni fedeltà uniche e capaci – insieme al discorso estetico, al raccordo ludonarrativo e al gameplay poetico – di inquadrare Mass Effect 2 come un instant classic di rara coesione tra giocato e narrato. Grazie a delle quest in cui vengono sapientemente riproposti dilemmi come quello del carrello ferroviario, o dell’autodeterminazione, si ragiona su cosa significhi essere genitori oppure fratelli; e le letture intimiste si legano ai grandi temi della fantascienza di genere o della filosofia morale.

Hobbes e character building.

Sullo sfondo, rimane l’annosa domanda della coesistenza tra nati e generati, tra creatori e creati, sulla circolarità della natura e l’estinzione programmata. A giovare di questa rinnovata maturità sono soprattutto i Geth, non più nemici senz’anima manovrati da Saren e dai Razziatori ma una vera e propria civiltà con tanto di scisma interno. Il tutto è inserito in un contesto che richiama un po’ Quella sporca dozzina (Aldrich, 1967) e – più da lontano – I magnifici sette (Sturges, 1960) per quel mood da noi contro tutti.

Qualche nostro affezionato lettore avrà notato che il titolo del pezzo richiama quello che abbiamo scritto, in passato, per The Witcher 2. Come quest’ultimo, anche Mass Effect è sopravvissuto splendidamente al passare del tempo e si approccia alla contemporaneità con delle lezioni importanti e, forse, troppo sottovalutate dal Game Design moderno.

Ma c’è ancora qualcosa da dire. Magari, oltre all’aspetto meramente razionale e riguardante le strutture ludiche e narrative, il fascino di Mass Effect risiede nell’essere un grande romanzo epico. Una sfida all’ignoto, un viaggio che insegna ad affrontare i timori più oscuri dell’animo e a cambiare quello che non è possibile cambiare.

Perché nella vita c’è tanto di ineluttabile. Ma anche tanto da amare. Ancora.

AAS


NDR: tutte le immagini dell’articolo esclusa quella della morte di Kelly Chambers sono estratte dalla Legendary Edition, remastered della trilogia di Mass Effect.


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Final Fantasy XIII: la linearità come punto di forza

Final Fantasy XIII: la linearità come punto di forza

  • Vito Carluccio

  • 28 gennaio 2022
  • noninteragire

Sebbene Final Fantasy XIII abbia ricevuto voti alti dalla critica al lancio (Metacritic di 83 su PS3), da molti è considerato il peggior capitolo della serie, la pecora nera, tanto da non considerarlo addirittura un “vero Final Fantasy”.
I motivi per cui questo capitolo abbia attirato a sé numerosi hater e difensori di una presunta autenticità della serie sono molteplici, ma due in particolare hanno suscitato le critiche più feroci: l’eccessiva linearità e il combat system ritenuto troppo facile e “automatico”.

Se per quanto riguarda il combat system siamo più che certi che la critica derivi da un giocato parziale, da un sentito dire o da un abbaglio, lo stesso non si può dire della linearità. Ebbene si, Final Fantasy XIII è un gioco lineare, è vero. Affermare il contrario significherebbe negare l’evidenza. L’errore però è nel considerare la linearità come un difetto. Anzi, viceversa, in Final Fantasy XIII la linearità è un punto di forza, una base di design sulla quale si poggia l’intera struttura del gioco.
Per muovere un’analisi critica che voglia essere un minimo credibile e strutturata, bisogna partire da un assunto: non si può assolutamente affermare che un gioco sia brutto o bello perché lineare.

Nelle prossime righe proveremo a capire i motivi di design dietro alla linearità di Final Fantasy XIII e soprattutto l’efficacia di questa struttura in relazione a trama, coerenza narrativa e progressione di gameplay.

La differenza tra voto della critica e voto del pubblico è abbastanza impressionante.

Contesto narrativo

L’universo narrativo di Final Fantasy XIII si regge sulle spalle di due “pianeti”: Gran Pulse, verdeggiante e selvaggio, e Cocoon, artificiale e iper tecnologico.
In entrambi i pianeti sono presenti i così detti “Fal’Cie”: esseri meccanici ed eterni, responsabili del mantenimento dell’ordine. Sono, infatti, considerati delle entità divine che agiscono in modo misterioso sull’equilibrio del mondo, e sul destino degli umani.

Gli abitanti di Cocoon sono governati dal Sanctum, una teocrazia. Tale istituzione ritiene che questo pianeta artificiale sia stato costruito dai fal’Cie per proteggere gli umani dal mondo selvaggio di Gran Pulse. La popolazione è indotta a credere che i fal’Cie di Gran Pulse non vogliano altro che distruggere Cocoon, e che il pericolo sia scongiurato proprio grazie alla guida del Sanctum, a sua volta benedetto dai fal’Cie di Cocoon.

Ecco come appare Cocoon visto da gran Pulse, una sorta di paradiso controllato al di sopra di un inferno selvaggio.

I fal’Cie, esseri ineffabili, possono scegliere dei campioni tra gli esseri umani e affidare loro un compito da svolgere. Gli umani selezionati dagli Dei, denominati l’Cie, vengono marchiati da una sorta di tatuaggio, acquisiscono poteri sovrannaturali e sono chiamati a compiere un’impresa non sempre chiara e cristallina.

Molti l’Cie passano l’intera vita a cercare di capire quale sia il loro scopo; una volta scoperto e compiuto verranno tramutati in cristalli, pronti per essere “scongelati” quando il proprio fal’Cie lo riterrà opportuno (potrebbero volerci secoli). Nel caso in cui un l’Cie non riesca a capire o compiere la missione affidatagli entro un tempo limite, diventerà un “Cie’th” un essere vuoto, mostruoso, aggressivo e senza nessuna coscienza della sua vita passata. Ovviamente un l’Cie designato da un fal’Cie di Cocoon è considerato dal Sanctum una sorta di eroe, e la sua impresa viene venduta come un onore. Al contrario, gli l’Cie di Gran Pulse sono considerati nemici di Cocoon, terroristi che attentano alla stabilità del pianeta artficiale stesso.

Da queste doverose premesse di contestualizzazione narrativa, che aprono diversi quesiti filosofici inerenti al destino e alla natura stessa del concetto di Dio, parte l’epopea dei nostri protagonisti.

Struttura narrativa coerente

[DISCLAIMER: di qui in poi sono presenti anticipazioni di Final Fantasy XIII]

La trama di Final Fantasy XIII è incentrata intorno a un gruppo di persone che, a seguito di una concatenazione di eventi, divengono l’Cie per conto di un Fal’Cie di Gran Pulse.
Questo evento li renderà immediatamente ricercati dalle autorità di tutta Cocoon e, pertanto, saranno braccati e considerati dei terroristi.
Non solo. Come abbiamo detto poco sopra, il destino di uno l’Cie ha una scadenza imprecisata che spinge i protagonisti a stringere i tempi per non diventare Cie’th.

Risulterà a questo punto chiaro che, con queste due grosse premesse, la linearità assuma un valore coerente con il racconto. I protagonisti devono necessariamente agire in modo più rapido possibile per evitare di diventare dei gusci senza anima. Nel mentre, sono braccati dal governo e, di conseguenza, impossibilitati a girovagare liberamente per le città che incroceranno durante il loro cammino. Il design del gioco parte da questo assunto: sono ricercati e hanno una scadenza. In quest’ottica diventa fondamentale non consentire al giocatore di rompere la coerenza interna della trama, oltre che al mood e all’atmosfera di urgenza.

Le forze governative braccano costantemente i protagonisti.

A riprova del fatto che questa forte linearità sia una scelta consapevole e non un errore di design possiamo prendere in esame il Capitolo 8, in cui per la prima volta la trama sembra accogliere un momento di svago. Due dei protagonisti si ritrovano in una città simil-Las Vegas; provano a divertirsi, a svagarsi un po’. Gli stessi personaggi diranno frasi come “possiamo perdere tempo così?” o “dimentica per un attimo le difficoltà”.

Questo intero capitolo ci dimostra la consapevolezza dei designer riguardo alla direzione intrapresa. Lo svago è li davanti a noi, abbiamo letteralmente un parco divertimenti immenso a disposizione ma la trama e il contesto non consentono questo divertimento e, per estensione, nemmeno il Game Design. Dopo un po’ di gironzolare tra le varie attrazioni verremo sorpresi dalle truppe governative, che si mostreranno in tutta la loro forza e determinazione. Non a caso, proprio nel capitolo che fino a quel momento si presentava come il più allegro e disteso, assisteremo ad una delle scene più drammatiche del gioco: quasi una dimostrazione inequivocabile che non c’è spazio per le distrazioni.

Nel Capitolo 8 c’è un piccolo momento dedicato alle attività secondarie tipiche del genere. Presto, però, la situazione diventerà drammatica.

Obbligare il giocatore a seguire una via predefinita, senza caricarlo di attività accessorie, è perfettamente funzionale al racconto e coerente con la trama, evitando così clamorose dissonanze (tipiche del genere JRPG). Anche quando il gioco ci concederà un po’ di apertura questa sarà ben integrata nella trama. Arrivati al Capitolo 11, infatti, avremo l’unica vera open area del gioco, piena di mostri, di side mission legate alla caccia e di esplorazione di un ambiente sconosciuto e selvaggio.

L’apertura acquisisce senso sia per Game Design che per coerenza narrativa. Non è un caso che a partire dalla fine del Capitolo 9, e per tutto il Capitolo 10, abbiamo avuto per la prima volta tutto il party riunito e completamente nelle nostre mani, potendo sperimentare le varie strategie. Arrivati su Gran Pulse avremo modo di mettere alla prova la nostra bravura affrontando i mostri, opzionali, più temibili dell’intero gioco.

Lato trama, ancora, tutto è coerente: la minaccia su Cocoon non è più così impellente, i personaggi hanno ormai deciso che non staranno agli ordini dei fal’Cie, inoltre sul nuovo pianeta non sono presenti le forze governative pronte a inseguirle in ogni dove. Per la prima e unica volta sono liberi di scegliere autonomamente, così come lo è il giocatore.

Nel Capitolo 11 si apre la mappa. Gran Pulse è grande e ricca di mostri unici, e noi avremo il party al completo.

Una lenta progressione, ma coerente e ben strutturata

La scelta di rendere lineare questo capitolo acquisisce senso anche dal punto di vista del gameplay, praticamente incentrato esclusivamente sul combat system. A differenza di alcune critiche assolutamente fuorvianti, il sistema di combattimento di Final Fantasy XIII è uno dei più complessi nell’intero genere. Avremo a che fare con ruoli fluidi, atb (attack time battle) non stoppabile, pre-settaggi di battaglia, catena, crisi e studio della IA dei nostri compagni e delle caratteristiche dei nostri nemici.

Sarebbe inutile dilungarsi troppo nello spiegare questo intricato e profondo sistema. Basta sapere, però, che non è per niente facile da padroneggiare e che sarà sempre in grado di proporre una sfida degna di nota. Probabilmente lo stereotipo per il quale il gioco sia “facile” deriva dal fatto che per gran parte della prima metà del gioco, almeno quattro o cinque capitoli, il titolo ci obbliga a utilizzare un sistema monco, privo della libertà e del tatticismo che si raggiungerà solo nelle zone più avanzate.

Questa scelta limitante potrebbe riflettersi in un’esperienza castrata, ma anche in questo caso vi è sottesa una scelta precisa. La progressione centellinata del combat system è coerente con lo sviluppo della trama e soprattutto con quello dei personaggi, i quali scopriranno le loro reali capacità in modo graduale, arricchendo il sistema. Durante l’intero gioco non faremo altro che avanzare di combattimento in combattimento, obbligati ad utilizzare un party predefinito dal gioco che cambia di capitolo in capitolo in base alle necessità del racconto.

La condizione dei protagonisti, descritta in precedenza, rende coerente questa sequela di scontri e gli sviluppatori sono riusciti a costruire una progressione estremamente precisa attraverso i tredici capitoli che compongono il gioco.

Il combat system prevede una preparazione tattica al di fuori della battaglia che poi ci permetterà di cambiare strategia al volo durante i combattimenti.

Come detto, quasi in ogni capitolo il party cambierà forma, il combat system svelerà lentamente le diverse meccaniche acquisendo una grande complessità e il giocatore sarà chiamato via via a sperimentare e assimilare le varie aggiunte che poi esploderanno nei capitoli più avanzati.
Ecco: questa lenta e programmata progressione del gameplay ha tratto in inganno moltissimi giocatori che hanno, purtroppo, solo scalfito la complessità tattica del sistema degli optimum.

Nei primi quattro capitoli sarà sufficiente usare l’attacco automatico, alternato a qualche saltuario cambio di ruolo dei personaggi per avere la meglio; ma già dal quinto capitolo il gioco inizia a chiedere un più raffinato tatticismo. Questo avviene in modo controllato e, per certi versi, quasi metanarrativo.

Ad esempio, nel Capitolo 5 saremo chiamati ad interpretare Hope, il ragazzino inesperto che sta iniziando a muovere i primi passi in questo mondo pericoloso e aggressivo. Il giocatore, così come Hope, sarà chiamato a rispondere agli insegnamenti dei capitoli iniziali e dovrà necessariamente imparare a scambiare i ruoli e a sfruttare la catena e la crisi. Non a caso il segmento finisce con il primo vero e proprio Boss, che richiede una discreta padronanza degli optimum.

Il boss del Capitolo 5 ci costringe, per la prima volta, a utilizzare efficacemente il cambio di ruolo dei personaggi.

Proseguendo, ci verranno mostrati anche nuovi ruoli che ogni capitolo consentirà di sperimentare. Questa progressione lunga e lenta rischia di sembrare un gigantesco tutorial, e in parte lo è.
Ciò non toglie, però, che il gameplay sia ben strutturato e che vada di pari passo con lo sviluppo della trama e delle tematiche. Insomma, anche in questo caso, il design lineare e asciutto, aiuta molto ad entrare nei meccanismi del gioco tanto quanto nella complessità dell’universo narrativo e della trama in sé. Ogni capitolo è, quindi, caratterizzato da una struttura lineare che esalta la narrazione, lo sviluppo dei personaggi, la progressiva complessità del gameplay e la costruzione delle tematiche.

Dunque si può facilmente ritenere che l’intera struttura trovi giovamento dalla linearità di fondo, e riesca a creare una sinergia eccellente tra giocato, racconto e messa in scena.

Una maturazione inusuale per il genere e per il periodo storico

Final Fantasy XIII, forse per la prima volta nella serie, riesce quindi a presentarci un racconto estremamente coerente, riducendo al minimo le incoerenze e le dissonanze. Il gioco non dimentica, però, di essere un JRPG, come emerge dal complesso combat system; ma dimostra una maturità che poche volte possiamo riscontrare nel genere. A maggior ragione se si pensa che lo sviluppo del titolo è iniziato su Playstation 2 e solo successivamente venne rinviato direttamente su Xbox 360, Playstation 3 e PC per un’ uscita fissata al 2009.

Lo sviluppo del gioco è partito su Playstation 2. Qui l’immagine commentata da Toriyama.

In questo JRPG non si potrà andare in giro a giocare carte, a blitzball o a cercare l’anello disperso della vecchietta disperata sul ciglio della strada: e questo è un bene. I game designer hanno compiuto delle scelte coscienti, che possono piacere o meno; ma è altresì considerabile infantile la forma mentis tipica del giocatore medio che cerca e richiede sempre di più, sempre più contenuto e attività. Anche quando non sono necessari.
A volte la sottrazione è funzionale agli elementi che compongono un’opera, come Fumito Ueda insegna. In questo caso, la trama di Final Fantasy XIII, lo sviluppo dei personaggi e la progressiva complessità del combat system traggono un forte giovamento dalla struttura lineare del gioco.

Siamo forse fin troppo abituati ad accettare il patto tra sviluppatore e giocatore che ci fa chiudere un occhio quando vediamo Geralt perdersi nella ludopatia più sfrenata mentre sua “figlia” è in pericolo e braccata da nemici pericolosissimi. Capiamo bene che a volte la coerenza viene meno in favore di un arricchimento del ventaglio di attività offerte al giocatore, ma anche la via opposta merita un plauso. Anzi, forse meriterebbe un’attenzione ancor più “rumorosa” perché non cerca disperatamente di intrattenere e allungare la permanenza sul gioco, prima ancora di comunicare.

Certamente questo game design lineare è anche dovuto ad uno sviluppo un po’ travagliato che ha costretto gli sviluppatori a prendere delle decisioni forti in modo da concentrare al massimo le loro energie su quello che ritenevano importante: introdurci un complesso universo narrativo, raccontarci una storia ricca di spunti filosofici e immergerci in un complesso combat system. Ebbene, ci sono riusciti. Non senza problemi o punti critici, come appunto l’eccessiva sensazione di “tutorial”.

Ci sono diverse ragioni per la linearità del gioco. Con una quantità limitata di tempo di sviluppo e risorse, abbiamo reso il gioco lineare per massimizzare e fornire lo stesso tipo di esperienza di gioco a tutti i giocatori. Questo approccio ha avuto un grande vantaggio nel fornire ai giocatori abbastanza tempo per familiarizzare con il nuovo combat system e l’universo narrativo. Ma d’altra parte, ha portato i giocatori a pensare che la maggior parte del gioco fosse un tutorial. Credo che questo fosse un grosso difetto del gioco.

Motomu Toriyama (Game Director)

A questo riguardo, Final Fantasy XIII non è esente da difetti. La sensazione di tutorial sicuramente potrà perseguitare il giocatore per molto tempo ma ha una struttura molto pesata e pensata. Il suo particolare game design lineare e controllato esalta il racconto, la trama. il world building e il favoloso combat system.
Certamente merita una possibilità anche perché potrebbe iniziarvi alla interessantissima trilogia della Fabula Nova Crystallis.

VC


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Red Dead Redemption II e il problema della modernità

Red Dead Redemption II e il problema della modernità

  • Vincenzo Vecchio

  • 21 gennaio 2022
  • noninteragire

[DISCLAIMER: questo articolo contiene anticipazioni sull’esperienza di Red Dead Redemption II.]

L’alba. Morire, guardando l’alba nascere, è un’immagine simbolicamente perfetta. Talmente ben congegnata, nella sua estrema semplicità, da riuscire a racchiudere in sé buona parte del senso di Red Dead Redemption II.
Arthur Morgan, il personaggio che interpretiamo, termina proprio così la sua avventura: sul crinale di una montagna, guardando il sole che sorge.

[…] son visage mal géré par la nuit

Mort à l’aube di Aimé Césaire

Morire, all’alba.

Muore così il nostro personaggio, a tre quarti scarsi della storia, alla fine di una folle corsa che punta dritto verso l’alto. Arthur Morgan non sale sulla montagna a morire perché affetto da tubercolosi in fase terminale – come farebbe un qualsiasi amerindio, portando compitamente con sè la consapevolezza della fine – ma scala la montagna spinto letteralmente dall’ultimo impeto, sospinto dal torrente di violenza che ne ha accompagnato l’intera vita. È una differenza di approccio rivelatrice, non fosse altro per la sua capacità di descrivere il sanguinoso conflitto tra colonizzatori e colonizzati, tra americani e nativi americani. 

Ma tornando sul piano naturalistico della questione, la vita è notoriamente un ciclo. Proprio in senso biologico. È, infatti, così che in natura si fa spazio al nuovo, al moderno. Morendo.
Il punto focale di Red Dead Redemption II si potrebbe ridurre a questo unico momento. Come in un romanzo dall’epica polverosa di inizio Novecento ambientato nel Selvaggio West – dove l’intero paesaggio si potrebbe sintetizzare in poche assi di legno, ossa invecchiate dal sole ed un continuo movimento stremato di cavalli su spazi infiniti da percorrere – anche in Red Dead Redemption II la natura è protagonista e maestra. Cattiva, persino perfida.
Ed è dunque la natura stessa che pone il problema fondamentale alla banda con a capo Dutch van der Linde: il problema della modernità. 

“We can’t always fight nature, John. We can’t fight change, we can’t fight gravity, we can’t fight nothin’. My whole life, all I ever did was fight…”

Dutch van der Linde

L’horror vacui della natura tende a riempire immediatamente i vuoti del vecchio mondo con il nuovo: ed è in quello spazio sempre più ristretto che una banda di fuorilegge inizia a percepire di essere ormai di troppo. Usurati e usati dalla loro stessa epoca si ritrovano a corto di terreno, a corto di spazio di esistenza, a corto di tempo, senza alcuna argomentazione precisa da opporre allo spaventoso avanzamento della modernità. È lo scontro generazionale tra padri e figli, per chi di figli naturali non ne ha, ma solo una vita di cattività e sopravvivenza da difendere. È lo scontro tra padri e figli all’interno dello scontro delle epoche che si avvicendano. 

Per sottolineare questa incombente e fatalista visione della natura, Rockstar sceglie di utilizzare una costruzione narrativa adattata, estremamente lenta e calcolata, che porta il videogiocatore ad entrare di forza nei meccanismi utili alla comprensione di uno stile di vita talmente diverso dal nostro. Una lentezza narrativa che forza il videogiocatore ad una consapevolezza davvero poco comune nei prodotti di intrattenimento recenti, che allo stesso modo lo risucchia lentamente nelle vite sospese nel tempo dei vari personaggi che abitano l’accampamento. Rockstar riesce in tal modo a catturare l’attenzione autentica del videogiocatore, che non assiste solo ad una serie di episodi di vita western, ma ad una vera e propria epopea raccontata per gradi. 

Il treno è il primo sintomo di conquista della modernità.

Il problema del padre.

La banda dei van der Linde è immersa in un trauma che riguarda padri putativi e bisogno di appartenenza. Dutch van der Linde non fa altro che intercalare ogni frase con la parola figlio quando parla ad Arthur o John. Non fa altro che sottolineare disperatamente quel legame fittizio, che lo rende non solo il capo indiscusso della banda, ma anche la figura paterna di riferimento.

Dutch van der Linde utilizza insomma una mitologia del padre come strumento per creare un inconscio collettivo junghiano che tenga incollata la banda ai propri progetti e voleri. E, considerata la scala di valori personali dei vari componenti, per il quale è lecito rubare, mentire e ammazzare per fare qualche dollaro, si capisce bene che l’operazione messa in atto dal carismatico leader rilevi più sul lato della stregoneria piuttosto che su quello del mero sentimentalismo. 

Arthur Morgan è una sorta di Houellebecq analfabeta, che tenta comunque un’analisi di quello che gli si muove intorno; ma allo stesso tempo non può sottrarsi allo svolgersi degli eventi. Un pessimista, perché consapevole della propria fine, ma anche con una certa voglia di agire. Dutch van der Linde, al contrario, è un pragmatico che scopre la follia. Diversamente dagli altri componenti della banda che hanno un inconscio in comune, quest’ultimo ne possiede uno proprio, ammantato di anarchismo e di rivendicazione permanente.

Il problema del paesaggio.

Come accennato in precedenza, il paesaggio è un affresco sintetizzato di un Selvaggio West figlio del cinema. Non è difficile infatti riconoscere in diverse fasi del videogioco alcuni dei topoï che hanno costruito, nel tempo, l’immaginario che il cinema restituisce del western. La derivazione è presto fatta: Sentieri Selvaggi (1956) per l’essenza, dato che tutto in Red Dead Redemption II parla inevitabilmente con la voce stessa di John Ford, mentre ci fissa con lo sguardo torbido di John WaynePer un pugno di dollari (1964), per i colpi di coda ed alcuni momenti di ciarlataneria, oltre che per l’incredibile gusto per l’estetica del tempo e del ritmo di Sergio Leone. Il buono, il brutto, il cattivo (1966) per definire l’anima stessa dei personaggi, in cui coesistono umanità e brutalità, violenza e cavalleria, stupidità e lealtà.

Klaus Kinski arriva ad affermare che il solo paesaggio veramente affascinante nel mondo è il volto umano1. Rockstar, a malincuore evidentemente, continua a scegliere invece il paesaggio naturalistico come primo e principale luogo dove far cadere lo sguardo, sempre. Una scelta che fa virare l’opera, ancora una volta, verso Sentieri Selvaggi piuttosto che qualunque altro racconto più intimista. Le ragioni sono ovviamente diverse e da ricercare sicuramente anche nell’esigenza di dover realizzare un videogame piuttosto che un film, per l’appunto.

John Wayne e lo sguardo torbido.

E se è vero che Rockstar tende a rendere la natura protagonista, è consequenziale che ne difenda, in tal modo, una posizione quasi conservatrice rispetto al progresso della città. Un progresso che rimane per i fuggiaschi del passato una pareidolia della modernità. La città, Saint-Denis in particolare, diventa dunque agli occhi della banda il boss di fine livello da sconfiggere per arrivare alla conclusione. D’altro canto, se Red Dead Redemption II fosse stato un videogioco arcade degli anni Novanta, si sarebbe sicuramente concluso con un poderoso scontro finale contro un boss-città. 

Per Sergio Leone il paesaggio preferito rimane il volto.

Insomma, quello che Tempi Moderni di Charlie Chaplin cercava di dire con la critica dell’era industriale, Red Dead Redemption lo descrive attraverso un monumentale scontro tra natura e cultura. La violenza infine, di cui è impregnata la quotidianità di tutta la banda, ma punteggiata di momenti di estrema delicatezza, non è altro che una violenza di natura. Come può esserlo quella di un animale selvaggio, una violenza giustificata dalle regole ambientali.

“Yeah, I’ve got violence in me, but no negative violence. My violence is the violence of the free man who refuses to knuckle under. Creation is violent. Life is violent. Birth is a violent process. Tempests and earthquakes are violent movements of nature. My violence is the violence of life. It is not violence against nature, like the violence of the state, which sends your kids to the slaughterhouse, deadens your minds, and drives out your souls!”

Klaus Kinski
The Autobiography of Klaus Kinski (1996), p. 2

Presto o tardi, tutto brucia nel mondo di Red Dead Redemption II.

Non abbiamo nemmeno accennato ad aspetti come gameplay, game design, fisica, insomma a tutto ciò che riguarda l’interazione. L’abbiamo fatto intenzionalmente: nonostante ci interessino anche queste particolarità, volevamo semplicemente focalizzarci su altro. Secondariamente, perché si è già scritto abbastanza su questi aspetti e su Red Dead Redemption II in generale.

In effetti abbiamo preferito, a diversi anni dall’uscita sul mercato del titolo, centrare la nostra attenzione su percorsi normalmente poco battuti.

VV


NOTE:

1 sottintendendo, ovviamente, in particolar modo il suo.


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Racconti dal loop videoludico

Racconti dal loop videoludico

  • Alfredo Savy

  • 10 dicembre 2021
  • noninteragire

“Twelve Minutes, The Forgotten City, il loop”. Tre temi che riportano a tre, precise, parole. 

UCCELLI DI MERDA!

È già ieri, Giulio Manfredonia, 2004.

L’eccidio di cicogne perpetrato da Filippo Fontana (Antonio Albanese) in È già ieri (Manfredonia, 2004), è figlio di una crisi che va avanti da un po’. Filippo rivive sempre la stessa giornata, un caldo 13 Agosto; e non potrebbe essere altrimenti, visto che parliamo del remake tricolore di Ricomincio da capo (Groundhog Day, Ramis, 1993), film per eccellenza sul loop temporale.
Il tema non è quindi nuovo all’universo cinematografico e al mondo televisivo: Edge of Tomorrow (Lima, 2014), The Map of Tiny perfect things (Samuels, 2021) e Russian Doll (Lyonne, Pohler, Headland, 2019) ne rappresentano solo alcuni esempi, più o meno validi. 

In alto: Groundhog Day, Edge of Tomorrow, The Map of tiny perfect things.
In basso: Russian Doll.

Il concetto, d’altronde, è semplice. Rivivendo la stessa giornata – o comunque un intervallo definito di tempo – il protagonista può capire cosa gli stia accadendo e cercare di rompere l’anello: insomma, acquisisce conoscenza a ogni riavvio. Conoscenza e memoria sono le due coordinate su cui si sviluppa tutto l’impianto, e le caratteristiche per eccellenza che dividono chi si muove nel loop da tutti gli altri.

Non ci è voluto molto prima che anche i videogiochi decidessero di sedersi a questo tavolo.
La differenza, però, è lampante: mentre nella variante cinematografica abbiamo due fattori, il protagonista – che, come detto, resiste al loop – e il mondo, in quella videoludica ne troviamo tre: mondo, avatar e videogiocatore.
È il videogiocatore che deve conoscere e ricordare, come parte integrante dello stesso gameplay.

Sta poi agli autori dosare sapientemente il rapporto tra avatar e fruitore, rendendo il primo quanto più possibile invisibile nel processo ed evitando spiacevoli situazioni in cui il videogiocatore ha compreso, mentre l’avatar no (o ha dimenticato). Il rischio da allontanare, pertanto, è quello di trovarsi di fronte delle meccaniche non pulite. Di interfacciarsi con un cubo di Rubik che all’inizio affascina ma, su lungo, diventa uno scattoso “fai uscire il colore” a forza di provare e riprovare dialoghi e azioni, fino a quando l’avatar non capisce quello che il giocatore ha già capito.1

La copertina di Twelve Minutes.
Rimanda a Vertigo (Hitchcock, 1958).

In ogni caso, il 2021 è stato un anno di fondamentale importanza per questo genere di videogiochi. Nel giro di pochi mesi sono stati lanciati Returnal, Deathloop, The Forgotten City, Twelve Minutes ed Echoes of the Eye, espansione di Outer Wilds (Mobius Digital, 2019), tutti con il tema del loop al centro dei propri percorsi. Mentre dell’ultimo abbiamo già parlato in passato, tra The Forgotten City e Twelve Minutes è possibile trovare alcune analogie e molte differenze.

La prima cosa che salta agli occhi è che sono giochi sviluppati da team microscopici.
The Forgotten City nasce come una mod di The Elder Scrolls V: Skyrim (Bethesda, 2011), creata da un solo tizio, poi ultrapremiata e infine diventata titolo stand-alone con ben tre persone a lavorarci su (incluso appunto Nick Pearce, fondatore e ideatore di Modern Storyteller); Twelve Minutes è un one-man-show di Luis Antonio, ex dipendente Rockstar Games, su cui Annapurna Interactive ha avuto l’indubbio merito di credere e investire. 

Quindi, possiamo trarre un’importante conclusione: se hai poco tempo, poco personale, pochi soldi, la struttura del loop può venirti incontro. Realizzi un mondo piccolo, ma curato e responsivo; crei una struttura sequenziale/non lineare capace di regolarizzare una durata altrimenti troppo compressa. La conseguenza è che si può far ruotare per scelta l’intero gioco sul concetto (in senso onnicomprensivo) di loop, oppure inserirlo per una questione pratica, dovuta alle necessità produttive e di trama del titolo stesso.
Se questo passaggio non è chiaro, non c’è da aver paura; verrà ripreso in seguito, in quanto argomento pivot.

La copertina di The Forgotten City.

The Forgotten City racconta di un ignoto visitatore, cascato (letteralmente) in una città romana fondata attorno a una sola regola; Twelve Minutes compone un intricato thriller psicologico dal sapore vagamente hitchcockiano.
Entrambi, e a questo punto sarà lampante, donano al videogiocatore l’uso del loop.
Ma non allo stesso modo.

Di affinità e divergenze del loop tra Twelve Minutes e The Forgotten City

[DISCLAIMER: SPOILER]

Andiamo direttamente al punto: la principale differenza tra i due giochi è che in The Forgotten City il loop afferisce al racconto, mentre in Twelve Minutes è parte integrante del concetto. 

L’opera di Luis Antonio tratta il tema del rimorso. E cos’altro è il rimorso, se non una sensazione che insegue una persona, alienandola dal quotidiano? Un uroboro, come quello dipinto in un quadro dell’appartamento del protagonista; uno stato d’animo ricorrente che attanaglia chi ne soffre e impedisce di muoversi in avanti. Il rimorso, quindi, potrebbe essere raffigurato proprio come un loop, un eterno ritorno di una verità che si cerca – inutilmente – di sopprimere.

In questo caso, la rottura del loop acquisisce un significato specifico, e che lavora sul lato simbolico della faccenda (che, d’altronde, appartiene all’intera produzione): quello dell’ammissione di colpevolezza, raggiungendo così una pace interiore rappresentata dalla casa vuota di giorno, con il vociare dei bambini alle finestre. Twelve Minutes consente infatti di spezzare l’anello temporale solo nel caso in cui il videogiocatore porti il protagonista a prendere atto di quanto accaduto, e che avrebbe dovuto fare diversamente. E cioè di aver amato e sposato la sua sorellastra contro il volere del padre, di non averle rivelato della parentela, di aver taciuto della fortuita uccisione del genitore (lasciando che la moglie si disperasse, assumendosi la colpa), di averla infine ingravidata. 

Il loop è concluso, la casa è vuota.

Qualsiasi altra scelta del videogiocatore porta a una continuazione del loop, che riparte dal punto zero (nel caso in cui si decida, nuovamente, di reprimere il passato), oppure prosegue in eterno.

E dunque, ecco che l’impasto diventa coerente. Il videogioco ha la forma di un loop perché il protagonista vive un loop sul piano squisitamente psicologico, restituito iconograficamente con la suggestiva immagine del protagonista braccato dal poliziotto/padre (simboli di Autorità), con a carico una figlia malata di cancro (un terribile male: metafora della gravidanza incestuosa?).
Il game design si accompagna perciò perfettamente con la scelta del topos; le iterazioni successive del videogiocatore lo definiscono quale coscienza del suo avatar, la quale mette in azione i meccanismi analitici necessari a far emergere la verità. 

L’identificazione del videogiocatore come coscienza del personaggio, permette forse di giustificare perfino l’evidente macchinosità del ciclo realizzato da Luis Antonio, da eseguire esattamente in un certo ordine in un determinato lasso temporale. Un passaggio necessario per portare alla luce, come in un processo psicanalitico, ciò che era sapientemente nascosto.
Non basta che la coscienza/videogiocatore, piano piano, acquisisca contezza di quanto accaduto: serve che lo faccia anche l’avatar. 

In Twelve Minutes, la morte del protagonista conduce al riavvio del loop…

Ciò crea una frattura voluta tra le due componenti – descritte in apertura del pezzo – di videogiocatore e avatar; e tale frattura acquisisce un significato notevole soprattutto alla luce dell’impostazione à là Hitchcock della camera, con i personaggi in guisa di burattini mossi da un burattinaio dai fili invisibili, che prova a risolvere l’enigma acquisendo conoscenza e memoria uscendo ed entrando dal loop.

Dicevamo che, in The Forgotten City, la dimensione del loop appartiene a quella del racconto.
Nel gioco di Modern Storyteller, l’anello temporale è strettamente legato ai fatti, come escamotage di Proserpina per condurre l’Avatar/Videogiocatore nella città romana sospesa tra spazio e tempo, rompendo il disegno del suo minaccioso consorte. A differenza di Twelve Minutes, però, non si collega al tema principale del gioco, che è e rimane quello della concorrenza tra giusnaturalismo e giuspositivismo. Un tema esploso tra l’età greca e quella romana (vd. paragrafo successivo).

L’evidenza maggiore che il loop si “aggiunga a” e non sia “il centro di” è rappresentata dalla presenza del game over. Probabilmente a causa della sua origine moddistica, in The Forgotten City esiste una barra della vita e una quantità di danno sostenibile prima che l’avatar muoia sotto i colpi degli NPC ostili. In molti altri giochi sul loop, tra cui appunto Twelve Minutes, alla morte dell’avatar si collega un riavvio del ciclo; al contrario, qui non accade nulla di questo ma semplicemente viene ricaricata la partita. 

…al contrario di ciò che accade in The Forgotten City.

Lo schema classico che può portare al game over è il seguente:

  • viene infranta la Golden Rule dal giocatore o dagli NPC,
  • il magistrato Sentius corre verso il tempio di Proserpina per pronunciare il rituale che riavvia il loop;
  • le statue dorate iniziano a scoccare frecce;
  • se vengono inferiti troppi colpi prima di raggiungere Sentius, allora si muore.

Oppure, più banalmente, si muore anche per una caduta.
Il motivo per cui la violazione della regola non comporta l’immediato riavvio del loop è legato a comprensibili esigenze narrative e scenografiche (le statue che prendono vita garantiscono un bel colpo d’occhio), ma ne sviliscono il peso nell’economia del design del gioco, chiaramente più incentrata su altro. 

Il fatto che il game over non comporti penalità alcuna – tecnicamente, essendo la città d’oro l’aldilà, morire significherebbe la fine della partita – tranne ricaricare il salvataggio, è in linea con altre scelte di design che semplificano il percorso del videogiocatore, ma banalizzano la forza del loop. La presenza di Galerius all’inizio di ogni loop, a cui si può delegare un numero importante di commissioni che, di fatto, riportano lo status del mondo di gioco a quello desiderato dal giocatore in base alle sue precedenti azioni, se da un lato rende molto più immediato avanzare con gli eventi (vero focus di Modern Storyteller), dall’altro fa percepire il loop come una meccanica utile ma che si mescola a strutture differenti.

La lista della spesa di Galerius velocizza il ritorno a un certo status, ma delegittima la meccanica del loop.

Un altro esempio è il quest design che solo determinate volte prevede che si sbagli e si capisca l’errore o si porti un determinato oggetto in un’iterazione successiva. A missioni come quelle dell’assassino (eliminabile inviandolo in un tempio pericolante, dopo aver visto la struttura crollare in un ciclo differente), delle chiavi o dell’arco d’oro ottenibili in un certo loop e spendibili in uno diverso, si associano quest più classiche che portano a (per fortuna poche) sessioni di combattimento o di ricerca di oggetti lungo la mappa. Pur essendo il tutto ben concatenato e comunicante, l’output è unico, spesso raggiunto solo attivando passivamente tutte le opzioni di dialogo e con l’aiuto dei marker. 

Ancora, il fatto che la giornata sia dilatata nella lunghezza – al contrario dei pochi minuti di cui si compone ogni anello di Twelve Minutes – contribuisce a interpretare più classicamente ogni ciclo, evitando un uso intensivo del loop.

Uroboro. Simbolo del loop e del rimorso.

Di Golden Rule…

Il centro dell’esperienza di The Forgotten City, più che sul loop e sulla concatenazione di eventi in quest diverse, è nella qualità dei dialoghi e nella scrittura. Più specificamente, The Forgotten City è un videogioco giuridico, che indaga un tema molto caro alla filosofia del diritto: il conflitto tra diritto naturale e diritto positivo.2
Si potrebbe dire che quest’argomento è addirittura antitetico a quello di un ripetersi continuo delle cose; a differenza del rimorso di Twelve Minutes, i due concetti di giusnaturalismo e giuspositivismo si sono intersecati più volte nella storia classica, medievale e contemporanea, in continua evoluzione.

Volendo partire da una frase sicuramente radicata nella tradizione cristiana dell’Occidente,

Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro.

Vangelo secondo Luca, 6:31.

possiamo agilmente arrivare alla definizione di Golden Rule, o reciprocità: ogni comportamento verso gli altri dev’essere tenuto in funzione di ciò che vorremmo gli altri facessero a noi. Un equilibrio, derivato direttamente dalla divinità e conosciuto dalla ragione umana. Utilizzando lo schema proposto da Tommaso d’Aquino potremmo osservare che questo tipo di struttura è proprio del diritto naturale, per cui il cielo detta e l’uomo trascrive.

In realtà, le radici sono ancora più antiche. Della Golden Rule troviamo traccia perfino nella società egizia e sumerica, e non è peregrino pensare che si tratti dell’ennesimo travaso alla cristianità. Di giusnaturalismo e giuspositivismo si sente parlare dai tempi dei sofisti greci, che dividevano il dikaton in dikaton physei e dikaton ibisei, giusto per natura e giusto per legge; solo con Aristotele, nel libro V dell’Etica Nicomachea, verrà poi scandita pienamente la distinzione tra un giusto per legge, mutevole, e un giusto per natura, in parte immutabile.

Il principio di precauzione, in pillole.

Con l’età romana, non a caso quella in cui The Forgotten City è ambientato, si arriva alla scissione di ius (diritto) e iustitia (giustizia), separando il diritto dalla morale e donando contorni certi, di giustiziabilità, alle pretese dei cittadini di Roma (che comporranno il nucleo del diritto civile).
E, dunque, si sviluppa la distinzione tra un diritto che deriva dalla natura o dalla ragione umana (il diritto naturale) applicabile a chiunque, e un diritto positivo (dal latino positum, posto) che si deve specchiare proprio in quello naturale per potersi dire giusto. 

Sarà la modernità a mettere in crisi questo meccanismo, tramite l’emancipazione del diritto positivo da quello naturale e considerato giusto non per eteroderivazione ma solo e soltanto perché chi emana il comando normativo è legittimato (in senso weberiano) a farlo. E si arriverà alla costruzione di sistemi autoriferiti, il più famoso dei quali è quello di Hans Kelsen, basato su stufenbau e grundnorm.

Torniamo ai videogiochi. Dopo aver chiarito il concetto, è fondamentale sottolineare come The Forgotten City metta in dubbio lo stesso comando normativo su cui si fonda la città. Si può chiedere a tutti gli abitanti cosa ne pensino; e, nel confronto con il creatore stesso della regola, sconfiggerlo in un dibattito socratico. D’altronde la regola d’oro si attiva se il giocatore sceglie di rubare, ma non se un NPC sceglie di suicidarsi; si scatena se di punto in bianco uccidiamo un personaggio, ma non se inganniamo. La Golden Rule sembra non essere valida in ogni sistema di riferimento e impossibile da codificare, spaziando da un’interpretazione restrittiva e testuale della stessa a una estensiva, con tanto di esimenti e cause di giustificazione.

Giusto e sbagliato rientrano solo in parte nel concetto di diritto.

Riassumendo:

  • se la regola non è valida in ogni sistema di riferimento, dipende dal volere di chi la applica;
  • se il contenuto dipende dal volere di chi la applica, è tirannia;
  • una tirannia, che la cittadinanza non ha legittimato, va sconfitta.

La violazione della Golden Rule conduce infatti a un principio di responsabilità collettiva insostenibile per i moderni, che si confrontano con la personalità della responsabilità penale (art. 27, comma 1, Costituzione della Repubblica Italiana).
A ogni violazione della Golden Rule da parte di un singolo, seguirà la punizione dell’intera cittadinanza: tutti verranno tramutati in statue d’oro, in un processo che ha investito i greci prima dei romani, gli egizi prima dei greci e i sumeri prima degli egizi, per poi arrestarsi. Del peccato di uno risponderanno tutti, in solido: una pratica che richiama quella della decimazione. Il Videogiocatore, quale emblema della sapienza post-illuministica e di una certa evoluzione della dottrina giuridica, è quindi chiamato a testimoniarne il fallimento.

Come detto, è questo discorso, più che il loop, a rappresentare il vero punto di fascino di The Forgotten City: apre anche a riflessioni non banali riguardo il set di regole, decise dallo sviluppatore, a cui il videogiocatore sceglie di sottomettersi. E sul perché lo faccia.
Peccato che il discorso metanarrativo rimanga a livello embrionale, fornendo solo suggestioni e non indirizzi precisi.

…e cubi di Rubik.

In apertura abbiamo paragonato questo genere di titoli a un cubo di Rubik che inizialmente intriga ma, sul lungo periodo, costringe a girare e rigirare fino a quando non esce il colore giusto. Giochi che provocano una frenesia galoppante, per la necessità di svolgere azioni meccaniche ormai senza alcun fascino ma necessarie per arrivare alla conclusione.
La padronanza del loop diviene un tallone d’Achille e la morte del desiderio.

Da questo punto di vista, sia The Forgotten City che Twelve Minutes non brillano. Il primo è, talvolta, eccessivamente verboso, manierista e masturbatorio; il secondo, sebbene più coerente con se stesso, è a tratti deprecabilmente ingessato nella struttura e ingenuo nel legare i loop, con animazioni fuori contesto e reazioni del protagonista scollate dagli eventi.

I primi minuti con Twelve Minutes sono puro amore.

Rimangono, però, due ottimi tentativi. Uno cerca di contestualizzare appieno il loop e unirlo alle tematiche del gioco stesso; l’altro di fondere il loop con meccaniche classiche. Tentativi di dare cittadinanza a questa struttura che vanno oltre il sospetto di averla scelta per mascherare budget e forza lavoro limitati, o per cercare fascino a buon mercato.

In fondo, si potrebbe dire, 

“Twelve Minutes, The Forgotten City, il loop”. Tre temi che riportano a tre, precise, parole. 
“Twelve Minutes, The Forgotten City, il loop”. Tre temi che riportano a tre, precise, parole. 
“Twelve Minutes, The Forgotten City, il loop”. Tre temi che… 

AAS


NOTE:

1 È un’ultra-semplificazione. L’Autore può benissimo dare spessore all’avatar in contrasto con il videogiocatore. Twelve Minutes in parte lo fa; l’importante è esserne consapevoli.

2 Per approfondire: “Mauro Barberis, Giuristi e filosofi. Una storia della filosofia del diritto, Ed. Il Mulino, 2011”.


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ODST riduce lo scarto tra gioco e marketing

ODST riduce lo scarto tra gioco e marketing

  • Vito Carluccio

  • 3 dicembre 2021
  • noninteragire

Sei un ODST (Orbital Drop Shock Troopers) inviato su New Mombasa per svolgere una non precisata missione.
Il tuo atterraggio non va come previsto: vieni sbalzato via, lontano dai tuoi compagni di squadra.

Svieni. Ti risvegli dopo sei ore dall’impatto, da solo e disperso in una città ultra tecnologica.
È buio, intorno a te non vedi altro che detriti e desolazione; non hai una meta precisa, non conoscevi i dettagli della missione.
Non ti resta che trovare i tuoi compagni, capire se sono ancora vivi e magari scappare da questa città ormai abbandonata. O quasi.

Questa è l’introduzione che ci troveremo davanti una volta avviato Halo 3: ODST, il capitolo più malinconico, divisivo e atipico dell’intera serie.

La prima strada imboccata appena avviato il gioco. Nessun nemico, tutto distrutto e musica malinconica: cos’è successo?

Questo titolo, inizialmente pensato come DLC di Halo 3, subì solo successivamente una trasformazione in capitolo spin-off stand alone. Halo 3 era stato un successo planetario incredibile: ancora oggi si tratta del videogioco più venduto della serie e ha detenuto a lungo il record per il più grande lancio della storia dell’intrattenimento videoludico, con 170 milioni di dollari guadagnati nelle prime 24 ore e 300 milioni in una settimana.

Dopo poco meno di un anno dal day one, Bungie aveva in cantiere già Halo: Reach. A quel punto, Microsoft presentò una proposta molto allettante, che suonava così: “avete l’engine, avete le idee e avete un anno di tempo per fare uno spin-off”.
Joseph Staten, scrittore e direttore creativo del gioco, pensò dunque di costruire una storia più intima, di scala minore, con maggiore attenzione al lato umano. Si decise di parlare degli “altri”, dei soldati “normali” poco o male informati, e sempre chiamati al sacrificio: il risultato fu quello di accantonare temporaneamente il leggendario super soldato Master Chief, preferendogli gli epigoni ODST.

In una recente intervista per IGN, il director di Halo ha dichiarato che ODST è il suo capitolo preferito per via della totale libertà creativa.

Atmosfera Noir e tono malinconico

Il protagonista principale di questo titolo è Rookie, un nuovo soldato appena unitosi alla squadra. Tuttavia, nel corso della storia il giocatore impersonerà anche i restanti membri: il sergente Edward Buck, il caporale Taylor H. “Dutch” Miles, il soldato scelto Michael “Mickey” Crespo e il vice caporale Kojo “Romeo” Agu.

Riprendendo il filo della nostra premessa, il lancio effettuato dalla squadra non va per il verso giusto: Rookie perde i sensi e si risveglia sei ore dopo l’atterraggio. Non ha una meta precisa e non gli resta che esplorare la città e i dintorni per capire che fine abbiano fatto i suoi compagni.

I primi minuti di gioco sono semplicemente perfetti: ci ritroviamo spaesati e soli in questa città desolata e tentacolare. È notte fonda: la musica di Martin O’Donnell, delicata e malinconica, ci accompagna nell’esplorazione dei dintorni senza una meta, mentre il passo lento e cadenzato del Rookie lascia subito intuire che non stiamo indossando i panni di quella macchina da guerra, rapida e potente, dal nome di John 117. Il nostro personaggio è un soldato speciale, ma non certo un super uomo geneticamente potenziato.

Gli ODST sono molto più fragili e meno agili degli Spartan, ma hanno armi silenziate ed un visore in grado di sottolineare ed illuminare le silhouette dei nemici al buio.

Dopo qualche minuto passato ad evitare, o ad affrontare, qualche piccola pattuglia Covenant, squilla un telefono pubblico: l’intelligenza artificiale che gestisce l’infrastruttura della città ci contatta e ci fornisce una mappa e delle vaghe indicazioni su dove possano essere i nostri compagni.

Da qui in avanti inizia la nostra investigazione: in Halo 3: ODST dobbiamo scoprire cosa è successo nelle ultime sei ore, capire quale era il nostro obiettivo iniziale, trovare il resto della squadra e scappare da questa città, ormai abitata da sporadiche truppe nemiche alla ricerca di sopravvissuti.

Il nostro obiettivo non sarà mai totalmente chiaro, non c’è un waypoint chiaro e cristallino. Il segnalino posto sull’elmetto del nostro avatar ci mostra la direzione da seguire ma non tiene conto di strade bloccate e vicoli ciechi. Ci viene in aiuto l’IA della città che illuminerà i lampioni, farà scattare le allarmi delle auto della polizia, utilizzerà i cartelloni pubblicitari o sfrutterà i led della strada per indicarci la via più precisa.

Una volta connessi con l’IA della città verremo guidati verso i nostri compagni con dei messaggi sugli schermi, luci dei lampioni, allarmi di auto ecc. Tutto stupendamente diegietico.

A tal proposito, New Mombasa appare come una metropoli ultra tecnologica, con neon ovunque e strade tempestate da auto futuristiche distrutte e abbandonate. Girovagare da soli, alla ricerca di indizi, con una soundtrack che sembra venir fuori da Blade Runner, è una esperienza più unica che rara per l’intera serie di Halo. Le squadriglie Covenant fanno più paura del solito (come detto, non siamo Master Chief) e l’intero mood del gioco tende a spingerci verso un approccio molto più ragionato o addirittura evasivo.

Non a caso ci vengono fornite due armi inedite per la serie: un mitra ed una pistola silenziata.

Un nuovo modo di giocare Halo

Oltre all’aggiunta di alcune armi silenziate, il game e il level design del gioco sono stati completamente ribilanciati e ricalibrati per offrirci un gameplay più aderente al ritmo più lento e ragionato.
Come abbiamo già detto, Rookie è un ODST, non uno Spartan: questo si traduce in diversi cambiamenti nel gameplay. Oltre al già citato passo più lento rispetto a quello di Master Chief, anche i salti sono molto meno imponenti, lo scudo meno resistente e la rigenerazione più lenta.

Le armi silenziate rappresentano un momento di rottura di Halo 3: ODST con il passato.

Queste piccole differenze si traducono in un sostanziale cambio di approccio all’azione: saremo costretti a cercare riparo molto più spesso, provando a sfoltire una pattuglia con qualche attacco furtivo prima di ingaggiarla apertamente. Oppure, al contrario, tenderemo delle vere e proprie imboscate alle ronde, utilizzando granate e armi ad area.

Per favorire ancor di più questo nuovo modo di intendere gli scontri, in giro per la città è facile trovare una grande quantità di armi di vario tipo. D’altronde la ritirata delle truppe UNSC ha lasciato dietro di sé un vasto arsenale; pertanto, avremo spesso delle granate con noi e potremo letteralmente spazzare via una pattuglia prendendola di sorpresa e tempestandola di esplosivi.

Anche il level design è pensato e costruito intorno a questa idea di guerriglia, più che di guerra totale. New Mombasa è tentacolare: piena di vicoli, strade e stradine sopraelevate, presenta diversi edifici in cui è possibile rifugiarsi, sfruttandone le finestre (o le varie uscite) allo scopo di aggirare una pattuglia o ingaggiare uno scontro a fuoco.

Le ronde infatti sono gestite da un nuovo sistema definito “patrol system”, che regola gli spostamenti delle truppe Covenant tra le strade. In questo modo, i gruppetti di nemici sono sempre mobili; il che aiuta a pianificare imboscate o fughe.

La struttura degli edifici di New Mombasa presenta più di una via di uscita e di ingresso.

Non mancano delle spiacevoli ingenuità, come la possibilità di utilizzare i martelli dei Brute o quella di staccare le torrette portandole in giro con nonchalance manco fossimo il più cazzuto degli Spartan (tra l’altro sembra che un bug mai risolto renda i nostri ODST ancora più veloci di Master Chief quando trasportano le torrette: sigh). Probabilmente queste defaillance sono dovute alla natura meno centrale del progetto, fratello minore di Halo: Reach e sviluppato in appena un anno. Nonostante ciò, dare un peso eccessivo a queste leggerezze potrebbe significare non godersi un’esperienza diversa e ben strutturata: fidatevi, non ne vale la pena.

Neill Blomkamp, sei tu?

[Testo SPOILER]

Questa atmosfera malinconica, compassata e strategica fa da controaltare alle sequenze dei flashback, molto più action e vicine a quello che abbiamo visto in Halo 3, oltre che tematicamente e stilisticamente molto aderenti ai lavori di Neill Blomkamp.

Ogni volta che troveremo un indizio collegato ad i nostri compagni ci verrà mostrato un flashback, e giocheremo i panni di un altro ODST. Questo tipo di sequenze sono brevi, dense e ispirate. Ci troveremo in situazioni di guerriglia o di guerra aperta tipiche dei vecchi Halo: scontri con veicoli e a distanza, assalti a grossi complessi, resistenze disperate all’offensiva Covenant o battaglie in luoghi chiusi e angusti.

La missione Oni Alpha Site sembra un remake di Halo Landfall diretto da Neill Blomkamp.

La durata contenuta di queste sezioni le rende davvero perfette nel mostrarci “gli altri”, tutti quei soldati che hanno in qualche modo contribuito alla vittoria contro i Covenant. Insomma, le piccole imprese che hanno, in larga misura, aiutato Master Chief a compiere il suo cammino da eroe.

I flashback ci mostrano dunque situazioni collaterali ai grandi eventi vissuti in Halo 2 e 3, venendo altresì presentate con un taglio più drammatico e crudo (purtroppo mai eccessivamente spinto).
Scompaiono le frasi simpatiche che ogni tanto si potevano sentire nei primi tre capitoli, mentre il contesto appare molto più sporco e disperato: può capitare di trovare addirittura un soldato agonizzante al suolo, mentre un suo compagno cerca di aiutarlo.

Questa atmosfera più cupa riesce, per la prima volta nella serie, a non generare quella differenza di tono che solitamente si avverte tra i trailer live action di Halo e il suo gameplay; per dirla in parole povere,il trailer di lancio di Halo: ODST è perfettamente allineato al tono in game.
Più volte ci sembrerà davvero di giocare un piccolo corto diretto da Neill Blomkamp. Questo rende il pacchetto offerto da Halo 3: ODST una vera perla sia in termini di novità che di varietà delle situazioni.

New Mombasa ha un’atmosfera cupa e cyberpunk, in linea con il materiale promozionale di Halo 3: ODST.

Vestire i panni di un’intera squadra di umani che affrontano le più disparate e drammatiche situazioni di guerra ci permette, per la prima volta, di assaporare quel mood serioso e cupo imparato ad amare dai trailer live action della serie.

Tutto Halo 3: ODST riesce nel difficile compito di non creare dissonanze e incoerenze tra le storie raccontate, i temi trattati ed il gameplay. Ogni cosa è stata pensata in questa ottica: dalle modifiche al level e game design, fino alla narrativa molto meno appesantita da vicende ramificate e imbrigliate.

La storia semplice e le relazioni tra i membri della squadra ci riportano finalmente a un quadro più umano della guerra. Per la prima volta nella serie, questi temi e queste atmosfere sono approdate nei videogiochi senza lasciarle sviluppare solo nei romanzi, nei trailer e nei live action di Halo.

Giocando ad Halo 3: ODST, potremo finalmente assaporare delle atmosfere che abbiamo potuto apprezzare solo nell’universo espanso: beh, questo è un ottimo motivo per recuperarlo.

VC


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