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Shin Megami Tensei, istruzioni per l’uso

Shin Megami Tensei, istruzioni per l’uso

  • Luca Rungi

  • 26 novembre 2021
  • noninteragire

Quando ci si avvicina a una serie videoludica attiva da diverso tempo, di solito si cerca il consiglio di chi l’ha già affrontata con successo in passato in modo da potersi orientare, appassionarsi e creare un buon punto di partenza.
La saga JPRG di Shin Megami Tensei (真・女神転生) non sfugge a questa regola: ci sono diversi video e discussioni in rete pronti a chiarire i dubbi più disparati. La difficoltà non è data solo dalla presenza di diversi giochi principali e filoni paralleli (il più grande e popolare, naturalmente, è Persona), ma dal concetto di difficoltà stessa dei videogiochi che la compongono, talvolta percepita quasi come leggendaria.

Quest’ultimo fattore è legato in particolare ai capitoli del filone principale di SMT (che da poco ha raggiunto il quinto episodio su Nintendo Switch), a gran parte dei titoli secondari e ai primi esponenti della già citata Persona. Tra i titoli che vengono puntualmente sconsigliati calorosamente, tuttavia, vi è il primo Shin Megami Tensei, pubblicato su Super Famicom il 30 ottobre del 1992. Una data molto affascinante, considerando la piega che prende presto la vicenda narrata.

La copertina del gioco non stanca mai di stupire.

Questo articolo, in effetti, deriva da un’esperienza personale completa con il primo capitolo.
Ebbene sì: quasi in barba a tutte raccomandazioni largamente condivise riguardo la questione, è stato proprio questo titolo a offrire un vero minimo comune denominatore, a risultare coinvolgente ed efficace per comprendere le meccaniche principali di questa saga tanto meritevole quanto spesso marginale nel discorso videoludico. Purtroppo, SMT III: Nocturne (e persino Persona 5) sono risultati alienanti per ragioni differenti. Avremo modo di tornarci su.

Da questa considerazione è scaturito un interrogativo, ulteriore e quasi provocatorio: “e se fosse proprio l’esperienza maturata con una saga a sbiadire la percezione del primo approccio? A rendere un po’ più miopi riguardo una questione che dovrebbe, invece, apparire più chiara?”
Dopotutto, una volta che certi concetti e nozioni vengono interiorizzati, possono divenire scontati agli occhi dei più esperti (con tutto ciò che ne deriva).

Shin Megami Tensei è un dungeon crawler vecchia scuola in cui i personaggi appaiono solo quando si è prossimità.

Ecco come procederemo. Dopo una piccola infarinatura di dovere sugli albori della serie e su questo primo Shin Megami Tensei (commenti entusiasti inclusi!), affronteremo i motivi per cui il capostipite si è dimostrato più efficace delle alternative moderne, accompagnati da un paio di riflessioni e, infine, qualche consiglio concreto e link utile nel caso qualcuno di voi voglia tentare…

*SFRSSSSSSSSH, sfrigolii da 56K*

DDS-NET

Accessing…
Date: 199X-10-XX

Name: STEVEN
To: LR

Sembra proprio dello sp… COSAFAI?

Shin Megami Tensei, un’infarinatura delle origini

La saga videoludica di Shin Megami Tensei è tanto importante quanto poco conosciuta al di fuori del territorio di origine, cioè dal Giappone; e soprattutto, può essere erroneamente sottostimata se confrontata con una scala di valori tipica dei tripla A.
Al tempo stesso vi sono realtà che, pur avendo un debito inestimabile nei confronti di questa serie, sono estremamente più popolari (un esempio fra tutti ma significativo può essere il marchio Pokémon).

E c’è pure Surf!

Tuttavia, non solo Shin Megami Tensei anticipa il primo capitolo dei mostri tascabili di 4 anni, ma non è altro che una reincarnazione1 di un’altra serie di due episodi sviluppata e distribuita da Namco negli anni 80 su Famicom, ovvero Digital Devil Story: Megami Tensei. Questi, a loro volta, sono un seguito della trilogia letteraria di Aya Nishitani più o meno omonima; Digital Devil Story. Sia su carta che su console, l’argomento centrale è un’invasione del mondo contemporaneo da parte di entità soprannaturali (o “demoni” 2, come da glossario di gioco), appartenenti a diverse culture e religioni.

Pur non essendo l’obiettivo di questo articolo, va ricordato che la presenza di queste entità e la possibilità di dialogare con esse è sicuramente uno degli aspetti più accattivanti, in grado anche di risvegliare nei più curiosi il desiderio di andare a caccia di miti e informazioni in rete. In effetti, quando poco o nulla è inventato, tutto è una sollecitazione alla scoperta.

Vale la pena sottolineare anche che i primi tre capitoli (SMTSMT II e SMT If…) non sono stati commercializzati al di fuori del Giappone, probabilmente per i loro contenuti forti e in conflitto con l’immagine che Nintendo stava costruendo all’estero, oltre al fatto che avrebbero sicuramente causato aspre polemiche per l’inclusione di figure appartenenti alla religione cristiana. Una versione localizzata in inglese è stata pubblicata su dispositivi iOS nel 2014, ma non è più disponibile all’acquisto. In compenso, le traduzioni non ufficiali della trilogia sono tuttora facilmente reperibili in rete ed emulabili.

I primi due romanzi sono anche stati tradotti in inglese in via non ufficiale.

Ma cos’ha di speciale questo primo capitolo e perché ha fatto centro?

Tokyo, Cyberpunk, Horror

Sono queste le parole che sorgono alla mente pensando al prologo di Shin Megami Tensei, in cui il quartiere del protagonista, Kichijoji, sta ormai diventando sempre più pericoloso con omicidi in aumento, sirene che risuonano tutta la notte e abitanti ormai troppo spaventati per uscire la sera. La polizia impedisce a chiunque di uscire dalla zona e il tema musicale legato alla sua esplorazione rafforza la sensazione di tensione, di qualcosa che sta per esplodere in tutta la sua potenza.

L’ondeggiamento continuo dei muri e la OST creano un bell’effetto.

Una mattina, dopo un sogno ai limiti del lisergico, arriva un messaggio di posta elettronica poco rassicurante da un certo Steven, con allegato un programma misterioso: “I demoni delle leggende del passato si sono risvegliati dal loro lungo sonno. Presto invaderanno la terra in massa!”.

Ma ci pensa subito la madre a offrire un raggio di normalità e routine, quasi per rassicurarlo che tutto forse è un brutto scherzo e non ci sia nulla da temere. I personaggi principali della vicenda sono infatti degli adolescenti per nulla addestrati, una dinamica che non solo avvicina l’avatar al fruitore, ma rende ogni manifestazione del soprannaturale nella realtà più pregna e carica.

Shin Megami Tensei alterna tra sezioni “open world” e visuale in prima persona per gli interni.

Oltre a una scusa per uscire di casa, si riceve la paghetta mensile. Purtroppo il giro tra i negozi sarà tutt’altro che confortante: molti coetanei parlano del ritrovamento del corpo di una studentessa al parco, fatto a pezzi. Come se non bastasse, un demone sbucherà all’improvviso artigliando a morte la gola di un avventore terrorizzato, ferendo anche il protagonista in maniera superficiale. Ancora scosso, il ragazzo afferra istintivamente il coltello con cui la vittima cercava di difendersi.
È il 1992, la cartuccia è ben inserita in una console Nintendo, e questo è solo l’inizio.

Di solito, chi si è avvicinato al genere horror ha cominciato sbirciando, con timore e curiosità, certi fumetti o film. Col tempo, il riservo ha fatto gradualmente posto alla fascinazione, trovando un equilibrio (più o meno) sostenibile. 

Jack Frost è spesso usato come mascotte di Atlus.

Shin Megami Tensei è in grado di riportare alla mente sensazioni simili a quelle provate durante le prime letture di Dylan Dog, quando si sfogliavano le pagine del fumetto e si scopriva cosa fossero vampiri e zombie. 

Una marcia in più deriva probabilmente dal folklore spiccatamente internazionale che ospita; ma un plusvalore si deve al fatto che queste entità non sono soltanto nemici da convertire in punti esperienza ma, come detto poc’anzi, potenziali alleati con cui dialogare. La varietà si fa sentire anche nel carattere di ciascuno, in quanto non tutti saranno necessariamente assetati di sangue: incontreremo infatti anche demoni che vorranno solo farsi un goccetto o prendersi gioco di noi.
Ma occhio alle risposte! In caso di incomprensioni sarà facile passare alle mani, sempre con la possibilità di provare a ripercorrere la diplomazia una volta per turno.

Talvolta la diplomazia porta a dialoghi inaspettati.

Shin Megami Tensei gestisce molto bene il ritmo delle prime fasi di gioco, dosando elementi perturbanti e sfida, in una porzione di mappa aperta e di dungeon esplorabili di dimensioni ridotte. Il game design accompagna quindi la libera sperimentazione del giocatore, permettendogli di guadagnare qualche livello, denaro e i primi (pochi) alleati soprannaturali disposti a dargli retta, grazie al programma ricevuto da Steven.

Le azioni necessarie per portare avanti la narrazione in questo frangente sono chiare, e permettono quindi di innescarle solo quando ci si ritiene pronti. Lo stesso, purtroppo, non si può sempre dire delle fasi successive: lo stesso produttore Yōsuke Niino ha fatto mea culpa su quest’elemento, in seguito alla pubblicazione.

Giochi facili da portare in Occidente.

Resta però sorprendente come la vicenda riesca a stravolgere continuamente i rapporti tra i personaggi, che si separano e ritrovano di continuo in un mondo ormai scosso dai cambiamenti. 
Shin Megami Tensei è un gioco straordinario, irriverente, sovversivo, visionario, politico e (cyber)punk, in grado di dare soddisfazioni, impegnando la mente a più livelli e impattando anche il lato emotivo del fruitore; ma sa anche risultare spassoso.

Raramente un dialogo o evento lascerà indifferenti: testimonianza della potenza dei contenuti nonostante si abbia a che fare, sostanzialmente, con sagome di pixel decisamente sottotono rispetto ad altri titoli del periodo. Il tutto è amplificato dalla colonna sonora di impatto e memorabile di Tsukasa Masuko (pur non sfruttando appieno il chip sonoro causa poca familiarità con l’hardware Nintendo).

Ci sono persino citazioni a Cronenberg.

La veste grafica mostrata in queste immagini avrà probabilmente fatto storcere il naso a molti, tanto da mettere addirittura in dubbio che si tratti di un gioco a 16 bit. Ciò è perfettamente comprensibile, ma se si ha la volontà di fare pace con questi limiti tecnici si sarà ricompensati da un comparto ludico altrettanto ridotto per le stesse ragioni, per quanto innegabilmente avveniristico e ricco. Ciò si traduce in una sfida molto più asciutta rispetto ai suoi successori e, proprio per questo e sempre per esperienza personale, più approcciabile.

La complessità celata nella modernità

I videogiochi col tempo sono diventati apparentemente più semplici, ma il progresso tecnologico ha dato molte nuove possibilità, nuovi spazi e aspettative del pubblico da riempire con contenuti di qualsivoglia natura. È innegabile come persino un titolo appartenente alla saga di Super Mario oggi sia molto più complesso, sia per i controlli che per le dinamiche di gioco, rispetto alle sue controparti console degli anni Novanta.

Ciò si verifica soprattutto in quelle serie di videogiochi che non si sono mai davvero allontanate dalle origini al fine di mantenere identità e riconoscibilità. Al tempo stesso, naturalmente, si sono rinnovate visivamente e hanno introdotto nuove dinamiche per rinnovare l’offerta. La serie di Shin Megami Tensei rientra perfettamente in questa categoria; nelle iterazioni successive gli esponenti della saga sono diventati sì più moderni e visivamente invitanti, ma anche inevitabilmente più difficili da approcciare per i nuovi avventori.

A differenza dell’originale, nella HD Remaster di Nocturne è possibile scegliere liberamente quali abilità ereditare durante la fusione.

L’esempio perfetto è dato dal fatto che i demoni, da un certo punto nella serie, hanno cominciato ad aumentare di livello come il nostro avatar, a imparare nuovi incantesimi e attacchi e persino a ereditare proprietà scelte durante il processo della fusione. È facile interpretare questa novità come qualcosa di assodato, un mero orpello dettato dal genere e poco più.

Questi elementi, invece, aggiungono di fatto un grado di complessità gigantesco rispetto ai primi titoli, in quanto impongono di considerare molte più variabili a medio-lungo termine per mantenere un party equilibrato e pronto a tutto. Nei capitoli per Super Famicom la perenne staticità delle creature che infestano Tokyo annienta completamente questo fattore e riduce la valutazione all’immediato presente. Il numero di attacchi extra/magici di ciascuno è inoltre limitato a un massimo di tre.

Molti si ricorderanno il Flauros per aver giocato il primo Silent Hill o Origins.

A questo punto è doveroso considerare come la serie di Shin Megami Tensei e derivati vada in direzione ostinata e contraria rispetto agli altri giochi di “mostri collezionabili”. Una delle regole d’oro da tenere sempre a mente per gestire il nostro party con successo è quella di non vedere queste entità come amici del protagonista, ma come mero mezzo di sopravvivenza. Questa forma mentis squisitamente opportunistica è purtroppo indispensabile, in quanto vi è sempre un limite massimo di demoni alleati abbastanza stringente da rispettare.

Volendo, si potrebbe addirittura ipotizzare come l’evoluzione progressiva dei demoni offuschi completamente nei neofiti l’importanza di ottenere creature più forti tramite la fusione, e di come non esista alternativa più efficace a questo scopo.

La fusione demoniaca è un pilastro fondamentale della serie.

Questa è solo una delle novità, ma è più che sufficiente a creare dubbi importanti e semplicemente impensabili nei titoli classici.
Negli anni, sono state aggiunte altre dinamiche che, ad esempio:

  • puniscono severamente gli errori commessi in battaglia;
  • rendono indispensabile una gestione del party molto più scrupolosa;
  • non permettono di controllare direttamente gli alleati umani;
  • trasformano il comando “Talk” in un invito sottinteso a unirsi al party, rendendolo più insidioso e non sfruttabile come nei titoli classici.

Prima di passare a una breve sezione di consigli riguardo il primo Shin Megami Tensei, è giusto chiudere con un’osservazione riguardo la serie parallela Persona. Queste impressioni derivano da un’esperienza personale col quinto capitolo, approcciato con molta curiosità prima ancora di Nocturne. Purtroppo, come anticipato nella premessa, Persona 5 è risultato alienante dopo diverse ore a causa di tutto quell’insieme di meccaniche “sociali” che costituiscono, tra l’altro, la differenza fondamentale tra i due filoni.

Bello. Possiamo parlare del boss di domani adesso?

Pur rimanendo nell’ambito di una considerazione strettamente personale (e quindi opinabile), si potrebbe considerare come le meccaniche relative alla vita quotidiana, o slice of life, possano condurre a una frammentazione estrema dell’attenzione del giocatore, nonostante rimanga coinvolgente e accattivante a livello narrativo. Ciò che conta davvero (per fare proprie le basi, si intende) è però relegato a un momento preciso della giornata, con tanto di impossibilità di poter veramente esplorare e sperimentare liberamente a causa di un ritmo narrativo tiranno o di una regia altrettanto arbitraria del tutorial. Persona 5 è indubbiamente un gran gioco, ma potenzialmente controproducente per un neofita completo proprio per queste ragioni.

Consigli appassionati

Prima di scoraggiarsi al pensiero di affrontare un JRPG del 1992, è utile sviscerare delle considerazioni preliminari. Spesso si afferma che alcuni giochi “invecchiano male”, ma in realtà non cambiano mai di una virgola proprio come le opere di qualsiasi altro medium: a modificarsi nel tempo, invece, sono le aspettative del pubblico.

Inoltre, tutti i videogiochi fatti come si deve sono creati con uno scopo primario: essere completati. A questo punto, è facile considerare come tutta la questione dipenda esclusivamente dalla volontà del fruitore di affrontare o meno una data opera. A questo proposito, vale la pena puntualizzare un’altra cosa: sia nello studio che nelle passioni, se c’è interesse vero, bisogna sempre mettere in conto qualche piccolo sacrificio.

In bocca al lupo!

Il primo Shin Megami Tensei non è un gioco semplice in senso stretto, ma è anche vero che è tutt’altro che impossibile e inavvicinabile. Riflettendoci, da un certo punto in poi si suppone che il giocatore abbia sempre i demoni migliori con sé, proponendo negli incontri casuali alcune delle opzioni più versatili, ottenibili anche tramite la fusione demoniaca.

Ecco qualche consiglio rapido a chi vorrà dare a questo gioco temutissimo una possibilità:

  • il Tallone di Thor: gran parte dei boss sono deboli agli incantesimi elettrici (Zio) e possono essere resi inermi per tutto il combattimento (sì, anche lui).
  • Ribaltare le sorti: in SMT le magie che diminuiscono o aumentano le caratteristiche sono fondamentali e da tenere pronte per gli scontri coi boss. Quelle più comuni nel primo capitolo sono relative all’attacco (Taru) e alla difesa (Raku), mentre sono meno comuni quelle che colpiscono la velocità (Suku) e ancor più rare quelle riguardano la magia (Maka).
    A seconda della desinenza, si andrà ad aumentare questo valore al nostro gruppo (-kaja) o a diminuire quello del gruppo avversario (-nda), fino a 4 accumuli massimi per scontro.
  • Tetrakarnche?: i titoli classici palesano gli effetti delle magie solo quando utilizzate e i loro nomi pittoreschi non aiutano. Se da questo dipende una scelta importante di fusione, cercateli pure sulla wiki per chiarire i vostri dubbi. Stessa cosa, purtroppo, per le resistenze/debolezze dei demoni che non sono mostrate da nessuna parte nel gioco.
  • Ars goetia cum laude: prendere appunti riguardo le fusioni più interessanti è fondamentale per fare la scelta migliore, poiché non vi ricorderete mai a memoria i demoni necessari, gli attacchi e le statistiche dei risultati più invitanti. Createvi quindi un modo schematico e facile da consultare e per fare paragoni rapidi.
  • Devil May Cry: i proiettili sono infiniti e le armi da fuoco attaccano più bersagli e fanno male. Usate soprattutto pallottole con effetti secondari (priorità su Nerve e Charm).
  • Tutto muscoli, niente kaja: quando state meditando una fusione, ignorate chi offre solo danni fisici. Questo criterio permette di tenere in considerazioni le alternative più versatili. Inoltre, un demone con incantesimi interessanti ma con un bacino di mana irrisorio non dovrebbe essere altrettanto considerato.
  • Il carburante del party: sfruttate la diplomazia per chiedere spesso magnetite durante gli incontri casuali. Ogni passo effettuato nei dungeon ne costa infatti un certo ammontare per mantenere il party demoniaco attivo, ma nulla in confronto alla vostra scorta se rispetterete questa regola. Inoltre, la magnetite è richiesta spesso come valuta di scambio quando proverete ad assoldare i demoni, quindi è doppiamente necessaria.

E mangiate leggero anche.

Per concludere, ecco un’ottima guida da consultare per i primissimi consigli utili e in caso perdiate completamente la bussola. Se volete saperne di più su incantesimi particolari o abilità passive dei demoni, è tutto nella wiki di gioco.

LR 3


NOTE:

1 Il titolo del gioco significa letteralmente “la reincarnazione della vera dea”. Nella schermata del titolo, inoltre, SHIN viene mostrato con 3 kanji differenti dalla stessa lettura: 新 (nuovo), 神 (divinità) e infine 真 (vero).   

2 Il termine アくマ (AKUMA) è scritto in katakana per facilitare la lettura a causa dell’assenza dei kanji per i dialoghi di gioco. In realtà è un termine che si riferisce a un’entità malevola precisa a seconda dei casi. La scrittura in caratteri cinesi è 悪魔, ed è impiegata anche nel titolo del volume 「真・女神転生 悪魔事典」(SHIN MEGAMI TENSEI AKUMA JITEN, letteralmente “Enciclopedia dei demoni di SMT”, Shinkigensha, 29 maggio 2003, Giappone), in cui sono disponibili diverse illustrazioni, curiosità e tutte le entità presenti in SMT III: Nocturne, SMT, SMT II e SMT If…

3 ndr: Luca Rungi è un grande appassionato di retrogaming e gestisce un bel canale videoludico su Twitch. Qui la sua puntata su Shin Megami Tensei.


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Unpacking non è solo la storia di una vita

Unpacking non è solo la storia di una vita

  • Alfredo Savy

  • 15 novembre 2021
  • noninteragire

Entrare in un appartamento sconosciuto significa venire a contatto con un’esistenza.
Gli oggetti che un individuo ha scelto di esporre, conservare, utilizzare, dicono molto sul suo carattere, sul suo passato e sul suo presente. Le foto di famiglia, i libri sulle mensole, persino la disposizione degli effetti personali nel bagno ci raccontano qualcosa.

Ed è proprio attorno alla dimensione del raccontare tramite le cose e la disposizione delle cose che è centrato Unpacking (2021), un piccolo gioco in Pixel Art sviluppato da Witch Beam Games.

1997. La prima stanza.

Unpacking è incredibilmente delicato. Sarà un po’ per quel mood malinconico e nostalgico, sarà un po’ perché ci pone nelle condizioni di spacchettare gli oggetti di un altro, sarà un po’ per la meravigliosa colonna sonora di Jeff Van Dyck – che ricorda quella dimensione intimistica della fanciullezza spesa con i giochi Nintendo, non a caso protagonisti in incognito del titolo  ma è in grado di accompagnarci in un viaggio anche nei nostri trascorsi.
Un viaggio parallelo a quello videoludico e che affronteremo lungo un ventennio, dal 1997 al 2018. 

In effetti, il lavoro di Witch Beam vola attraverso un periodo definito. Iniziamo arredando la stanza di una bambina, nel 1997; chiuderemo posizionando computer e vestiti di una persona adulta, nel 2018. Pienamente cosciente di chi vuole essere e delle persone di cui desidera circondarsi.
Nel mentre, c’è la vita: con le sue sfide, i suoi intoppi, i suoi alti e i suoi bassi.

Come ci ricorda l’immortale The Voice,

That’s life
That’s what all the people say
You’re riding high in April, shot down in May
But I know I’m gonna change that tune
When I’m back on top, back on top in June

Frank Sinatra, That’s Life, di Dean Kay e Kelly Gordon, 1963-1966

Eppure non è tutto qui. Unpacking non è solo emozioni a buon mercato e una parabola della crescita, ma possiede anche un uso sapiente e consapevole del linguaggio videoludico, che esprime attraverso la cosiddetta environmental storytelling (narrazione ambientale).
Facendo anche un passettino oltre.

Tra nuova geografia creativa e narrazione ambientale

[DISCLAIMER: SPOILER]

Come si è forse potuto intuire, è attraverso gli oggetti, e la collocazione degli stessi, che conosciamo la protagonista di Unpacking e ne riusciamo a vivere i cambiamenti e le evoluzioni personali. Non faremo altro che aprire scatole e posizionare ciò che troveremo nelle stesse.

Ma c’è di più: quello che immediatamente colpisce è come gli Autori abbiano scelto di far parlare le meccaniche (o meglio, la meccanica), riuscendo così a raccontare in maniera implicita.
Insomma, sembra quasi una riedizione dell’effetto Kulešov applicato al videogioco. 

Narrazione ambientale: alla protagonista di Unpacking piace Matrix.

L’effetto Kulešov (da Lev Vladimiroviç Kulešov, 1899-1970) appartiene al medium cinematografico.
Un primo piano di un attore, montato con l’immagine di un piatto di zuppa, di una tomba o di una bambina che gioca, provoca nello spettatore delle sensazioni notevolmente diverse. Attraverso un meccanismo di cognizione, stimolato dal montaggio quale elemento distintivo del Cinema, il fruitore risponde legando i tasselli e veicolando un determinato stato d’animo (cdstimolo-risposta). Il tutto senza aver bisogno di una struttura didascalica, ma solo attraverso il racconto per immagini.

Hitchcock spiega, a modo suo, l’effetto Kulešov: in alto un uomo buono, in basso un pervertito.

Per dirla con le parole di uno dei più grandi critici cinematografici italiani,

Non è la cosa in sé a dare un senso al film, ma il rapporto fra questa cosa e le altre ad essa accostate.

Giovanni Buttafava, Il cinema russo e sovietico, a cura di Fausto Malcovati, Biblioteca B&N, 2000, pag. 51.

Dall’effetto Kulešov deriva la geografia creativa: riprese effettuate in momenti diversi vengono montate insieme, dando una sensazione di continuità e sospendendo l’incredulità dello spettatore.

Allo stesso modo, i creatori di Unpacking, mediante la collocazione di alcuni oggetti in specifici posti e momenti, messi in antitesi tra loro, riescono a comunicare con il videogiocatore senza doversi spiegare espressamente. Il momento di maggiore evidenza di questo meccanismo si ha quando la ragazza inizia la prima convivenza e la sua laurea, presa con sacrificio, finisce sotto il letto del compagno.
Non è possibile spostare altri quadri per appendere al muro il titolo di studio: va lì e basta. 

Nuova geografia creativa: la laurea era nascosta vicino ai pesi nell’appartamento dell’ex fidanzato…

Il videogiocatore, però, conosce il valore di quel documento: ha vissuto, spacchettando, il tempo del college; è cosciente perfino che la protagonista abbia una certa attitudine al disegno fin da quando era bambina. L’aver messo la laurea in bella vista nel capitolo precedente (e il tornare a farlo in quello successivo), mentre è costretto a nasconderla in questo, provoca nel fruitore una sensazione di fastidio e di rigetto dell’intera relazione. Questa danza di accostamenti, insieme ad altri artifizi peculiari come il farsi letteralmente spazio tra le cose altrui, crea un feedback negativo tanto da portare qualche redattore a definire il fidanzato come uno stronzo.

Anche se l’azione presa come tale è la medesima (posizionare il quadro), lo stimolo che fornisce il gameplay suscita una risposta differente a seconda del contesto in cui la meccanica viene collocata. La contrapposizione tra l’appendere il quadro e il nascondere il quadro riesce a creare nel fruitore un processo di cognizione non dissimile a quello dell’effetto Kulešov; e non è un caso che tale processo si esplichi proprio grazie all’intervento delle strutture proprie e caratterizzanti di queste due forme d’arte, cioè il gameplay e il montaggio.

…mentre è esposta orgogliosamente in alto a destra nell’appartamento indipendente.

Unpacking non è certo il primo a utilizzare quest’effetto: basti pensare a titoli come Papers, Please (Pope, 2013) o l’italianissimo Hard Times (Preziosi, 2019), di cui pure abbiamo già discusso.

Come suggerito in apertura di paragrafo, sarebbe esiziale confondere questo fenomeno con la mera narrazione ambientale. Unpacking è pieno di oggetti che dicono qualcosa: le copertine dei libri, dei Blu-ray e dei videogiochi della protagonista, il candelabro a sette braccia; i mezzi con cui lavora, e perfino un bastone che le serve per camminare. Un conto, però, è l’ambiente; un altro sono le meccaniche. Per non confonderci, potrebbe essere utile definire l’utilizzo a titolo comunicativo delle seconde come una “nuova geografia creativa”, parafrasando proprio quella di Kulešov e continuando nel parallelismo.

Un esempio della differenza tra queste due strutture è dato dall’uso dei peluche. Durante le varie operazioni di svuotamento delle scatole nel corso degli anni, è più volte sottolineato che la protagonista sia molto affezionata al suo orsacchiotto; nel momento in cui inizia a convivere con la sua nuova ragazza, il videogiocatore non potrà che rimanere colpito dal fatto che anche la compagna ne possegga uno. In questo caso, è il pupazzetto a parlare, a comunicare che la sua attuale partner potrebbe essere la persona giusta, non le meccaniche in quanto tali: siamo nell’ambito della narrazione ambientale e non di quella che abbiamo chiamato “nuova geografia creativa”. La decisione di mettere i peluche insieme sul letto, per quanto carina, è residuale e successiva. Arriva in un secondo momento, quando la situazione è già definita.

2015. Entrambi i peluche delle ragazze sono sul loro letto matrimoniale.

A tal proposito, è molto interessante rendersi conto di come Unpacking ci porti naturalmente a controllare il trasloco non di una, ma due persone: il semplice cambio di colore delle scatole indica di chi siano gli oggetti che stiamo per sistemare. In questo caso, l’avanzamento della storia implicita conduce a un raddoppio degli oggetti da spacchettare, in antitesi a quanto accaduto in precedenza quando erano questi ultimi, insieme alle meccaniche, a fungere da apripista alla narrazione.
Un’inversione a U funzionale allo stesso ritmo del titolo.

Fenomenali poteri cosmici in un minuscolo spazio vitale

Il passaggio dal ridisporre i memorabilia della sola protagonista a farlo anche per la fidanzata è utile per svelare l’ultimo tassello di Unpacking: il videogiocatore. Che ha, infatti, potere decisionale nelle piccole stanze dove colloca gli oggetti.

Due scatole, due personaggi.

Ogni partita di Unpacking è diversa da persona a persona. Per quanto vi siano delle ristrettezze alla libertà di chi è dall’altra parte dello schermo per ragioni narrative – sottolineate in precedenza – esistono molte variabili da tenere in conto. C’è chi organizza i libri per grandezza e chi, invece, li butta un po’ a caso; chi individua degli spazi precisi per Blu-ray o videogiochi e chi, al contrario, li ammassa sulle mensole; chi dispone gli abiti ordinatamente, dividendo pantaloni e vestiti e chi, viceversa, riempie i cassetti di calzini e magliette come capita. Ancora, anche il modo di spacchettare cambia: c’è chi svuota subito la scatola per toglierla davanti al naso e chi si muove di oggetto in oggetto. Chi preferisce mettere in evidenza certe suppellettili invece di altre, e via dicendo.

Unpacking è stato definito, scherzosamente, il videogioco di Marie Kondo; ed è stimolante cercare di capire come si interfacci al titolo Witch Beam quella categoria di persone frustrata dal sistemare dopo un trasloco, e che magari trova appagante, invece, ordinare gli oggetti in un videogioco. Banalmente, il quesito è se ci sia lo stesso interesse nell’organizzare casa, nella vita reale e virtuale.

Ancora una volta, si ripropongono i grandi temi di identificazione (o di separazione) tra il  e il sé videoludico, che in questo caso arrivano perfino all’analisi dei disturbi ossessivi compulsivi (non è una battuta e nemmeno un’esagerazione). Ovviamente, la personalizzazione della partita spinge alla creazione di vari contenuti meta, con i quali possono essere condivisi e confrontati gli arredamenti.
Torna, insomma, il discorso di Kiri Miller sul turismo del videogiocatore.

Ma non è finita. Unpacking è anche una grande storia d’amore, dopotutto. E di normalizzazione di alcune tematiche, la relazione e la famiglia omosessuale, di cui si sente un gran bisogno al giorno d’oggi. Si fa carico di rappresentatività. Ci fa indossare i panni della ragazza, spingendoci a empatizzare: sul divano a guardare la TV quando fuori fa freddo, con il sogno di illustrare un libro per bambini e il plaid sulle gambe. Gli assorbenti da riporre in bagno, le foto e le calamite sul frigo per ricordarci chi siamo, i nostri affetti.

La fragilità dell’essere umani, d’altronde, si rispecchia anche nella forza di trovare il modo di uscire da situazioni complesse. Di trovare l’indipendenza dopo la fine di un amore.
Un po’ come (500) giorni insieme (Webb, 2009), Unpacking racconta di pessime fini e bellissimi inizi.
A cui possiamo assistere, con un gran sorriso in faccia e un certo calore nel cuore.

AAS


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Sea of Thieves, Game as a Service rivoluzionario e immortale

Sea of Thieves, Game as a Service rivoluzionario e immortale

  • Vito Carluccio

  • 29 ottobre 2021
  • noninteragire

Motivare il perché Sea of Thieves sia considerabile un Game as a Service “particolare” , richiede di mettere radici in un discorso lontano.

The Division, Destiny, Outriders, Anthem e chissà quanti altri titoli sono definiti GaaS (Game As A Service). Questa tipologia di giochi, e in particolare quelli citati poco sopra, mettono a disposizione dei videogiocatori un sistema co-op pve (people versus environment) e spesso presentano anche sezioni in pvp (people versus people). In generale forniscono, in maniera continuativa e periodica, una grossa mole di contenuti aggiuntivi: nuove armi ed equipaggiamenti, nuove mappe, nuove skin eccetera.

Lo scopo dei GaaS è quello di offrire all’utente un gioco che lo affianchi per diversi mesi, se non anni. Per fare ciò si ricorre spesso alle medesime soluzioni: costruire un complesso sistema di progressione del personaggio, variegare e randomizzare il loot tra armi comuni, rare e leggendarie e in generale permettere al giocatore di percepire un effettivo avanzamento, un potenziamento tangibile del proprio avatar che, partito in mutande, si ritroverà corazzato e pesantemente armato.

Inoltre questa tipologia di giochi cerca di offrire anche grande varietà di meccaniche e situazioni: missioni di recupero, boss fight, raccolta, arene, sfide a tempo et similia.
Quantità, varietà e progressione sono i tre pilastri per un Game as a Service definibile tale.

Questa ruota mostra il processo di creazione die GaaS: non è assolutamente limitato ai soli giochi multiplayer.

C’è però un gioco, un GaaS, che ha rigettato questa formula considerata ormai uno standard, ribaltando completamente il concetto di progressione, di quantità e di varietà dei contenuti. Spingendo il game design verso la sottrazione e verso il concetto di gameplay e narrativa emergente. Parliamo, ovviamente, di Sea of Thieves e di come potrebbe cambiare il modo di intendere i Game as a Service.

Prima di addentrarci nelle bellezze del sistema messo in piedi da RARE è bene però definire un po’ le basi su cui si poggia.

Cos’è Il gameplay emergente?

Con “gameplay emergente” si riferisce a quelle situazioni complesse che emergono da interazioni relativamente semplici basati su sistemi che interagiscono tra loro, piuttosto che dalle più classiche meccaniche di gioco pre-confenzionate e scriptate.

Due dei pilastri di questo approccio al videogioco possiamo riconoscerli in Deus Ex e System Shock. In entrambi i giochi infatti, gli sviluppatori hanno deciso di fornire al giocatore un certo numero di strumenti e abilità che possono essere utilizzati in maniera del tutto creativa in un determinato sistema di regole. Nessuno script, solo regole e strumenti.

Per fare un esempio pratico prendiamo in esame Dishonored, considerato da Warren Spector un ottimo discendente della sua filosofia. L’immersive sim di Arkane non fa altro che dare al giocatore obiettivi molto semplici come raggiungere un luogo o eliminare un bersaglio; poi fornisce al giocatore strumenti, abilità e set di regole che interagiscono tra loro e lascia al giocatore completa scelta su come procedere.

Ad esempio è possibile raccogliere una bottiglia e lanciarla per distrarre una guardia. Una meccanica molto semplice, come “prendere oggetti e lanciarli”, collabora con l’IA dei nemici che sente il rumore e si muove in quella direzione per investigare. Da lì, noi potremo decidere se oltrepassarla o prenderla alle spalle. Ecco il gameplay emergente: da una semplice meccanica è scaturita una situazione complessa attraverso la comunicazione di diversi sistemi.

Colpire un nido d’api in Zelda Breath Of The Wilds genera conseguenze emergenti.

Il gameplay emergente è una diretta conseguenza dei giochi definiti “sistemici”, un esempio recente è Zelda Breath Of The Wild. Un gioco in cui le reazioni fisiche e chimiche interagiscono tra di loro, con il giocatore e con i mob creando possibili scenari unici. Basti pensare all’arrivo della pioggia e tutte le conseguenze che comporta: Link produce meno rumore ed è più facile agire in stealth, le rocce sono scivolose ed  impossibile da scalare, i danni elettrici diventano molto più potenti mentre il fuoco e gli esplosivi diventano inutili. Queste reazioni sistemiche cambiano il nostro modo di giocare e ci aprono delle possibilità nuove: insomma, emerge del gameplay dalla reazione dei sistemi.

Ovviamente questi sono esempi basilari, ma se volete dare un’occhiata quante reazioni emergenti possono scaturire da tutti i sistemi presenti in Dishonored date un’occhiata a questo video.

Spiegato il concetto di gameplay emergente è arrivato il momento di analizzare il modo in cui viene applicato in Sea of Thieves e come, in maniera davvero unica, riesca a generare anche narrativa emergente.

Questo è un titolo che, a differenza di quelli sopracitati, non presenta una campagna singolo giocatore con trama, ma solo partite senza fine, always online. Eppure siamo sicuri che chiunque l’abbia provato per qualche ora saprà raccontarvi una storia vissuta. Partiamo dagli strumenti e poi vedremo come essi siano in grado di sviluppare situazioni complesse.

La varietà nel poco

La spada, la pistola, la bussola, la lanterna, la vanga, la bussola, il secchiello, il bicchiere, gli strumenti musicali e il binocolo. Questi sono gli oggetti che riceveremo appena avviato il gioco e questi sono gli oggetti che avremo per sempre, anche dopo 1500 ore. Non c’è progressione materiale in Sea of Thieves, non c’è accumulo di punti abilità, di perk o armi. Tutto il game design si basa su pochi strumenti che interagiscono con le poche regole di gioco e queste interazioni, come abbiamo detto, creano gameplay emergente.

In tal senso, le quest che il gioco presenta sono semplici e assolutamente funzionali al concept di gioco: prendere delle casse e trasportarle in un altro avamposto, leggere e interpretare una mappa per trovare un tesoro o dare la caccia a scheletri redivivi. Questi semplici obiettivi hanno l’unico scopo di far muovere la ciurma di isola in isola così da generare interazioni con gli altri giocatori (anche essi intenti a svolgere uno di questi compiti).

In qualsiasi momento è possibile visualizzare la mappa del tesoro, sempre avida di informazioni, Bisognerà ragionare e collaborare con i compagni per capire dove scavare, non ci solo way point a schermo.

Ogni interazione con una ciurma è una potenziale storia, una potenziale avventura da cui potrebbe venire  fuori una memorabile sezione di gameplay e narrativa emergente. Si potrebbe decidere di collaborare nella ricerca di un tesoro, si potrebbe entrare in conflitto per cercare di rubare le merci o magari potrebbe tutto svanire in uno scambio di parole ed un veloce saluto. Il limite alle possibilità è dettato solo dalla nostre intenzioni che si dovranno per forza di cose scontrare con le intenzioni degli altri giocatori.

In questo frangente le semplici meccaniche di Sea of Thieves assumono un valore più complesso: poter suonare uno strumento ci permette di festeggiare con altri giocatori, si può bere grog e ubriacarsi o magari insultare una ciurma avversaria utilizzando il megafono. Ogni strumento è pensato per utilizzi multipli che verranno dettati dalla situazione emergente che si è creata, sia con gli altri giocatori che con i contenuti sistemici del gioco, Infatti è possibile subire attacchi da parte da un kraken gigante o venire ingaggiati da una nave fantasma pilotata dall’IA.

Questi piccoli schemi da immersive sim non fanno altro che fornire degli strumenti ai videogiocatori che poi potranno essere utilizzati in maniera del tutto creativa. In giro per la rete gli esempi si sprecano, e ormai è facile considerare Sea of Thieves un semplice mezzo grazie al quale molte persone hanno vissuto delle storie.

La progressione senza accumulo

Come detto poco sopra, in Sea of Thieves non esiste un rafforzamento del proprio avatar, non ci sono statistiche che crescono e danni critici, ma la progressione avviene attraverso un processo di metagioco, dissimilmente da altri Game as a Service. Ovvero attraverso la trasposizione del proprio sapere, della propria esperienza e della proprio abilità nell’avatar, un po’ come abbiamo cercato di spiegare descrivendo la progressione in Outer Wilds.

In giochi come The Division o Destiny la progressione del nostro avatar è tangibile e direttamente proporzionata alle ore investite nelle missioni. Un giocatore con alle spalle 120 ore sarà molto più forte di un novizio, tanto che per i nuovi arrivati è letteralmente impossibile competere con un veterano. Il livello del personaggio diventa una barriera per le interazioni e aggiunge anche una certa necessità di giocare, farmare, accumulare equip e potenziare le statistiche per stare al passo degli amici o per avere accesso a sezioni più difficili.

Generalmente nei Game as a Service presentano build complesse che richiedono diverse ore e una buona dose di fortuna per essere ottimizzate.

Giocando a Sea of Thieves invece, pur essendo un Game as a Service, questo processo non esiste. Tutto è basato sulla capacità di apprendere, sui consigli degli altri giocatori e sulla propria esperienza.
Solcando i mari per diverse ore, per forza di cose, il videogiocatore può affinare le sue conoscenze del mondo e delle regole che lo governano: proprio queste conoscenze diventano il vero sistema di progressione del gioco.

Se un novizio farà molta fatica a riconoscere e trovare un’isola leggendo una mappa, il giocatore veterano potrebbe riconoscerla alla prima occhiata proprio perché ci era già stato in un’altra occasione; e così vale per tutte le meccaniche relative alla manovrabilità della nave. Il novizio farà certamente fatica a gestire il vento, le vele, l’ancora, i cannoni e gli arpioni mentre il giocatore veterano sarà in grado di compiere manovre complesse e soprattutto di coordinare la propria ciurma (altro elemento fondamentale di questo splendido game design).

Insomma, la nostra diretta esperienza con il gioco ci può fornire dei vantaggi verso gli altri giocatori, ma ciò non toglie che un giocatore appena arrivato non possa apprendere in un ora quello che un altro ha appreso in dieci ore. Le meccaniche sono poche e facili da assimilare e una volta superate i primi momenti di spaesamento si potrà certamente giocare alla pari con qualsiasi altro utente. Non c’è nessuna fretta e necessità di consumare velocemente il prodotto per poter fronteggiare i più esperti, tutti abbiamo gli stessi strumenti e abilità, sempre.

I dobloni accumulati durante le nostre scorribande potranno essere spesi per comprare oggetti cosmetici come nuovi skin per armi e nave, ma questo non influisce sull’effettiva potenza o efficienza degli stessi.

La cooperazione come strumento narrativo

Nel calderone sistemico che è Sea of Thieves abbiamo messo dentro il concetto di design sottrattivo, gameplay emergente, interazioni con altri giocatori e progressione senza accumulo; manca però il collante, l’elemento che prende tutti gli ingredienti e li lega costruendo un piatto prelibatissimo: la cooperativa.

Ogni qual volta iniziata una nuova partita il gioco ci chiede con quale tipologia di nave vogliamo salpare: Sloop (fino a due persone), Brigantino (fino a tre persone) o Galeone (fino 4 persone).

La scelta della nave condiziona pesantemente la sessione e costringe ad entrare nei meccanismi di gameplay/narrativa emergente sin da subito, con i propri compagni. La gestione e la cura della nave è il primo vero banco di prova e tutorial che il gioco ci fornisce, ci insegna a predisporre la nostra mente nello stato giusto che ci accompagnerà in tutti gli altri elementi del gioco.

Levare l’ancora in gruppo velocizza di molto il processo e può fare la differenza tra la vita e la morte, cooperazione!

Prendiamo in esame il Galeone, la più grande nave disponibile: tre vele, otto cannoni, timone, ancora molto pesante, sottocoperta, stiva e cabina di comando. Gestire da solo una bestione simile è impossibile ed è proprio qui che diventa necessario cooperare: se un giocatore è al timone un altro dovrà occuparsi di gestire le vele, un altro ancora dovrà recarsi a prua per sincerarsi che la navigazione sia libera da scogli o impedimenti, mentre l’ultimo dovrà dare un occhiata alla mappa per assicurarsi che la rotta sia giusta.

Questa complessa gestione della nave deriva dai piccoli strumenti che i gioco ci fornisce ed è estremamente dinamica. Le posizioni ed i ruoli dei giocatori durante un combattimento dovranno variare repentinamente: chi carica i cannoni, chi spara, chi gestisce le vele, chi il timone eccetera.

Stessa cosa in caso in cui dovesse arrivare una tempesta, nel momento in cui le bussole impazziscono diventa fondamentale navigare a vista nel mentre si imbarca acqua e si cerca di svuotare la stiva con l’utilizzo del secchio. Ora, non staremo ad elencare ogni utilizzo che hanno gli strumenti e come questo utilizzo cambi in base alla situazione di gioco però crediamo sia abbastanza chiaro come i sistemi, comunicando con gli strumenti e passando dalla cooperazione tra i componenti della ciurma creino delle storie uniche.

Il Galeone è un bestione davvero difficile da manovrare, ci vuole tanta collaborazione ed esperienza per riuscire ad ottimizzare la navigazione.

Vi ricorderete certamente di quella volta che siete salpati pieni zeppi di merci da vendere ma una terribile tempesta ve le ha danneggiate; o di quella volta che avete collaborato con un’altra ciurma per distruggere una flotta di navi fantasma: in Sea of Thieves ogni viaggio è una potenziale avventura, resa possibile solo da un game design che rinnega gli script ma abbraccia i sistemi e il design sottrattivo.

Nessun gioco ci ha mai permesso di realizzare una così pura collaborazione con gli amici e nessun gioco è mai riuscito a farci vivere storie e situazioni tanto diverse tra loro. Uniche.

Anche dopo mesi e mesi di inattività potrebbe sempre tornarci la voglia di salpare, e il gioco sarà sempre lì ad attenderci senza chiederci di farmare per tornare al passo.
Sea of Thieves è un Game as a Service decisamente rivoluzionario,

VC


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INSIDE, tra sogno lucido e sogno ludico

INSIDE, tra sogno lucido e sogno ludico

  • Alfredo Savy

  • 22 ottobre 2021
  • noninteragire

Per raccontare il sogno di INSIDE bisogna partire da qualcosa che non è INSIDE.

We are like the dreamer who dreams and then lives inside the dream.
But who is the dreamer?

Twin Peaks, Part 14, We are like the dreamer.

“Chi è il sognatore?”, chiede Monica Bellucci a un Gordon Cole (David Lynch) in bianco e nero, nella quattordicesima puntata di Twin Peaks (2017, nota anche come terza stagione).

Il tema del sogno – d’altronde – è ricorrente nella cinematografia del regista americano, che molto spesso in carriera ha affrontato il dilemma riguardo i piani della realtà, l’immaginario, la coscienza di sé. Non è il solo specialista della materia; eppure lo scomoderemo come input analitico, utilizzando la sua riflessione per illuminare il lavoro di Playdead, software house danese e creatrice di INSIDE.

Muovendoci per analogia, “Chi è il sognatore?” è una domanda forse ricorrente anche per chi gioca, o ha giocato, INSIDE. Il videogiocatore attraversa le dimensioni e lo spazio del sogno, un ambiente orrorifico, l’inconscio. Ma di chi?

Anche durante la prima esperienza con il titolo Playdead, in uno stato di ingenuità e ignoranza, è facile sentirsi parte di quei luoghi, di quelle paure, di quel sentimento di angoscia e frustrazione che sembra quasi estratto da qualcosa di antico, di conosciuto.
Come se fosse il cuore del terrore di un uomo. O degli uomini.

Per dirla con le parole di un pittore che non ha bisogno di presentazioni,

Se il sogno è una trasposizione della vita da svegli, anche la vita da svegli è una trasposizione del sogno.

René Magritte.

Il rapporto tra sogno e vita è, d’altronde, qualcosa di noto al moderno, il quale ha accettato il collegamento tra due spazi diversi, spesso comunicanti in maniera atrocemente fragile. Il riferimento accademico è sicuramente Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni, Sigmund Freud, 1899), base di larga parte della psicanalisi; e di sogno si parlava anche nel precedente lavoro di Playdead, Limbo (2010). Un sogno in bianco e nero, quello di un bambino. 

Il bianco e nero di Limbo fa tornare all’altro bianco e nero; quello di Twin Peaks, con cui abbiamo aperto questa riflessione e che si lega, tematicamente, al lavoro di Playdead. Come un uroboro.
D’altronde, la domanda ossessiva è la stessa: 

In INSIDE,“Chi è il sognatore?”.

Mutismo, in INSIDE, significa consapevolezza.

[NDA: SPOILERARE INSIDE È PRESSOCHÈ IMPOSSIBILE, DATO CHE È UN TITOLO APERTO A UN NUMERO VASTISSIMO DI INTERPRETAZIONI. QUESTA DELL’ARTICOLO RAPPRESENTA SOLO UNA DELLE TANTE. PERÒ, SE NON L’AVETE GIOCATO E SIETE SUSCETTIBILI, FERMATEVI QUI.]

Il bambino ruzzola dalla montagna sulla sinistra, e il videogiocatore si ritrova improvvisamente nell’incubo. Immediatamente, dall’altra parte dello schermo, viene percepita la sensazione di minaccia, la necessità di correre verso destra.
A guidare le azioni dell’avatar è solo l’istinto: non c’è nulla di detto, in INSIDE. Non esiste un’indicazione a schermo che accompagni il videogiocatore nel tragitto, non una parola per aiutarlo a superare gli enigmi, un tutorial. Non viene mai esplicitato cosa vogliano gli altri. 

La scelta delle caratteristiche del personaggio giocabile non è casuale. La vulnerabilità di un ragazzino contribuisce a spingere l’acceleratore dell’autoconservazione, creando un legame psicologico tra il guidatore e guidato. Bisogna preservarsi, preservarlo. Bisogna sfuggire. Bisogna andare dentro, quasi in preda a una nevrosi da scoperta.

Interminati spazi e sovrumani silenzi.

Insomma, INSIDE è un’esplosione di “show, don’t tell”. Eppure il videogiocatore, passato l’iniziale senso di smarrimento, riesce a sentirsi pienamente a proprio agio all’interno della struttura ideata da Playdead, imperniata attorno al concetto di design sottrattivo. Ogni meccanica è ridotta all’essenziale e strettamente funzionale alla curvatura del racconto, nel senso più ampio del termine: si salta, ci si sposta in grafica bidimensionale, si muovono piccoli oggetti o interruttori, si nuota, si aprono botole, si rimuovono assi di legno. Si gioca con le dimensioni: lo spazio da percorrere, il tempo per evitare i fasci di luce, la velocità da imprimere a certi oggetti per risolvere i rompicapi.
È davvero tutto qui.

Il design sottrattivo non accompagna solo le meccaniche, ma si allarga anche al suono. INSIDE è minimalista in tutto e per tutto. All’interno della miniera, ascolteremo un cuore pulsante capace di smembrare con delle onde d’urto; in quel caso, non esiste segnalazione visiva che avverta del pericolo, ma solo un calcolo basato sul ritmo del luogo.
Ancora, muovendosi tra fluidi diversi, si avverte il passaggio dall’ovattato all’ampio, allo spazioso; anche il solo attraversamento dell’acqua diventa così un’esperienza significativa. 

La curva della difficoltà delle meccaniche di INSIDE è inversamente proporzionale al numero di esperienze in videogiochi simili. Un’obiezione, anticipabile, potrebbe essere che questa è una banalità. In effetti non è che sia proprio una novità; ogni titolo è tanto più semplice quanto più si è fruito di prodotti affini. Esisterebbe, insomma, un ciclo del gameplay strutturalmente condiviso tra parenti, la cui riconoscibilità – e innovatività – sarebbe connaturata al semplice bazzicare l’ambito. E, dopotutto, INSIDE non si discosterebbe da questo paradigma.

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Eppure, la scelta di Playdead appare di straordinaria consapevolezza. Il minimalismo e l’approccio sottrattivo sembrano basarsi sul conoscere le caratteristiche di chi avrebbe fruito del videogioco. L’assenza di una spiegazione delle meccaniche affonda le proprie radici nell’interiorizzazione delle stesse a fronte di interazioni passate. Lo sviluppatore danese sembra quasi urlare, a tratti, “se hai giocato Luigi’s Mansion (o simili) avrai idea di cosa sta accadendo, a maggior ragione nella sua versione stilizzata”. 

Playdead ha optato quindi per una via precisa, diretta, di game design: sottraggo, perché so che sai. Una via che sottende la visione di un tipo di videogiocatore. Forse, si può partire da qui e spingersi anche oltre, utilizzando quest’osservazione per arrivare più in profondità. Dentro. Magari utilizzando una chiave di lettura capace di invadere e svelare l’intera concezione che Playdead ha del proprio mezzo di espressione, e che inevitabilmente ricade anche sul modello di racconto e sul tipo di messaggio che desidera veicolare. 

C’è un filo rosso che unisce Limbo e INSIDE, e su quel filo rosso vale la pena di insistere; d’altronde, il punto è sempre svelare chi sia, questo maledetto sognatore.

Sogno lucido, sogno ludico.

È necessario tornare indietro per andare avanti. Per la precisione, all’inizio di INSIDE, e al momento in cui si assume il controllo del bambino. Esiste pertanto un attimo precedente che non è conosciuto, rappresentato dalla discesa dell’avatar sul fianco della roccia.
INSIDE parte “in medias res”, catapultando il videogiocatore in un’allucinazione.

L’impressione è, quindi, di una presa di coscienza all’interno di un flusso pre-esistente; il che chiama in causa il concetto di sogno lucido.1
Banalmente, un sogno lucido è un sogno in cui il sognatore sa di stare sognando. In questo senso, non teme di scomparire e resiste alle leggi della fisica, tra cui la morte. L’atto di resistere al game-over si avvicina terribilmente al mancato risveglio dal sogno come difesa, che quindi può continuare secondo la volontà e le esigenze del sognatore/videogiocatore.

La partita non si conclude, ma continua perché lo si desidera e si ha coscienza che quella morte non è la morte, ma anzi va vinta per capire il significato più intimo del sogno. E cioè, per vedere i titoli di coda del videogioco.

In questo senso, Playdead potrebbe considerare il videogiocatore come un onironauta, un viaggiatore del sogno lucido; o meglio, del sogno ludico, un sogno che si esprime attraverso le strutture tipiche del videogioco. Per collegarci al discorso del paragrafo precedente, la consapevolezza di Playdead è proprio nell’orchestrare tutto l’impianto di INSIDE sulla similitudine tra sognatore e videogiocatore, con quest’ultimo che avrebbe avuto già altre esperienze di sogno e quindi saprebbe come muoversi attraverso di esso. 

Surrealismi. Golconda di Magritte, in alto; INSIDE, in basso. Il tema è la depersonalizzazione.

Dal punto di vista formale, si spiegherebbe perciò perché lo sviluppatore danese non si senta in dovere di esternare le meccaniche o fornire suggerimenti: non sarebbe una scelta di stile, ma qualcosa di più profondo.

Anche uno dei momenti più belli di INSIDE, quello in cui la “sirena” rende il bambino/avatar capace di respirare sott’acqua, diviene un test: se si è capaci di non morire annegati si è in pieno controllo, vincendo le ultime resistenze della realtà e abbracciando la prospettiva del sogno.

In questo senso, la concezione del Laberge del sogno lucido come senso di liberazione e completamento non può che legarsi intimamente a quella del videogioco quale mezzo di arricchimento e di espansione culturale, in grado di migliorare chi ne fruisce e di indurlo alla riflessione. Più specificamente, si potrebbe anche vedere al termine di INSIDE, con il raggio di sole che finalmente “bagna” il corpo della massa quasi-tumorale.

Quindi, muoversi in INSIDE significa muoversi in un sogno. In effetti, analizzando l’opera di Playdead secondo la concezione freudiana del lavoro onirico, è possibile individuarne i (quattro) meccanismi onirici che la governano. Quelli di condensazione e spostamento, in cui l’iconografia dei lavoratori senz’anima richiama il concetto di sfruttamento e più specificamente il terrore di un mondo grigio e senza arte, composto unicamente da catene produttive; quelli di rappresentazione plastica ed elaborazione secondaria, realizzati da un’immagine che riporta a un concetto astratto, restituendo alla memoria il significato più gradevole possibile al termine del sogno. In effetti, INSIDE si conclude (e dunque si conclude il sogno) proprio con la sensazione del tepore e della libertà, dimenticandosi dell’angoscia precedente.

Respirare.

Stabilito dunque che il videogioco è un sogno e il videogiocatore vive dentro il sogno, è arrivato il momento di capire chi è il sognatore, interrogativo posto fin dal principio. La risposta a questo punto non può che essere scontata: è l’Autore del videogioco. Il videogiocatore si muove coscientemente nel sogno di un altro, accettandone le regole e i compromessi; perde il libero arbitrio, pur di raggiungere il significato positivo del sogno ludico. 

In INSIDE, scorrono davanti agli occhi del videogiocatore le paure più profonde di Playdead che potrebbero essere interpretate, estensivamente, come il terrore (metanarrativo) di uno scadimento dell’industria specificamente videoludica.

Il che solleva un ulteriore quesito: “come reagisce il sognatore/Autore all’onironauta/videogiocatore?”

Post-modernità, sottovoce.

In un breve e interessante articolo di Matteo Sarlo su Globus, viene fatto notare che INSIDE potrebbe essere (anche) un inganno di prospettiva. E se il bambino fosse colpevole, e per questo inseguito? Legando questo spunto alle dinamiche del sogno, è possibile rinvenire tracce del conflitto tipicamente post-moderno tra Autore e Uomo (maiuscolo, perché collettivo).

In effetti, il sogno riceve in maniera negativa la presenza dell’elemento estraneo. Lo invita a uscire, a desistere, mentre il fruitore vuole andare dentro (inside). Lo conduce a fondersi con altri corpi in una massa informe e rovinosa, mentre gli scienziati osservano da fuori. 

Raccontare, raccontarsi, esprimere le proprie paure più profonde, comporta dolore e introduce un meccanismo premiale (cfr. con Nier Automata, di Yoko Taro): solo chi soffre può arrivare al termine del percorso. Anche il finale alternativo di INSIDE si conclude, dopotutto, con l’espulsione dell’onironauta dal sogno, che quindi torna a essere altro e diverso da chi l’ha navigato.

In questo senso, l’immagine precedentemente proposta dell’Ammasso e degli Scienziati, richiama quella dell’Autore che guarda il soggetto (anzi: la moltitudine di soggetti) cui l’opera è destinata. Una moltitudine gommosa e distruttiva, che cerca (inutilmente?) di emanciparsi dal racconto che gli è destinato. 

Gradi di separazione in BioShock (al centro) e INSIDE.

Il grado di separazione costituito dal vetro e dal tema del videogiocatore come esperimento, ricorda in effetti tantissimo la costruzione adottata da BioShock (Levine, Irrational, 2007). In quest’ultimo, l’interazione con gli altri personaggi avveniva sempre in maniera mediata, mai vis a vis: una metafora del rapporto che esiste tra chi il videogioco lo fa e chi il videogioco lo subisce. In maniera non dissimile, Playdead guarda la propria creatura, conduce il proprio sogno, costringendo i Videogiocatori a fuggirne.

Alla fine di INSIDE al sognatore rimane una sensazione morbida, un ricordo etereo, un momento di pace. Dopo aver attraversato miniere pericolanti, fogne spettrali, fattorie malsane è finalmente pronto a tornare alla realtà, alla propria vita, immerso nel verde e nel calore del sole. Muore, sapendo di morire; e stavolta, è pronto a risvegliarsi.
Eppure, in quell’attimo finale si avverte, sorrentinianamente parlando,

L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo.

Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza, 2013.

Era dentro. 

È uscito fuori.

AAS


NOTE:

1Al sogno lucido molto spesso si contrappone il “sogno a occhi aperti”, in cui si è immersi nella realtà ma non si ha consapevolezza totale della stessa. Un esempio? Questo tizio che guida per Tokyo ascoltando Paradise Warfare, dei Carpenter Brut.


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Hitman: l’evoluzione di un capolavoro sandbox

Hitman: l’evoluzione di un capolavoro sandbox

  • Vito Carluccio

  • 24 settembre 2021
  • noninteragire

Il vestito nero, la cravatta rossa, il codice a barre sulla nuca, la garrota e la pistola silenziata non possono che far pensare al killer su commissione più famoso della storia dei videogiochi: l’agente 47.
Intorno a questi elementi, la serie creata da Io Interactive è riuscita a costruire una IP identificabile anche solo con un sguardo: Hitman.

L’outfit dell’agente 47 è ormai iconico.

Questa forte riconoscibilità estetica va di pari passo con l’obiettivo e l’esperienza che la serie ha (quasi) sempre voluto restituire: farci interpretare un sicario nel modo più libero possibile.
Nelle prossime righe ripercorreremo quanto accaduto, e i grossi passi in avanti che ci sono stati, dal 2000 fino ad oggi. Certamente non senza qualche scivolone, il processo avviato due decenni prima ha portato verso una piena maturità, raggiunta con l’ultima trilogia.

Origini inaspettate

Forse non tutti sanno che il concept iniziale di Hitman: Codename47 prevedeva un gioco action, ispirato ai film di John Woo. L’agente 47 sarebbe stato lanciato nei luoghi più disparati a far incetta di cadaveri tra salti, pallottole e capriole. Un po’ come il poco fortunato Stranglehold (2007). La collaborazione tra Jonas Eneroth (produttore esecutivo) e Jacob Andersen (lead designer) fece spostare il progetto verso sponde più stealth, trovando fonti di ispirazione in Thief e Deus Ex.

Al netto di alcuni grossi problemi di IA e di una gestione dei salvataggi estremamente punitiva, ancora oggi è possibile giocare al primo capitolo datato 2000 e riconoscere l’embrione di una formula perfezionata in 20 anni di sperimentazione.

Sostanzialmente dal primo capitolo in poi, tutti gli Hitman hanno cercato di costruire mappe molto grandi in cui il giocatore veniva lasciato libero di muoversi alla ricerca dell’obiettivo da eliminare. L’approccio e le modalità con cui compiere la missione sono lasciate al giocatore, perlomeno entro i limiti dati dalla tecnologia e dal game design.

Nel concept iniziale Hitman avrebbe dovuto restituire un feeling simile ai film di John Woo.

Pochi script, tanti sistemi

Un’ambizione simile poteva essere raggiunta solo e soltanto attraverso la costruzione di sistemi unici, dettagliati e molto reattivi, senza dimenticare lo sviluppo di una IA complessa e stratificata. I risultati non sono sempre stati eccellenti; nel primo capitolo, ad esempio, l’IA può compiere azioni assurde e rovinare un intero piano orchestrato alla perfezione per via di uno spot attraverso il muro. Oppure, il ragdoll di Blood Mooney potrebbe far volare via la vittima spazzando via l’intera copertura.

Avanzando nei vari capitoli, però, Io interactive ha sempre più affinato questi sistemi e ampliato la varietà degli strumenti di morte e delle meccaniche di gioco. La formula sandbox del titolo si è arricchita esponenzialmente di capitolo in capitolo: non solo garrota, fucile e pistola silenziata, ma anche veleni, mine, esplosivi radiocomandati, lame e siringhe. A partire da Hitman 2: Silent Assassin, la possibilità di camuffarsi cambiando i vestiti (altro marchio di fabbrica) viene affiancata via via da altre possibilità: accucciarsi, nascondersi negli armadi, arrampicarsi sui tetti, appendersi dalle sporgenze, nascondersi nei cespugli e mimetizzarsi tra la folla.

Hitman 2: Silent Assassin introdusse diverse novità tra cui la visuale in soggettiva, la possibilità di abbassarsi e gli anestetici.

La complessità della serie ha raggiunto una certa maturità con Hitman: Blood Money (2006). L’IA era in grado di compiere azioni molto complesse, come perquisizioni, ricerca e sondaggio dei luoghi, sentire rumori, intimare al giocatore di uscire da aree off limits (senza sparare all’impazzata non appena si metteva un piede dentro la cucina di un ristorante). Ma non solo questo, le mappe avevano tantissime vie, ingressi laterali, passaggi sotterranei e postazioni sopra elevate. La moltitudine di sistemi comunicanti tra loro rendeva il gioco altamente interpretabile e a volte problematico e poco pulito. In effetti tutti questi sistemi assieme potevano creare situazioni paradossali, o semplicemente glitch e bug. Niente di realmente tragico ma il controllo dell’agente 47 in questo mondo pieno di variabili poteva risultare un po’ impreciso.

Il fallimento e l’importanza di Hitman Absolution

Dopo il successo di Blood Money subito si pensò a portare Hitman su nuova generazione, con il più alto budget mai avuto e con l’intenzione di proiettare la serie nel mercato di massa AAA.

Nacque quindi il nuovo Hitman Absolution, senza dubbio il capitolo più controverso della serie. Nelle intenzioni iniziale del team c’era l’idea di mantenere alcune meccaniche tipiche della serie ma spingendo molto anche sul versante narrativo ed action. Si attinse da Max Payne e Gears of War, ci si concentrò tantissimo sulle scene di intermezzo e su delle ambientazioni più ristrette e lineari, cosi da favorire lo sviluppo di una storia più coesa e di un’avventura più scriptata, meno sandbox.
Una direzione, insomma, quasi opposto a quella vista in Blood Money.

Hitman Blood Money ha delle mappe molto grandi e affollate. Molto più piccole di quelle che poi vedremo in HITMAN 2016.

Nel corso dei 7 lunghi anni di sviluppo però, il team non era più tanto convinto che cambiare cosi tanto la struttura fosse l’idea giusta, e quindi si cercò di tornare sulla strada iniziale. In pieno crunch, lo studio di sviluppo provò ad adattare il lavoro già svolto su Absolution virando di nuovo verso alcune vecchie formule. Il risultato è, come potete intuire, molto altalenante: il mix di elementi sandbox adattati a un prodotto originariamente pensato per essere più lineare ha portato a un risultato incerto. Soprattutto se si considera che i fan certamente non si aspettavano una esperienza cosi lineare.

Sebbene Absolution non sia stato accolto molto bene, all’atto pratico l’alto livello produttivo ha permesso di affinare l’IA degli NPC, i comportamenti della folla, le animazioni e le interazioni di 47.
Hitman non era mai stato così fluido: muoversi, sparare, tirare gli oggetti o eseguire takedown sono azioni molto bene strutturate e collegate bene all’IA, tutto è estremamente pulito e preciso.

Ma non solo. L’elemento più importante ai fini di questa disamina risiede nella modalità Contracts: una sorta di online in cui i giocatori potevano designare come bersaglio qualsiasi NPC presente nella mappa, ponendo delle condizioni specifiche per rilasciare dei contratti pieni di sfide. Dopo 4 anni dall’uscita, questa modalità aveva ancora cinquanta mila giocatori attivi al giorno. Giocare e rigiocare la stessa mappa ma con obiettivi diversi e strade diverse da percorrere, apriva un ventaglio sterminato di possibilità e questo fu il presupposto  per la creazione del miglior Hitman di sempre.

Controllare 47 in Hitman Absolution è una vera goduria, ci sono moltissime animazioni fluide e responsive.

HITMAN 2016 – Sandbox o morte

Siamo quasi giunti al termine di questo viaggio al fianco dell’agente 47 e ora metteremo da parte le vicissitudini commerciali che hanno portato all’accordo tra Io interactive e Square Enix (finito male dopo il primo capitolo) per analizzare la struttura incredibilmente complessa di questa nuova iterazione. Raccontare la storia produttiva e creativa di Hitman ci è servito per capire come si è arrivati alla creazione di quello che a conti fatti si può definire un vero e proprio simulatore di assassino.

La lezione imparata dal fallimento di Absolution e dal successo della modalità Contracts ha portato gli sviluppatori a pensare ad una sorta di soft reboot.
Ogni livello, ogni mappa è un vero e proprio gioco a se stante, con le proprie storie interne, con la propria conclusione e costruzione dei personaggi. Tutto avviene in una singola sessione di gioco ma non tutto è direttamente fruibile in una partita. Le mappe sono pensate e disegnate per essere rigiocate più volte, ogni elemento di gioco punta verso questa idea di game design, dagli spezzoni narrativi sparsi nella mappa e fruibili solamente i determinate situazioni, alle modalità con cui preferiamo eliminare i nostri obiettivi.

la quantità e la varietà di gadget in HITMAN ci permette di dare grande sfogo alla creatività.

C’è un sistema di ricompense incoerente con la trama, ma funzionale al game design: ogni qual volta completeremo una missione, in base al nostro punteggio, sbloccheremo nuovi gadget, nuovi punti di accesso e nuove armi. Capite bene che giocare una missione con o senza grimaldello può cambiare totalmente l’approccio, o cominciare la missione travestiti da tecnico audio cambia la prospettiva che abbiamo dello spazio. In una certa misura, la scelta di non fornire tutti i gadget alla prima run può essere considerata una limitazione al concetto di sandbox; però, d’altro lato, riesce a creare una progressione all’interno della stessa mappa. Ovviamente non saremo mai obbligati a rigiocare la mappa, ma sbloccare un nuovo gadget ci potrebbe invogliare a riprovare la stessa mappa.

L’unlock di queste ricompense è funzionale all’esperienza: gli sviluppatori vogliono mettere alla prova la nostra creatività e per farlo hanno deciso di dare qualche linea guida.

In quest’ottica rientrano anche le nuovissime “storie della missione”, una serie di passaggi che il gioco consiglia di fare per creare una sorta di linea narrativa che ti porta più vicino all’eliminazione dell’obiettivo. Anche in questo caso però la scelta del giocatore è sacra, queste storie non sono scriptate ma anche esse sono interpretabili ed inseribili nel flusso della nostra personale partita. Per esempio, una storia della missione ci potrà spingere a travestirci da dottore perché il nostro obiettivo ha fissato una visita medica, ma noi potremmo decidere di usare il vestito da medico per accedere alla vila senza però compiere la visita. Le storie della missione sono malleabili e soggette al nostro utilizzo. Nelle impostazioni poi è possibile disattivare le icone di aiuto e queste piccole situazioni previste dai game designer diventano molto più difficili da trovare e attuare, dovremmo affidarci al nostro udito e al nostro intuito.

Sebbene il sistema di sfide e di valutazione ci aiuti a capire le possibilità che abbiamo e assegni un punteggio al nostro agire, tutte le mappe sono interpretabili al 100% senza nessuna restrizione obbligatoria.
Il concetto di sandbox è alla base di tutto il game design, dai gadget dai multipli utilizzi alle armi, dai numerosi vestiti ai vari ingressi e passaggi.

Mumbai è una delle mappe più grandi e sorprendenti. Un intero spezzone d città ricco di edifici esplorabili e sistema fognario annesso.

Gli approcci consentiti sono diversi e soprattutto fluidi, senza soluzione di continuità. Possiamo entrare in una villa in stealth, travestirci da cameriere e mimetizzarci tre lo staff, imbracciare un mitra ripulire una stanza e scappare via tornando in stealth o cambiando vestito e sfruttando una storia della missione per scappare in auto.

Questa totale libertà di approccio è incredibilmente sorretta da una IA molto complessa: se le guardie dovessero scoprire un cadavere o un esplosivo durante una festa, farebbero evacuare gli invitati in modo ordinato; se dovessero capire che c’è un assassino nei paraggi manderebbero il loro protetto in una stanza sicura, a volte blindata, e inizierebbero la ricerca del giocatore per tutta la mappa.
Persino le morti accidentali vengono gestite in modo diverso: le guardie non si metteranno a cercare un eventuale assassino ma recupereranno il corpo del malcapitato, che verrà portato via dai luoghi pubblici.

C’è un sistema che gestisce il comportamento della folla, le reazioni agli spari, le interazioni con le guardie che magari cercano di farli evacuare in modo ordinata o il completo caos dato da una fuga disperata in pieno centro città.

A questo si affianca la gestione delle IA designate come guardia del corpo dei VIP che hanno dei comportamenti precisi. Come controllare le stanze prima che vi entri il proprio capo o delegare una guardia alla raccolta e messa in sicurezza di un arma incustodita, cosi da evitare di lasciare da solo il proprio protetto. In ultimo troviamo il sistema di evacuazione VIP: le guardie circondano l’obiettivo e lo scortano in modo attento verso una stanza sicura.

I sistemi sono complessi e comunicano tra loro prevedendo l’intervento del giocatore: tutto ciò è sorprendente e merita la giusta attenzione.

Le guardie hanno sentito uno sparo, si dispongono a diamante e si preparano a scortare via il VIP.
(Video credit AI and Games)

World of Assassination

Nel momento in cui scriviamo è disponibile sul mercato HITMAN III. Il capitolo finale di questa nuova trilogia iniziata nel 2016. HITMAN è diventato a tutti gli effetti una sorta di piattaforma chiamata World of Assassination e l’offerta è ricchissima. Acquistando l’ultimo capitolo sarà possibile integrare anche i due predecessori che in automatico riceveranno gli upgrade più recenti, sia grafici che di features.

Ben 21 livelli, con mappe complesse e variegate, dettagliate e ricche di opzioni. Inoltre la piattaforma offre sfide giornaliere, obiettivi elusivi a tempo e una campagna secondaria chiamata patient zero.

Tutte le mappe ci permetteranno di essere l’assassino che desideriamo. Veloce e spietato come John Wick, silenzioso e invisibile come Sam Fisher, impetuoso e aggressivo come Mad Max e perché no, un mix dei tre. La scelta è nostra.

Giocare con i sistemi può portare a situazioni davvero uniche.

Ad oggi non troviamo nessun motivo per non dare una possibilità a questa trilogia. Un vero e proprio parco giochi, l’esperienza sandbox più completa che abbiamo avuto modo di provare negli ultimi anni, grazie a un’offerta ricca e a un supporto costante..

Io Interactive è riuscita a rinascere dalle ceneri di Absolution ed ha confezionato un videogioco che non ha paura di essere un videogioco.
HITMAN è il sandbox degli ultimi 10 anni.

VC


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Outer Wilds e la conoscenza come progressione

Outer Wilds e la conoscenza come progressione

  • Vito Carluccio

  • 23 luglio 2021
  • noninteragire

[DISCLAIMER: Siamo consapevoli del fatto che Outer Wilds sia un titolo poco conosciuto, pertanto riteniamo necessario spendere qualche riga per presentarlo. Chi lo avesse già giocato o chi conoscesse il titolo può direttamente saltare al secondo paragrafo.]

Categorizzare un gioco come Outer Wilds è difficile. Partendo dalla banale definizione di wikipedia si potrebbe ritenere un Action-adventure open world; all’atto pratico, però, è molto più vicino ad puzzle game esplorativo.
Il gioco ci chiederà di esplorare diversi pianeti, studiare la loro conformazioni e le antiche rovine presenti per risolvere un grande mistero. Come in No Man’s Sky i viaggi spaziali sono importanti ma il fulcro dell’esperienza è da ricercare nell’esplorazione dei diversi mondi e nella risoluzione di un oscuro mistero che coinvolge la fine dell’universo stesso.

L’esplorazione dello spazio è molto più contenuta rispetto a No Man’s Sky. Impareremo a conoscere il nostro sistema solare dopo poche ore di esplorazione.

Chi siamo, da dove veniamo e…

Il giocatore è chiamato ad interpretare un alieno che abita un piccolo pianeta insieme alla sua specie. Questa particolare razza denominata “Hearthiani” è specializzata nell’esplorazione dello spazio e degli altri pianeti, alla ricerca di antichi manufatti e monumenti Nomai, una razza di precursori tecnologicamente molto avanzata, ormai estinta.

Non appena avviato il titolo ci ritroveremo sdraiati accanto ad un fuoco, il nostro compagno di campeggio ci dirà che il grande giorno è giunto: siamo pronti per il primo decollo verso lo spazio, dobbiamo solo recuperare i codici di lancio. Nessun dialogo è obbligatorio al di fuori di quello iniziale, l’universo è nelle nostre mani fin da subito. Recuperati i codici non dobbiamo far altro che salire sulla nostra navicella ed esplorare.

Il nostro pianeta Natale ci fa da tutorial, ma niente ci vieta di salire subito a bordo della navicella e partire.

…dove siamo diretti

Come abbiamo spiegato poco sopra, il giocatore interpreta un astronauta alla ricerca di vecchi manufatti e monumenti. La nostra missione, detta cosi, potrebbe sembrare alquanto tranquilla e lineare, magari anche poco avvincente. Ma dopo pochissimo tempo ci renderemo conto che la nostra direzione non è cosi scontata come sembra. Una volta fuori dal nostro pianeta natale scopriremo un sistema solare instabile, vicino al collasso. I diversi pianeti che orbitano intorno al sole sono, chi più chi meno, tempestate da catastrofi naturali e non; il nostro compito sarà scoprire cosa sta succedendo al nostro sistema solare e cercare un modo per impedire la distruzione dell’universo.
Inevitabilmente moriremo molte volte, ma la morte non è solo che l’inizio di questa meravigliosa e a tratti terrificante avventura.

Alcuni esseri sono bellissimi da vedere grazie anche alle loro movenze.

Ricomincio da capo, il game over non esiste.

Ogniqualvolta un asteroide ci colpirà, un vulcano ci scioglierà completamente o il nostro ossigeno finirà, moriremo. Ma con la morte non ci sarà una schermata di game over ad accoglierci, bensì un nuovo risveglio affianco al fuoco proprio come quello che abbiamo avuto appena avviato il titolo la prima volta. Siamo in un loop, immortali ma intrappolati nello stesso identico giorno. Ogni volta ci risveglieremo sotto le stelle e ricominceremo la nostra esplorazione dello spazio come se fosse la prima volta, proprio con Bill Murray in Ricomincio da capo (Groundhog Day del 1993).

Il loop è parte centrale del mistero dell’universo, dell’antica razza Nomai e delle catastrofi che affliggono i pianeti, ma non solo. Questa anomalia temporale è anche la principale colonna che regge il magnifico game design messo in piedi da Mobius Digital.

Dopo ogni morte, anche la più terribile, ritorneremo al falò iniziale. In compagnia del nostro amico Slate.

Il loop presente in Outer Wilds è particolarmente interessante per via della completa mancanza di accumulo che ha il titolo: niente punti esperienza, monete di gioco, armi o strumenti da cercare e collezionare. Non c’è nulla di tutto ciò. Il giocatore viene munito di pochi strumenti subito, e quegli strumenti resteranno con noi per tutto il tempo senza subire upgrade e senza aggiungerne altri. Ogni volta che moriremo ritorneremo esattamente all’inizio del gioco, e tutto quello che avremo fatto o raccolto tornerà al suo posto: reset completo.

Questa particolare scelta di game design ci permette di svincolarci dalla ricerca di loot o upgrade di sorta e ci spinge verso l’esplorazione più pura: pochi strumenti e tanta ricerca.

Dall’inizio alla fine avremo sempre gli stessi strumenti, imparare ad utilizzarli è fondamentale per ottimizzare l’esplorazione.

La conoscenza è la chiave della progressione

Come avrete ben capito Outer Wilds non presenta nessuna forma di accumulo, non ci sono nemmeno abilità da sbloccare. Dall’inizio alla fine il nostro avatar avrà sempre le stesse capacità e strumentazioni. Come si progredisce nella storia allora? Beh, l’unico strumento che effettivamente ottiene una progressione è la nostra mente, ovvero la conoscenza che acquisiamo man mano che esploriamo e sperimentiamo (oltre che la nostra capacità di ottimizzare la navigazione tramite la navicella o l’utilizzo efficiente degli strumenti).

Durante i nostri viaggi potremmo incappare in delle rovine Nomai e studiandole con il nostro traduttore potremmo apprendere che quel luogo un tempo era utilizzato per tracciare una luna che di tanto in tanto scompare. Eccoci qui a smanettare con la tecnologia aliena pronti a risalire alla fonte del loop e perché no, al più grande mistero del mondo: “L’occhio dell’universo”.

Il traduttore ci permette di studiare a fondo la civiltà Nomai per scoprire i loro segreti e obiettivi.

Il gameplay di Outer Wilds è molto razionale: come sostenevamo in apertura, di fatto si tratta di un puzzle game molto complesso, pieno di variabili e di sistemi che vanno prima studiati, compresi e poi usati e manipolati.

Nelle prime fasi si potrebbe rimanere sbigottiti e spiazzati di fronte alle anomalie della fisica quantistica. Ma studiandone i comportamenti, sia in modo empirico che in modo diretto dalle rovine Nomai, inizieremo a comprenderne il funzionamento e a manipolare queste reazioni per continuare ad esplorare.

I buchi bianchi di Rovo Oscuro richiedono sperimentazione empirica per riuscire a comprendere il funzionamento.

L’universo è vivo, si muove: i pianeti compiono le loro rotazioni in modo realistico e le lune che vi orbitano attorno possono alterare i pianeti stessi (proprio come fa la nostra luna con la Terra). La gravità varia da pianeta in pianeta e con essa anche la modalità di esplorazione (un pianeta con alta gravità ci costringe a cercare percorsi di scalata anziché compiere salti molto alti per superare gli ostacoli).

C’è un pianeta ricoperto d’acqua e dilaniato dagli uragani, un altro letteralmente bombardato da mini-asteroidi provenienti dalla luna vicina, un altro ancora che viene ricoperto di sabbia col tempo… tutto è in costante mutamento. Diventa quindi fondamentale agire in modo tempestivo, è importante trovarsi in un determinato punto ad una determinata ora per poter scoprire qualche rovina, o magari un ingresso di una città fantasma sotterranea. Esiste sempre la possibilità di mancare il momento giusto e perdere l’occasione di scoprire qualche punto di interesse, o magari ci schianteremo nel tentativo di raggiungere un’antica tecnologia. In questi casi, è il loop a venire in nostro soccorso: alla prossima morte potremo riprovare e riprovare, imparando dai nostri errori, affinando le nostre abilità e ampliando le nostre conoscenze. In questo aiuta molto la dimensioni ridotta dell’intero universo, navigabile in pochi minuti, soprattutto per i piloti più esperti.

Il mistero della vita, l’orrore cosmico e la fisica quantistica

Spoilerare Outer Wilds sarebbe un delitto terribile:ci farebbe troppo male sapere di aver privato o rovinato le sensazioni che riesce a trasmettere un’intuizione giusta, un pezzo del puzzle perfettamente incastrato. Parlare dei temi che affronta è complicato, lo faremo senza scendere nel dettaglio ma piuttosto spiegandone il mood e alcune situazioni decontestualizzate.

Come abbiamo detto, l’esplorazione dell’universo può essere molto veloce, se si è esperti e informati, ma la scoperta e lo studio di esso è quanto di più vicino a 2001: Odissea nello Spazio, quanto meno nei momenti finali del film o quando entra in scena il misterioso monolite. Il gioco è ricco di momenti inquietanti di difficile comprensione, accompagnati da musiche sempre calzanti e misteriose. Il primo incontro con la roccia quantica ci riporta lo straniamento provato ammirando il monoliti di Kubrickiana memoria, la tensione è alta e la comprensione delle leggi fisiche che regolano il suo comportamento è sfuggente nelle prime battute.

Siamo sicuri che il comportamento bizzarro della roccia quantica farà uscire di testa più di qualcuno. Va studiata!

L’esplorazione dell’universo ci porterà presto a capire che c’è un piano superiore che collega ed intreccia i Nomai, il loop e la creazione dell’universo stesso. Troveremo diverse informazioni riguardo a questo “Occhio dell’universo” e studiarne le relazioni ed i legami che ha con quanto sta succedendo è affascinante quanto terrificante, ineffabili quanto gli esseri partoriti da H.P. Lovecraft.

Le frequenze e le note musicali giocano un ruolo importante, sia come guida nel vuoto dell’universo che come panacea utile a stemperare la tensione. È come se la musica fosse una costante anche attraverso i diversi piani dimensionali, giungendo fino ad un valore creazionistico così come nell’universo creato da Tolkien, ma meglio non andare oltre.

Ogni personaggio principale possiede un strumento musicale e può diventare un punto di riferimento durante l’esplorazioni, basta puntare il microfono direzionale per provare ad orientarsi.

La fisica quantistica che regola molte situazioni, oggetti, momenti e pianeti è difficile da comprendere e complessa da manipolare. Ci sono rocce che scompaiono non appena giriamo lo sguardo e interi luoghi visibili e visitabili solo e soltanto dopo aver compreso il funzionamento della materia quantica. I Nomai sono spariti dall’universo ma si sono lasciati dietro tecnologie, studi, laboratori e città che nascondono misteri pronti per essere svelati.

Io ne ho viste di cose…

Outer Wilds è un tripudio di emozioni, si passa dal sense of wonder più tipico delle space opera alla dolcezza di alcuni momenti rilassati, dallo sgomento provato la prima volta che si ammira l’esplosione di un corpo celeste al terrore cosmico provocato da luoghi impossibili e indecifrabili.

L’impatto visivo del titolo sorprende per direzione artistica più che per potenza grafica. Gli effetti particellari sono curatissimi e l’illuminazione dinamica provocata dalla rotazione dei pianeti intorno al sole può regalare dei momenti di contemplazione unici.

I pianeti sono molto variegati, letali e bellissimi da vedere.

Outer Wilds è un piccolo grande gioiello venuto dallo spazio che ci racconta l’universo con delicatezza e sostanza. Questo è un titolo che mette alla prova la mente e l’intelletto del giocatore prima ancora che le abilità e la capacità di accumulare. Il premio però non è il solito loot, il numerino che cresce o le monete in game. Giocare e completare Outer Wilds restituisce emozioni, esperienze e situazioni che in nessun altro media potremmo mai vivere.

Vivendo ed esplorando questo splendido gioco, forse potremmo sentirci più vicini al povero Roy Betty (Blade Runner, 1982) e anche noi potremmo dire:

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:
i gemelli clessidra che danzano connessi dalla sabbia intorno al sole,
e ho visto i buchi bianchi di Rovo Oscuro, cosi piccoli eppure così immensi.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia.
È tempo di giocare.”

Outer Wilds typical player

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Amare, ancora, The Witcher 2

Amare, ancora, The Witcher 2

  • Alfredo Savy

  • 30 giugno 2021
  • noninteragire

Analizzare The Witcher 2 dopo un decennio dall’uscita è un compito arduo. La principale ragione di tale difficoltà è la presenza di un successore tanto acclamato da pubblico e critica da averlo oscurato, relegandolo spesso al ruolo di “fratello di mezzo” tra il primo capitolo, che ha avviato la leggenda videoludica di Geralt e soci, e il famoso terzo. 

Eppure The Witcher 2 oggi rappresenta ancora un momento particolare all’interno del processo evolutivo di CDProjekt, sia nel rapporto con il materiale originario di Andrzej Sapkowski che dal punto di vista ludico, in senso lato. La struttura adottata dalla SH polacca, il sistema di pesi e contrappesi nelle scelte, l’incedere senza pausa della trama e la sacralità dei luoghi virtuali  attraversati durante l’intera avventura sono un unicum per carattere e connessione con la narrazione, che si fa sempre più fitta e intricata atto dopo atto. 

Una concept art embrionale di Flotsam. Ricorda il primo The Witcher.

Pur non riuscendo quindi a penetrare nell’immaginario collettivo come The Witcher 3, il secondo episodio rappresenta un equilibrio tra le ambizioni di una Software House in rampa di lancio e il rispetto del materiale originale, che rimane sempre presente e utilizzato in maniera congrua agli obiettivi del gioco. The Witcher 2 è capace, pertanto, di emanciparsi dall’opera dell’Autore e, nello stesso tempo, di rispettarla. Una caratteristica che sia il primo che il terzo videogioco della saga perdono parzialmente.

The Witcher 2, The Witcher 3, Sapkowski, il medioevo, il nostro tempo.

[DISCLAIMER: DA QUI IN POI L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SULLA SAGA DI THE WITCHER]

Le sagome vaghe, dai contorni imprecisi, continuavano ad avanzare in una lunga fila senza fine. Nel passarle accanto giravano la testa. Triss soffocò un grido nel guardare quei visi indifferenti, impassibili, gli occhi ciechi, morti. Non riconobbe la maggior parte di quei volti. Ma alcuni sì. Koral. Vanielle. Yoèl. Axel il Butterato… «Perché mi hai portato qui?» sussurrò.

Ciri si voltò. Sollevò una mano. Un rivolo di sangue colò lungo la linea della vita, attraversò il palmo e raggiunse il polso. «È la rosa. La Rosa di Shaerrawedd. Non è niente. È solo sangue. Il Sangue degli Elfi…»

Il Sangue degli Elfi, di Andrzej Sapkowski.

The Witcher 2 in effetti cuce e scuce un filo rosso che si dipana da “La Signora del Lago” (Sapkowski, 1999) e arriva a Wild Hunt (CDProjekt, 2015): supera il brillante escamotage della perdita della memoria di Geralt, funzionale all’immedesimazione tra il videogiocatore non lettore e Geralt stesso. Inoltre, lega quanto accaduto sui libri e quanto si sarebbe poi realizzato nel capitolo conclusivo tramite nuovi personaggi e avvenimenti, preparando il terreno all’introduzione di Ciri, Yennefer, la Caccia Selvaggia e tanti elementi fino ad allora sapientemente tenuti sullo sfondo. 

Nonostante sfrutti il ponte narrativo aperto dal secondo, The Witcher 3 abbandonerà poi quasi completamente i raffinati intrighi di corte e l’andamento cerebrale dei fatti, per raccontare una storia intimista, emozionale e direttamente collegata al lavoro di Sapkowski, di cui si offre – senza arroganza alcuna – come successore non canonico. Dovendo funzionare anche come starting point per i nuovi giocatori, Wild Hunt procederà inoltre a numerose semplificazioni degli eventi di Assassins of Kings, dalle fazioni in gioco alla presenza di protagonisti quali Iorveth o Saskia, tagliati durante la produzione del titolo.

La mappa di Vergen. È decisamente più complessa di ciò che sembra.

Il processo di normalizzazione investe non solo la trama, ma anche le meccaniche e il quest design: crafting e soprattutto alchimia diventeranno molto più accessibili, il combattimento ancora più votato a un sistema action e il peso della gestione di inventario ed exp decisamente meno stringente. The Witcher 2 si preoccupa vigorosamente meno di “prendere per mano” il giocatore, attraverso una composizione poco guidata dell’esplorazione e delle stesse missioni. Un esempio può essere quello di “Sangue Reale”, un incarico di Vergen: il giocatore non viene dotato di un elenco di compiti da svolgere per arrivare a una soluzione certa sull’avvelenamento della Vergine dell’Aedirn, bensì gli è offerto un ventaglio di azioni che possono portare a un sospetto più o meno fondato, a cui far corrispondere una scelta basata anche e soprattutto sul suo sistema di valori. 

The Witcher 2 presenta un sistema complesso di scelte, di bivi, binari, input e output. Il più evidente di questi è, ovviamente, la biforcazione tra i sentieri Iorveth e Roche, sulla base di una decisione presa nella paludosa Flotsam; ma non è l’unico. La possibilità di decidere della sorte di Re, pogrom, destini di Stati e di amanti conferisce al gioco un mood unico, insieme a uno scenario che si apre lentamente, disegnando un manifesto di controllori e controllati che, compreso nella sua totalità, sa rapire e sorprendere a distanza di anni. Anche in questo caso, l’opera di riduzione di Wild Hunt diventa evidente dal momento in cui il finale del gioco dipende quasi interamente dal modo in cui viene trattata Ciri durante la campagna e non da ramificazioni più o meno intricate durante la main. Per non parlare della politica, letteralmente risolta in una scazzottata in un teatro.

Shaerrawedd, di Edward Barons.

Come suggerito in apertura, The Witcher 2 riesce a connettersi intimamente ai grandi temi della Saga letteraria. La citazione all’inizio del paragrafo non è casuale: il lavoro di CDProjekt deve tantissimo al substrato cartaceo de “Il Sangue degli Elfi”,da cui mutua alcuni temi chiave, quali il razzismo e la riflessione su umani e mostri. Più precisamente, il richiamo alla rosa di Shaerrawedd, meta di Ciri e Geralt nel libro, è realizzato mediante il ricorso alla rosa del ricordo, per ripristinare la memoria dello Strigo, raccolta proprio in quei bagni elfici tanto devastati dall’incuria e dal trascorrere del tempo ma ancora dotati di un’intrinseca vitalità. Lo stesso Iorveth, di passaggio su carta, trova qui nuova centralità e importanza mentre esplode il dilemma sul confine tra terrorismo e partigianeria, a seconda dell’angolo visuale adottato. E non è un caso che proprio all’elfo ribelle venga assegnata una frase chiave sul destino dell’umanità, direttamente rielaborata dalle parole di Zoltannel successivo “Battesimo del Fuoco”. L’intero impianto politico attinge a gran voce da una componente che pure è presente nella Saga letteraria, soprattutto nel soggiorno di Dijkstra a Lan Exeter e nel più famoso golpe di Thanedd, o ancora nelle mistiche riunioni tra i sovrani del nord, tenute in palazzi polverosi e freddi.

Sembra insomma che gli sceneggiatori di CDProjekt abbiano fatto propria una grande lezione concettuale di Sapkowski, considerando il mondo dove si agitano le avventure di Geralt e compagni come un gigantesco foglio bianco da riempire, in cui ambientare una storia innovativa nel contenuto ma, allo stesso tempo, connessa a quelli che sono i leitmotiv pedagogici fondamentali, tratti sia dalla riflessione dell’autore polacco che dai corsi e ricorsi storici.

Bagni elfici.

The Witcher 2 è influenzato infatti dal nostro medioevo e dall’attualità in cui viviamo: mentre ritornano in tutta la sua potenza Nilfgaard e la litigiosità dei regni settentrionali, che forse da lontano richiama l’allargamento a Ovest dell’Unione Sovietica, allo stesso modo la sommossa dei contadini di Vergen non può non strizzare l’occhio a eventi realmente accaduti nel 1300 europeo, quali la rivolta di Wat Tyler o la Jacquerie del 1358, modulandone però lo spirito e inserendo altri elementi come Saskia, che evoca altresì la figura di Giovanna d’Arco come eroina popolare nello spirito del tempo e nelle canzoni successive. La delicatezza di CDProjekt nel trattare la sommossa di Vergen è encomiabile: mai si ricade in un dualismo buoni/cattivi, ma vengono espresse in maniera dignitosa tutte le istanze sociali, la rabbia che genera barbarie, la struttura feudale della società e il rapporto tra un futuro re e i suoi sudditi.

Una concept art di The Witcher 2. Si nota chiaramente l’ispirazione: un medioevo gotico e superstizioso.

La contesa della Lormark tra Aedirn e Kaedwen, lo stato fantoccio della Dol Blathanna, la spartizione eventuale della Temeria tra Henselt e Radovid, il vertice di Loc Muinne, la guerra a bassa intensità tra le Bande Blu e gli Scoia’tael edificano un tessuto connettivo di grande impatto e immediatamente riconoscibile al giocatore per le somiglianze con eventi del Novecento, in particolare quello polacco. Episodi quali il corridoio di Danzica, la divisione della Polonia prevista e attuata dal patto Molotov-von Ribbentrop, la questione della Crimea o della Palestina sembrano aver affascinato le penne della Software House di Varsavia e inducono il fruitore alla riflessione.

The Witcher 2 è nei suoi luoghi.

Al di là delle elucubrazioni sulla natura del titolo, la magia di Assassins of Kings è nella gestione del proprio spazio ludico. Al netto di una mappa dall’estensione contenuta, gli sviluppatori di CDProjekt sono riusciti a caratterizzare in maniera eccellente i luoghi che vengono di volta in volta visitati da Geralt: questo non vale solo dal punto di vista architettonico, ma anche e soprattutto nel modo in cui i punti di interesse vengono distribuiti. Attraverso il sapiente uso di gole, sentieri stretti, cave, miniere, vegetazione e percorsi obbligati, si crea una finzione di grandezza a cui viene accoppiata la cura per i dettagli e per l’ambientazione. Anche la palette cromatica, decisamente desaturata rispetto a The Witcher 3, regala la sensazione di un mondo enorme, selvaggio, degradato, perso.

La monumentalità di Lobinden.

Sin dall’assedio al castello dei La Vallette, The Witcher 2 investe risorse nella raffigurazione di un’oscurità in divenire, resa con un linguaggio iconografico ben delineato in cui esplode la miniatura medievale, la pietra viva, il legno delle taverne, la bellezza nascosta all’interno di luoghi ormai dimenticati. Flotsam è putrida, corrotta ma circondata da una foresta monumentale in cui è possibile sentirsi smarriti e avvertirne comunque la sacralità.

I bagni elfici in cui Geralt e Triss riposano congiungendosi, prima di un tumultuoso incontro con gli Scoia’tael, richiamano un mondo antico, perfetto, con i gemiti degli amanti che si perdono tra le mura antiche. E creano una scenetta che sembra uscita direttamente dalla penna di Sapkowski, per umorismo e delicatezza. Lobinden è viva, con i suoi mostri, troll, altari, nascondigli di banditi, zoticoni che ne vivono ai margini o elfi legati intimamente ad essa. Di notte le finestre delle case illuminano fiocamente una squallida piazza dov’è stata tenuta una barbara esecuzione, mentre si organizzano bagordi e feste presso la residenza del governatore Loredo: la gestione dell’urbanistica si mischia con le caratteristiche psicologiche dei personaggi, dai bastardi ai disperati. Delle prostitute spiano ciò che accade nelle stanze delle maghe, in un bordello al secondo piano: le assi sono marcite, aprendo un buco nella parete. E nel frattempo la sapiente regia di CDProjekt rivela l’omosessualità delle due donne, con una carrellata su dei dildo primitivi che inizialmente appare umoristica ma poi emerge tragicamente nello scarto che separa la sopravvivenza e il desiderio. The Witcher 2 è sempre un po’ così, in bilico tra il tremendamente serio e il tremendamente faceto, tra il caricaturale e il drammatico.

La deprimente Flotsam si illumina al calare della notte.

Vergen invece è immaginata come una labirintica città nanica, imperniata nella roccia; CDProjekt adotta una struttura a dedalo per confondere il giocatore, dandogli l’impressione di essere in un luogo letteralmente strappato alla montagna e in cui è difficile orientarsi. Attraverso dei passi alpini si raggiungono nidi di arpia, casolari diroccati, relitti abbandonati; si esplorano altresì le viscere urbane, attraversando delle miniere sigillate dai nani per bloccare un grande male (l’ennesima citazione al Signore degli Anelli). Si respira la difficile convivenza – ancora più che a Flotsam, ma con un pizzico di speranza – tra dignitari reali e contadini, tra umani e non umani, pronta a esplodere quando finalmente vengono messe in discussione le certezze di un mondo destinato a essere sorpassato. Il disordine di Vergen diventa emblema di una forza militare disorganizzata e improvvisata, mentre si intensifica il mistero sull’avvelenamento di Saskia e l’ambiente diventa narrazione.

Al contrario, il ramo Roche condurrà Geralt all’accampamento Kaedweniano. Visivamente la struttura del campo si oppone idealmente a quella della città nanica dall’altra parte della terra maledetta, con tende e simmetrie. Anche in questo caso, la gestione delle macro-aree di CDProjekt però non tradisce, regalando molteplici punti di interesse ai confini e nel sottosuolo del forte. Anche a livello naturalistico, i dintorni dell’accampamento si distinguono spesso dai loro equivalenti cittadini mediante l’utilizzo della costa, in particolare nel luogo di esecuzione di di Sabrina Glevissig: emerge in maniera chiara la scelta dei dev di rendere altamente rigiocabile il titolo, offrendo però un’esperienza sensibilmente diversa anche da un punto di vista prettamente visivo.

Vedere la costa è una (quasi) prerogativa del ramo Roche.

Il clou di The Witcher 2 è, però, rappresentato dalla città elfica abbandonata di Loc Muinne, in cui i potenti del mondo devono ridisegnare il proprio spazio politico, una specie di Yalta in salsa witcher. L’estetica del gioco diviene addirittura mistica, spostando l’asse in maniera definitiva su una visione del fantasy tipicamente est-europea.

I colori vengono ulteriormente sfumati, a voler presagire un destino cupo; viene edificata una ragnatela fognaria al di sotto della città, accessibile da una piazza centrale dal vago sapore gotico, che funge anche da hub per commercianti e minigiochi. Loc Muinne sembra nascondere dei segreti di un tempo ancora precedente a quello elfico, risalenti ai Vran probabilmente sterminati da un’epidemia, le cui informazioni verranno recuperate da Emhyr (senza, purtroppo, un seguito narrativo in Witcher 3).

La presenza dei regnanti – Radovid di default, Henselt ed altri a seconda delle scelte del giocatore – conduce alla creazione di numerosi accampamenti, che possono essere ostili a Geralt nel caso in cui le decisioni prese lo abbiano portato in conflitto con alcune fazioni. The Witcher 2 si comporta quindi in maniera reattiva, facendo reagire il mondo di gioco a seconda del path imboccato.

Riprendendo il discorso di apertura, CDProjekt è stata brava nel costruire ogni area in modo da farla sembrare più grande di ciò che è veramente. Dal punto di vista spaziale, le macroregioni in cui è scomposta la mappa (sistema a open map) sono legate tra loro in maniera decisamente intelligente, permettendo non solo di eseguire più quest in luoghi vicini, ma allo stesso tempo di non farli percepire come tali.

In Loc Muinne si intrecciano passato e presente.

Poco sopra abbiamo parlato della missione Sangue Reale: non solo si compone di più task apparentemente indipendenti, ma è possibile svolgerle in località contigue. Queste meccaniche quality of life sono ancora una volta segnale di uno sviluppo accorto e furbo, capace anche di mascherare alcune deficienze e pattern ripetuti degli NPC, come gli elfi di pattuglia alle porte di Vergen che vanno e vengono sempre nella stessa direzione a ogni passaggio del giocatore. Piccolezze che si perdonano.

Recuperare il fantastico.

Ma non è tutto qui. Pur lavorando su un simulacro di medioevo – o, che dir si voglia, a una restituzione visiva dello stesso – CDProjekt è riuscita anche a inserire l’elemento squisitamente fantastico, in un modo che tanto ricorda quello originale di Sapkowski.

The Witcher 2 è anche e soprattutto una storia di draghi e maghe: la presenza di Saskia, figlia di Borch e ulteriore trait d’union tra carta e controller, permette di inserire una caratteristica decostruzionista ma allo stesso tempo fondamentale per un fantasy. Saskia è un drago, ma anche una donna emancipata e forte, ideologizzata al punto giusto; è un degno contraltare della figura delle maghe, che decidono di prendere in mano le redini del mondo tramite la Loggia, prima di finire in un gioco del trono più grande di loro. La scrittura dei personaggi tiene realmente in piedi lo spettacolo: doppiogiochisti, egoisti, fragili, eroi si contendono la scena, senza che le azioni siano mai banali. Tutto questo è in grado di far dimenticare a tratti anche un combat system dal feedback relativo, o una curva della difficoltà – per fortuna regolabile – inizialmente un pizzico troppo punitiva. 

Geralt medita nei pressi del campo Kaedweniano.

A risaltare, ovviamente, è la figura di Geralt come distorsione del concetto di principe, ora semplicemente un professionista, che deve cercare di far coincidere la propria vita personale, minacciata dalla perdita della memoria e da un nome macchiato per un assassinio mai compiuto, e un universo in continua espansione. Un ammazzamostri che, come nella Saga di Sapkowski, cerca di mantenersi neutrale (con buoni margini di interpretazione lasciati al giocatore, sia chiaro) rispetto al Palazzo, ma che viene continuamente condotto a gravitare tra Re e governanti con piani spregevoli o semplicemente assurdi. In tutto questo, il nostro Strigo deve pur vivere: e torna anche qui il fantastico, con i contratti inseriti all’interno di una narrazione forte, incessante. Non si avverte, al contrario di The Witcher 3, un particolare senso di urgenza che pone in contrasto la struttura ludica e le necessità dell’avatar (per approfondire: ne abbiamo parlato a lungo nell’analisi di Cyberpunk 2077).

Nonostante la ricerca di Triss e dei regicidi tecnicamente metta fretta a Geralt, c’è sempre un evento (il Kayran, il campo di battaglia maledetto, il summit) che blocca il raggiungimento dell’obiettivo, e che richiede di svolgere un numero considerevole di attività per superarlo, tra cui anche il semplice potenziamento delle abilità e dell’equipaggiamento, molto spesso addirittura reso obbligatorio (o caldamente consigliato) dall’incedere delle quest. Insomma, tutti i pezzi sono al posto giusto.

Geralt combatte con arpia, olio su tela.

Dieci anni dopo, The Witcher 2 è un gran gioco.  A tratti più complesso, coraggioso e originale del successore.

Un gioco capace di equilibrare le esigenze di un racconto nuovo al rispetto del materiale da cui trae ispirazione, in un incastro di citazionismi impliciti e rimodulazione di questioni note.
Un gioco capace di rappresentare una certa visione del medioevo e legare ad essa l’elemento del fantastico.

Un gioco che, nonostante alcune storture, peccati di gioventù e ingenuità, si lascia amare ancora.

AAS


NOTE:

1 La citazione a cui si fa riferimento è la seguente:

«Non prevedo nulla di buono per la vostra razza», disse cupo Zoltan Chivay.
«A questo mondo ogni creatura intelligente che cada in povertà, in miseria e in disgrazia è abituata a unirsi ai propri simili, perché insieme è più facile resistere ai tempi difficili, perché ci si aiuta a vicenda. Invece tra voi umani ognuno bada solo a come guadagnare sulla miseria altrui. Quando c’è una carestia non si divide il cibo, ma si mangiano i più deboli. Un procedimento del genere si riscontra fra i lupi, permette di sopravvivere agli esemplari più sani e più forti. Ma tra le razze intelligenti di solito una simile selezione permette di sopravvivere e di dominare ai peggiori figli di puttana. Traete da soli conclusioni e previsioni.»

Zoltan Chivay, il Battesimo del Fuoco.

Iorveth in The Witcher 2 dice questo. Il concetto è lo stesso. Probabilmente espresso in maniera più elegante.

I concept di The Witcher 2 sono presi da questo blog; le immagini monumentali, da questo album. Appartengono ai rispettivi autori; noi consigliamo di visitare entrambi i siti.


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I videogiocatori dovrebbero pretendere più Ueda dall’industria

I videogiocatori dovrebbero pretendere più Ueda dall’industria

  • Vito Carluccio

  • 18 giugno 2021
  • noninteragire

L’industria dei videogiochi ha subito una forte crescita negli ultimi 20 anni. Si è passati da giochi sviluppati in due o tre anni a vere e proprie epopee di sviluppo lunghe dai cinque agli otto anni.
Le notizie di crunch (Cyberpunk 2077 o The Last of Us part 2), di giochi cancellati a metà dello sviluppo (Scalebound o Silent Hills) fanno meno rumore di tutti i record di vendite che si stanno registrando. L’industria è in ascesa, almeno dal punto di vista degli incassi. Tutto bene direte, però qualcosa sta sfuggendo di mano e riteniamo importante che noi videogiocatori ne prendiamo atto.

Il dato da cui partire per capire cosa riteniamo che non stia andando per il verso giusto è, ovviamente, la tipologia di giochi che vanno per la maggiore.
Nemmeno a dirlo, i titoli che vendono di più hanno quasi tutti qualcosa in comune: la violenza e la quantità smodata di meccaniche presenti.

The 15 Highest-Grossing Video Games Of The Decade according to GAMERANT:

  1. Minecraft (200 Million Units)
  2. Grand Theft Auto V (145 Million Units)
  3. PlayerUnknown’s Battlegrounds (70 Million Units)
  4. Mario Kart 8 (44 Million Units)
  5. Red Dead Redemption 2 (37 Million Units)
  6. Terraria (35 Million Units)
  7. Animal Crossing: New Horizons (32.5 Million Units)
  8. The Elder Scrolls V: Skyrim (30 Million Units)
  9. Diablo 3 (30 Million Units)
  10. The Witcher 3: Wild Hunt (30 Million Units)
  11. Call Of Duty: Modern Warfare (30 Million Units)
  12. Call Of Duty: Modern Warfare 3 (26.5 Million Units)
  13. Pokemon Sun & Moon (25 Million Units)
  14. FIFA 18 (24 Million Units)
  15. The Legend Of Zelda: Breath Of The Wild (24 Million Units)

Come possiamo notare, in quasi tutti i videogiochi più venduti degli ultimi 10 anni si spara, si sgozza, si taglia e si uccide. Ma non solo. In molti c’è l’open world, ci sono attività secondarie, ore e ore di gameplay decentrato dal tema principale atto ad allungare l’esperienza di gioco. Certamente questo non si può considerare un problema oggettivo, ma non è difficile pensare che ci sia qualcosa che non va nell’industria. Siamo circondati da giochi che vogliono intrattenere prima ancora di comunicare.

L’interazione data dai videogiochi permette di creare esperienze uniche. Esperienze che gli altri media come cinema e musica non possono dare. Ma perché ci si limita quasi solo a sparare e uccidere per infinite ore? Forse i videogiocatori sono ancora troppo giovani per desiderare altro?

Oggi non siamo qui per capire da dove provengono queste tendenze, se la colpa è dei videogiocatori, dei produttori, della società consumistica o di tutte queste cose messe insieme. Oggi siamo qui per offrirvi un’alternativa. Un modo diverso di fare videogiochi, un modo diverso di sfruttare le possibilità date dal media. Vi parleremo degli altri giochi, quelli che non sono bulimici, quelli che cercano di trasportare un messaggio sfruttando appieno le potenzialità del media senza allungare il brodo.
Vi parleremo del design sottrattivo e dell’importanza che ha l’unione tra gameplay e tematiche.

Design Sottrattivo: less but better.

Questa filosofia ce la spiega chiaramente Fumito Ueda stesso attraverso lo sviluppo del suo primo capolavoro: ICO.
Ueda ci spiega che per raggiungere il suo obiettivo elimina prima ancora di aggiungere.
Si chiede: qual è il cuore dell’esperienza? Cosa voglio trasmettere? E dalle risposte a queste semplici domande inizia ad escludere tutte le meccaniche di gameplay o le situazioni che non convergono verso gli obiettivi ed i messaggi del gioco.

La cura riposta nel semplice arrampicarsi abbraccia a pieno il concetto di “less but better”.

Se nel processo a produttivo una feature, seppure divertente, dovesse risultare fuori fuoco: va eliminata.
Questo è, in estrema sintesi, il design sottrattivo: eliminare il superfluo piuttosto che allungare il brodo.

Sebbene i giochi di Ueda siano riconosciuti come i massimi esponenti di questa filosofia, ce ne sono altri che hanno abbracciato questo modo di fare: Portal, Braid, Silent Hill Shattered Memories, Undertale e tanti altri.

Il problema è che questi titoli sono vere e proprie mosche bianche, ancor più rari se si pensa al panorama Tripla A. Di fatto solo giochi come The Last Guardian o, per certi versi, Death Stranding rientrano nella categoria (entrambi con vendite non esaltanti).
Un mezzo comunicativo che sfrutta i milioni quasi esclusivamente per intrattenere e divertire non è un buon portatore di messaggi. Sarebbe strano se l’industria cinematografica tirasse fuori solo Avengers, Tropic Thunder e Fast and Furious, no?

Death Stranding è uno dei pochi titoli tripla A che ha provato ad eliminare il superfluo, o quanto meno ad integrarlo nel messaggio.

Abbiamo bisogno di più Fumito Ueda

Come detto poco sopra, l’industria attuale produce una quantità di giochi bulimici, strapieni di contenuto con diverse meccaniche ripetute. Questo genere di produzione, per forza di cose, decentralizza i temi ed i messaggi di cui si fa carico l’opera. Sì, in Horizon Zero Dawn si tratta di ambientalismo, ma all’atto pratico il giocatore è chiamato solo a colpire dei robottoni per diverse ore fino alla prossima cutscene. In Gears 5 si trattano temi sociali e politici: fascismo, rapporti umani, relazioni tra Stati ed ideologie diverse, eppure si passa tutto il tempo a sparare e sbudellare.

Attenzione, capiamo che la condivisione di questi temi e questi messaggi passa anche come sottotesto tra i dialoghi, le cinematiche ed i file di testo sparsi in giro, ma troppo spesso l’assimilazione di tali questioni è relegata a fattore secondario o terziario, lasciata totalmente all’interesse del giocatore più acculturato. Si abbandona qualsiasi velleità comunicativa ed educativa, si parla solo a coloro che sono predisposti ad ascoltare, senza cercare di comunicare in modo forte e diretto anche ai gruppi di persone meno disposti a un’interazione più mediata. Nei giochi di Ueda non è così.

In Gears 5 ci sono momenti toccanti e discorsi politici, dopo ore ed ore di sbudellamenti.

ICO, NICO e TRICO

Giocando ad ICO ricorderemo per sempre che tutte le meccaniche hanno a che fare con la collaborazione con Yorda. La si prende per mano, la si protegge dalle ombre, la si aiuta a salire sulle sporgenze, ci si siede accanto per salvare la partita, ci aiuta ad aprire le porte e tutti i puzzle sono pensati in quest’ottica: collaborare per sopravvivere. Non c’è nient’altro nel gameplay, non ci sono missioni secondarie, non ci sono venti armi diverse, non ci sono chest da aprire, non ci sono distrazioni. La cura riposta nei pochi elementi di gameplay ha fatto scuola in questa prima opera. I titoli successivi, pur avendo più budget, non hanno mai esagerato in quantità di feature e meccaniche.
Prendere per mano Yorda e portarla in salvo ha una potenza comunicativa impareggiabile, la ragazza sembra avere una vita, si ferma, si stanca, inciampa e bisogna strattonarla.

La fisica che regola Yorda quando la prendiamo per mano è curatissima.

Il discorso può essere traslato chiaramente anche su Shadow of the Colossus, ove tutte le meccaniche e le feature hanno un solo fine: abbattere i colossi. La mappa è completamente vuota, non ci sono mob, non ci sono trappole, non ci sono impedimenti nella forbidden land, non ci sono perché non servono. C’è solo Wander con la sua spada e il suo arco, accompagnato dal suo fido destriero Agro e tutte le meccaniche del gioco ruotano intorno a questo.

La cavalcatura è curatissima, le animazioni dei colossi sono spaventose ancora oggi nel 2021 e la forbidden land, vuota com’è, riesce a trasmettere un messaggio senza pensare all’intrattenimento, svuotandosi di collezionabili o eventuali combattimenti con dei mostri sparsi qui e li. Non c’è crafting, non ci sono armature o armi, non ci sono livelli o abilità da sbloccare, c’è solo quello che è necessario al fine. Anche la cavalcatura assume un ruolo importante nel game design, non è solo un orpello o un modo per muoversi più veloce. Ci sono colossi che richiedono lo sfruttamento del cavallo, le meccaniche di gameplay annesse hanno un utilizzo concreto e la cura con il quale sono state realizzate le animazioni di Agro è sintomo di dedizione e concentrazione in tutti gli elementi di gioco, niente è lasciato al caso.

Agro come Yorda ha una fisica slegata dal giocatore e la cavalcatura risulta realistica.

In ultimo, abbiamo The Last Guardian, anche qui il design sottrattivo ha guidato lo sviluppo.  Tutte le meccaniche sono focalizzate nella collaborazione con Trico. Lo si accarezza, comunichiamo con lui, lo utilizziamo come vero e proprio componente mobile dei puzzle ambientali. Dobbiamo nutrirlo, istruirlo e compatirlo. Il lavoro fatto sull’IA è sbalorditivo, chiunque ha, o ha avuto, un animale domestico può riconoscere in Trico il tipico comportamento di un cucciolo: affettuoso, talvolta aggressivo, pigro o iperattivo, irrispettoso e dispettoso. Le animazioni sono semplicemente perfette, dalla corsa ai salti fino al semplice sostare su superfici sconnesse. Trico è vivo ed è importante che lo sia, anzi, è centrale. Non a caso Ueda ha preferito saltare una generazione e aspettare 15 anni per avere la tecnologia adatta (inizialmente sarebbe dovuto uscire su PlayStation 3, poi slittato su PlayStation 4).

In questo genere di opere ci sono “poche cose”, estremamente curate, ma soprattutto dirette verso un fine, un esperienza, un messaggio, un tema. Nessuna incoerenza o dissonanza, la comunicazione attraverso l’interattività non prevede distrazioni, questo è quello che ci manca oggi.

Le animazioni di Trico sono procedurali e rispondono ad una grande varietà di input

Come possiamo vedere, in tutti e tre i titoli la cura per il dettaglio è semplicemente fuori scala: animazioni, meccaniche, level design, estetica e contenuti. Ma non solo questo, basti pensare che dallo studio dei vestiti, delle costruzioni e dai nomi che hanno i personaggi che popolano l’universo di Ueda si è risalito al fatto che molto probabilmente ci troviamo in un passato remotissimo, milioni di anni fa. Questo si deduce anche dalle altezze dei personaggi (molto basse) e, se vogliamo, giustificherebbe anche le “irrealistiche” cadute da altezze considerevoli (abbracciando le teorie, non confermate, che vogliono la gravità diversa in passato). Come dicevamo, niente è lasciato al caso.

Il famoso youtuber Nomad Colossus ha calcolato le altezze dei personaggi dell’universo di Ueda.

Non denigrare quello che abbiamo, ma pretendere che ci venga dato dell’altro

In conclusione vorremo sottolineare il fatto che qui non si condannano a prescindere titoli come Watch Dogs, Horizon o Gears of War. Ci piace l’idea che titoli cosi imponenti abbiamo dei sottotesti per niente banali. Sottotesti che ad alcuni arrivano in maniera efficace, ad altri arrivano meno, anche se innegabilmente presenti. L’auspicio però è che parallelamente a queste produzioni dall’impronta prettamente intrattenente ci siano progetti e lavori più focalizzati sul messaggio, più coerenti nella messa scena e nelle meccaniche, senza perdersi in collezionabili, fetch quest, e combattimenti di 1 vs 100.

I messaggi di Far Cry sono nascosti dietro centinaia di animali uccisi per ingrandire le nostre borse.

I videogiochi possono fare di più, possono sfruttare meglio l’interattività per comunicare senza per forza di cose “divertire tutti” o piacere a tutti. Fumito Ueda lo ha sempre fatto e pochi altri come lui. Abbiamo bisogno di loro, abbiamo bisogno di più Fumito Ueda, ma forse non li avremo mai se non impareremo a pretendere più serietà in un mezzo che non deve, e non può, essere sempre e solo svago.

VC


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Frostpunk trasforma il Videogiocatore nel Leviatano

Frostpunk trasforma il Videogiocatore nel Leviatano

  • Alfredo Savy

  • 9 giugno 2021
  • noninteragire

Nella vita primitiva non vi è la presenza dell’arte; alcuna società costituita; e ciò che è peggio, la paura continua, il pericolo di una morte violenta; la vita dell’uomo è confinata nella solitudine, nella povertà, nella sporcizia, nella brutalità e infine la durata della vita è alquanto breve.

Thomas Hobbes, Leviatano, 1651.

Nel 2018 lo sviluppatore polacco indie 11 bit studios ha dato alla luce Frostpunk, un videogioco gestionale post-apocalittico che parte da una premessa semplice: dopo un importante evento climatico, la Terra è ormai quasi completamente ghiacciata e ci si aspetta che possa andare sempre peggio.

Ambientato in un’età vittoriana alternativa e caratterizzata da una forte dimensione steampunk, Frostpunk vede gli operosi uomini britannici di fine Ottocento affrontare il cataclisma nell’unico modo che conoscono: rimboccandosi le maniche. E così abbandonano le città, edificandone di nuove attorno a un generatore di calore; ciò condurrà alla nascita anche di New London, nuova casa per gli infreddoliti abitanti d’Albione.

La città deve sopravvivere?

Se la premessa di Frostpunk è lontana da un profilo di originalità – trattandosi di un ribaltamento  concettuale di Mad Max, tra i tanti – il modo in cui tale causa di giustificazione si riverbera nelle meccaniche di gameplay e codifica un determinato discorso è tutt’altro che banale.

Frostpunk è un videogioco politico. Ciò non sorprende, poiché 11 bit studios ha già dimostrato di sapersi districare in materie spinose con il precedente This War of Mine (2014), un ottimo survival sorprendentemente ispirato all’assedio di Sarajevo; in un certo senso, però, mentre quest’ultimo si poneva l’obiettivo di spingere il videogiocatore a riflettere delle atrocità nei confronti della popolazione civile perpetrate da un conflitto armato vicino nel tempo, il fine di Frostpunk è più stratificato. Da un lato, infatti, è un gioco dalla meravigliosa estetica che approccia le linee del fantastico e dell’ucronia più pura, insistendo su una chiave prettamente emozionale; dall’altro è un freddo trattato di scienza politica e filosofia del diritto, capace di cavalcare alcune tematiche che fondano la dicotomia Autorità – Libertà.

Videogiocatori e Leviatani, NPC e individui.

Andando in profondità, appare subito chiaro che l’escamotage narrativo – oltre a conferire un’innata dose di fascino da fine del mondo al videogioco – serva come piattaforma concettuale per restituire visivamente l’idea di stato di natura di matrice Hobbesiana (dall’opera di Thomas Hobbes, 1588-1679). Il territorio che si affaccia all’esterno di New London è infatti sconfinato e ferale, dominato unicamente dalla tempesta e dalla roulette biologica. 

Hobbes, Locke e Rousseau. Una comparazione sul contratto sociale.

In effetti, questa visione culturale in cui viene opposta la creazione di una società civile al caos del più forte, ribalta quella aristotelica dell’uomo come animale socievole. L’essere umano viene identificato, piuttosto, come una creatura dall’intrinseca conflittualità senza alternative che sottomettersi a un Sovrano, come moltitudine gommosa, al fine di invalidare le prevaricazioni individuali, dell’uomo sull’uomo. In tali circostanze non può far altro che emergere, maestoso, il mostro marino del Leviatano: un’autorità centralizzata e stabile, con il compito di strutturare un comando positivo sottraendo i destinatari da una condizione di perenne incertezza.
Insomma, è la nascita dello Stato.

In Frostpunk tale avvenimento, nella sua accezione più atomizzata, quella di città-stato, è simboleggiato visivamente dall’accensione del generatore. Il generatore è un fuoco prometeico attorno al quale si crea il pactum unionis, la prima fase di contrattualizzazione sociale. Gli NPC accettano di essere guidati dal Videogiocatore, emerso dal nulla proprio come il Leviatano di Hobbes e nei confronti del quale si sottomettono (pactum subiectionis), affidandogli il potere assoluto.

Non è un caso che il tutorial di Frostpunk presenti immediatamente al Capitano l’utilizzabilità del Codice, una raccolta di editti che modellano la società secondo gli obiettivi fissati di volta in volta. Dal lavoro minorile alla durata dei turni produttivi, la Legge è strumento di garanzia non in termini di appellabilità nei confronti di chi l’ha emanata ma di semplice certezza del diritto e della riconoscibilità autoritativa del redattore.

Una panoramica del Codice. In chiaro gli editti attivati dal giocatore.

La Legge diventa lo strumento del Leviatano-Videogiocatore; gli NPC-cittadini, ognuno con bisogni e compiti individuali, rappresentano invece una metafora del passaggio dalle società armoniche (oggi intese in termini di formazioni sociali dai sistemi costituzionali) all’individuo appropriativo. Una riedizione videoludica della modernità.

Alla base del contratto sociale di Frostpunk c’è la sopravvivenza. La comunità diviene tale perché desidera sopravvivere: solo in base all’incapacità gestionale del leader si potrebbe andare incontro a una forma di recedibilità, nella misura in cui sia Videogiocatore che NPC possono essere allontanati da New London.

Malcontenti e speranze.

I due indicatori che governano la partita e ne determinano l’eventuale game-over sono quelli del malcontento e della speranza. Solo apparentemente sovrapponibili, il malcontento riguarda l’insofferenza verso le politiche sociali ed economiche del Leviatano, mentre la speranza afferisce al considerare New London più vivibile del mondo che i coloni si sono lasciati alle spalle. Ci sono numerose interazioni tra le due grandezze e differenti modi in cui alcuni parametri possono variarle in meglio e in peggio: scarsezza di cibo, lontananza o spegnimento del generatore – e quindi mancanza di fonti di calore – condizioni lavorative e sanitarie. Al Leviatano è lasciata la possibilità di effettuare un fine tuning tra le necessità, individuali e collettive, degli NPC per stabilire dei punti di ottimo ed evitare il tracollo della città.

Ordine o Fede?

Ovviamente, il giocatore potrà costruire delle attività ludiche allo scopo di mitigare situazioni difficili. In questo caso, le parole di Etienne De La Boétie risultano quantomai attuali per descrivere le scelte di game design:

Ma l’astuzia dei tiranni nell’abbruttire i propri sudditi si dà a vedere nel modo più chiaro in quel che Ciro fece ai Lidi […] escogitò un grande espediente per assicurarsela: fece aprire bordelli, taverne e sale da gioco, emanando un’ordinanza che obbligava gli abitanti a frequentarli.

Etienne De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, 1576.

L’elemento post-apocalittico di Frostpunk sembra quasi risolvere l’elemento ostativo che aveva caratterizzato la dottrina filosofica di La Boétie, incapace di scovare il perché degli uomini liberi decidano volontariamente di sottoporsi a un sovrano, in una elegante commistione di necessità narrative e richiami intellettuali. Questo modus operandi costituisce un elemento di distinzione rispetto ad altri gestionali di grande successo come – ad esempio – la serie Tropico.

Un po’ di fascismo…

Non solo. A circa metà dello scenario principale “A New Hope”, che funge come campagna vera e propria, Frostpunk introduce un bivio politico, con il Videogiocatore-Leviatano che viene chiamato a scegliere tra Ordine e Fede. Per risolvere una crisi interna, New London potrà diventare una distopia religiosa oppure paramilitare, optando per una gestione dell’ordine pubblico sacerdotale o affidata a una milizia direttamente dipendente dal Capitano. 

E così, giungendo alla fine dei rispettivi percorsi, il Capitano si trasformerà in un Fuhrer ante-litteram o nel supremo sacerdote della sua personale religione, adottando in ogni caso delle politiche potenzialmente repressive. In questo caso è abbastanza palese l’influsso che potrebbe aver avuto BioShock Infinite sullo sviluppatore polacco: soprattutto nella ramificazione teocratica, New London sembra quasi indossare i panni di Columbia, con una spruzzatina steampunk in più e Art Noveau in meno.

…e un’esecuzione teocratica.

Dopotutto il generatore, appunto simbolo del potere costituito, veste le insegne religiose o squadriste del Capitano a seconda della scelta fatta in principio o dell’andamento all’interno del percorso; una volta concluso, sarà possibile ottenere perfino un comodo patibolo su cui eseguire condanne capitali e diminuire il malcontento, mentre la speranza si trasformerà in obbedienza o devozione. Chiudendo definitivamente quel pactum subiectionis, che diventa ora sostanzialmente non recedibile.

Moralità e necessità.

Survival’s not fair. No, it’s shit. It’s fear, and it’s greed. Fate pushed through the bowels of men.

Dunkirk, di Cristopher Nolan (2017).

Sebbene le coordinate ideologiche di Frostpunk rimangano quelle appena descritte, è necessario specificare come una partita permetta di modulare notevolmente l’intervento del Leviatano nella società, giungendo addirittura a una struttura più simile al pactum societatis tipicamente ricondotto all’opera di John Locke (1632-1704), in cui il Capitano assume i compiti di un regolatore e non di un tiranno. O almeno di un buon tiranno.

In generale, Frostpunk mette in continuazione il Videogiocatore di fronte a scelte morali che permettono di interpretare un determinato ruolo nella conduzione della società, un ruolo che si muove da quello del malleabile sindaco a quello dell’inflessibile generalissimo. Si potrà decidere se accettare o meno un numero sempre più alto di rifugiati; se investire in protesi oppure in eutanasia; se automatizzare i processi produttivi o delegarli al fattore umano; se esplorare i dintorni o risparmiare forza lavoro, tenendo sempre a mente la scarsità delle risorse, la progressiva diminuzione della temperatura e dello spazio, l’inesorabile passaggio del tempo. Oltre alla difficoltà intrinseca alla gestione di una città sempre più grande e con bisogni diversi, s’intende.

Sopravvivere ha un costo.

Frostpunk è un gioco complesso, un gioco che non fa sconti. E che, alla fine, tra i tanti pensatori utilizzati per costruirne il complesso substrato culturale, pare inserire anche Nietzsche. In particolare 11 bit studios pare citarlo nel momento in cui, al termine di ogni partita portata a termine, tirerà le somme sull’operato del Leviatano e su quanto sia costato far sopravvivere la comunità e se ne sia valsa la pena.

Frostpunk è uno specchio. E ci ricorda – collegandosi spiritualmente alla citazione di Dunkirk in apertura di paragrafo – quale sia il prezzo della sopravvivenza.

AAS


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Disco Elysium ovvero come ho amato la decadenza fin de siecle

Disco Elysium ovvero come ho amato la decadenza fin de siecle

  • Vincenzo Vecchio

  • 28 maggio 2021
  • noninteragire

[DISCLAIMER: questo articolo contiene anticipazioni sull’esperienza di Disco Elysium.]

Cosa penserebbe Kras Mazov, il padre della rivoluzione socialista e del materialismo storico, della misera metafora messa in scena in uno scalcinato club di lettura comunista di Revachol? Cosa penserebbe di una metafora che rappresenta la fragilità del sistema sociale tramite l’inevitabile collasso di una struttura interamente costruita con scatole di fiammiferi, costruita per noia o per divertimento nell’attesa che la prossima riunione inizi, proprio da alcuni adepti alle teorie della dottrina stessa? Penserebbe probabilmente che il fallimento della rivoluzione sia ironicamente intrinseco al percorso della storia. 

A dire il vero, questa è solo una delle possibili metafore che possono essere scovate tra le righe dell’intricato mondo in perenne conflitto sociale di Disco Elysium. Prima ed unica opera videoludica dello studio ZA/UM (scritto da Robert Kurvitz), concepita con la consapevolezza di essere il passo successivo nel genere di appartenenza. Senza disdegnare gli evidenti rimandi all’epoca d’oro dei giochi di ruolo occidentali e dell’Infinity Engine

Letture possibili

Un’ulteriore possibile lettura di Disco Elysium, è quella di un poliziotto alcolizzato all’ultimo stadio che annega nella sua stessa vergogna e nell’atroce consapevolezza della sua “ufficiale” inutilità, vera e propria nullità sociale, nella consapevolezza che la Legge a Revachol sia ormai nient’altro che un vezzo dello stato ultraliberale, a cui pochi nei quartieri poverissimi di Martinaise possono ancora permettersi il lusso di credere spontaneamente. Un poliziotto talmente sconvolto dall’alcol e dalle droghe – dopo una notte di solitario divertimento in una festa talmente privata da essere ad invito unico, ovvero se stesso – il quale cerca di distruggersi fisicamente e moralmente nel bel mezzo di un’inchiesta ufficiale, a proposito di un brutto omicidio. Anche quest’ultimo simbolo rappresenta un nichilismo sociale portato alle proprie estreme conseguenze.

Martinaise, un distretto di Revachol (o piuttosto Ravachol?), è infatti quel posto dove un cadavere rimane appeso per diversi giorni ad un albero all’interno del cortile dell’albergo di quartiere. Dove i cittadini comuni sono a proprio agio fumando una sigaretta al balcone proprio di fronte al cadavere in decomposizione, dove gli stessi cittadini non hanno nessuna repulsione a convivere con l’appeso mentre lo spogliano degli averi e dei vestiti, dove dei ragazzini giocano con il cadavere da diversi giorni. Ed infine, dove l’unico che fatica anche solo ad avvicinarsi è proprio il poliziotto stesso, bloccato fatalmente dai propri incontenibili conati di vomito. Un poliziotto ammaestrato da tanti anni di esperienza sul campo, ma che si ritrova senza risorse, colpito da un’imbarazzante amnesia che lo rende deficitario delle proprie caratteristiche analitiche, mentali, della propria autorità, che sono senza dubbio la base stessa per poter svolgere il lavoro che gli è stato affidato.

La prima spiacevole situazione.

Privati della memoria, ci si ritrova a chiedere spiegazioni ovvie di natura comune, sul passato, sulla storia, su che giorno sia in quel determinato momento se non perfino l’anno, sul posto in cui ci si trova o sulla prossima mossa da fare. Se ci sia stata la guerra e chi sia stato il vincitore. Se siete socialisti o piuttosto liberisti, se vi repellono le etnie diverse dalla vostra, se siete corrotti e corruttibili, se pensate che il male del mondo siano i grandi agglomerati industriali e finanziari. Se siete dalla parte dei vincitori o dei perdenti. Se pensate in definitiva di essere o no dalla parte giusta della storia. E se, al contrario, voleste giocare la carta dell’orgoglio e dunque non fare domande banali a sconosciuti che vi guardano come uno che dovrebbe impersonare la legge, per non scalfire l’immagine di voi stessi che faticosamente cercate di mantenere con dignità, ebbene sarete semplicemente al buio.

Ci si ritrova come l’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge, sprovvisto della benché minima volontà di affrontare un giorno di più di lavoro, di reagire ad un evento, di avere un moto di intraprendenza. Si è spaesati in un paesaggio geograficamente piatto, caotici nella riorganizzazione della propria vita e degli eventi. Per di più, accompagnati dal proprio sistema limbico – che dovrebbe in teoria garantire la vostra sopravvivenza quale valore primario – che vi invita costantemente al suicidio, e al proprio cervello rettile che predica quotidianamente la violenza come soluzione al minimo problema relazionale o anche solo lavorativo. Ma non ci si ferma qui, perché tutte le caratteristiche del personaggio interagiscono come fossero scisse dal personaggio stesso e si manifestano costantemente in un meraviglioso party da gioco di ruolo classico. Un’interessante schizofrenia, quasi un multi-personaggio non giocante, che vede la possibile malattia mentale diventare le varie parti che compongono il gruppo di cui il videogiocatore ha, più o meno, il controllo.

L’interazione di tipo testuale avviene persino con gli oggetti trovati nella mappa di gioco, colmi di dialoghi che si incastrano perfettamente con il resto della storiografia (è proprio il caso di dirlo), con le quest, i personaggi e gli eventi. È dunque una creazione del personaggio dissimulata in modo magistrale nelle maglie degli eventi, nelle domande che si riceveranno e nelle risposte che saranno date durante tutto il tempo di gioco. Se si sarà considerati fascisti, corrotti, idioti, benevoli, intelligenti o comunisti sarà solo per merito o demerito proprio. 

Il bellissimo skill set.

La storia fatta a pezzi

Nella piazza al centro di Revachol si trova un monumento equestre di gusto classico, un vecchio residuo della storia di cui nessuno conosce più il significato. La scultura fu ricucita insieme dopo che un’esplosione, durante la guerra, l’aveva fatta a pezzi. Se sia ritratto un eroe di guerra, un soldato ignoto, un intellettuale a cavallo delle sue idee, un semplice operaio o l’ultimo re (come in effetti è, si tratta di Philippe III), non ha nessuna importanza ormai. Non è un caso infatti che sia stata rappezzata a forza, lasciandola però come se fosse ancora ed eternamente esplosa in aria. Come se qualcuno avesse voluto cementificare una fotografia simbolica di quello che rappresenta oggi Revachol, dilaniata, divisa nel profondo ma tenuta insieme da sottili nervature di metallo che sanno di maldestra chirurgia d’emergenza. Revachol non è più in guerra, ma lo scontro sociale non si è mai fermato. Non si è mai firmata una tregua tra le diverse classi sociali, tanto che Martinaise è controllata dal sindacato portuale, che agisce da collante tra la popolazione, da polizia interna, da pacificatore in caso di problemi di ordine sociale, da welfare e ovviamente da organizzazione operaia. Elargisce mazzette, privilegi, progetta gli spazi cittadini e detta le regole di vita non scritte che saranno la barriera contro cui Harrier Du Bois – il poliziotto, cioè il rappresentante dell’ordine costituito, cioè la malattia mentale, cioè voi che videogiocate – si scontrerà costantemente, cercando di intaccare il guscio di incomprensione e incomunicabilità di una comunità che tende naturalmente a proteggere se stessa da un elemento di disturbo percepito come esterno

La scrittura di Disco Elysium è brillante. Le meccaniche da gioco di ruolo lo sono altrettanto, nonostante rimangano quasi invisibili al videogiocatore. La visione politica di ognuno conta, la vostra pure, i pregiudizi, l’ignoranza, le scelte affrettate, la logica mancata, l’onore e la vergogna, tutto vi viene riversato come un secchio di escrementi caldi sulla testa. E vi viene anche chiesto, gentilmente, di sorridere. Non è mica morto nessuno, in fondo.

Harrier Du Bois.

Noir e psicoanalisi

Invece sì, perché il vostro lavoro consiste proprio nel diramare la matassa in un caso di omicidio. Insieme all’assistente Kim Kitsuragi – la vostra ombra, il comune moralizzatore, il senso della misura – si dovrà risalire, come intrepidi salmoni, il torrente di menzogne e mezze verità che vi verranno addosso per dipanare il mistero dell’uomo impiccato. Ma vi accorgerete presto che l’omicidio non ha praticamente nessuna importanza. A nessuno importa del morto e in fondo nemmeno a voi. Tantomeno al morto importa più di se stesso, questo è evidente.

Lo scopo diventerà, prima di quanto si possa immaginare, inabissarvi nella vostra stessa anima, psicoanalizzando il vostro alter ego, rimanendo inesorabili con in mano un pugno di risposte senza senso e scalciando via alcuni dubbi persino su quello che pensate normalmente di voi stessi come persone. Disco Elysium è un videogioco che indaga la personalità alla stregua di un’ideologia politica. Spargendo al vento, come fossero molecole velenose, quattro diverse ideologie di cui prima o poi sarete preda: Comunismo, Fascismo, Liberismo, Moralismo (la morale considerata superiore al diritto), le quattro teorie che sono insite in uno qualsiasi dei dialoghi di Disco Elysium.

Va da sé che il percorso che si viene a delineare è suscettibile di cambiamento in base alla costruzione del personaggio. A titolo di esempio, la mia esperienza è stata piuttosto una questione di ferrea volontà, di un buon impiego di logica e di inaccettabili mancanze fisiche.

Harrier Du Bois è un poliziotto che ha perso il proprio distintivo (cioè il principio di autorità) e la propria arma (cioè la forza coercitiva). L’aver perso anche la memoria diventa quindi il giusto sotterfugio, abbastanza banale a dire il vero, per permettere ad una lavagna bianca di essere riempita. E non mancheranno di certo punti esperienza da assegnare, statistiche e gustosissimi bonus sotto forma di pensieri da sviluppare (il cosiddetto Thought Cabinet) in un dato periodo di tempo, per poter riempire a piacimento gli spazi vuoti dell’alter ego fino a trovargli una precisa collocazione sociale.

Ed è questo il punto di arrivo. Harrier Du Bois, senza il vostro imprinting mentale non riuscirebbe ad esistere in alcun modo. Non starebbe in piedi né fisicamente, a causa dei propri eccessi con l’alcol e le droghe, né mentalmente, a causa delle défaillance previste dagli sviluppatori. Un piccolo buco, costruito appositamente, dove inserire un pezzetto della vostra vera personalità. Questa è, in definitiva, l’esperienza che vuole regalare in primis Disco Elysium.

Planescape: Torment in tutta la sua bellezza.

Tutto è scritto

Tentare un’analisi di Disco Elysium vuol dire quindi sondare un universo di migliaia di parole che prima si scontrano e poi si incastrano. Di sottintesi spesso molto evidenti, ma anche di sfumature difficili da cogliere nell’immediato perché annegate in una marea di testo in cui è davvero facile perdersi. Una caratteristica questa che potrebbe essere considerata alla stregua di una logorrea descrittiva, ma che porta senza dubbio ad apprezzare un background narrativo talmente robusto e strutturato da sembrare l’opera preparatoria per un romanzo, se non addirittura il background tipico per accogliere una saga fantasy. Di fatti, molto del materiale utilizzato per scrivere Disco Elysium fu preparato proprio per un esperimento letterario di Robert Kurvitz, scrittore e co-fondatore di ZA/UM studio.

Disco Elysium è dunque a buon diritto un ibrido ben riuscito tra un romanzo e un videogioco. Anche per questi motivi la comparazione, che diversi hanno vivacemente sottolineato, con Planescape Torment è, anche a parere nostro, indovinata. 

I campi elisi possono aspettare

Planescape Torment è un videogioco del 1999, sviluppato da Black Isle Studios grazie al motore di gioco Infinity Engine e scritto dal leggendario Chris Avellone. Videogioco considerato unanimemente la più alta espressione nel genere di appartenenza, i computer role playing game.

Sono innumerevoli i chiari rimandi tra i due videogiochi: l’eroe senza nome perché amnesico. Il personaggio non giocante/spalla che conosce più cose sull’eroe dell’eroe stesso (Morte, un eccentrico teschio fluttuante in Planescape: Torment, il meticoloso e psico-rigido Kim Kitsuragi in Disco Elysium). La concezione non-lineare dello spazio/tempo (P:T. è ambientato nel multiverso di Planescape, un’ambientazione che si sviluppa quindi su diversi piani di esistenza, concepita per il gioco di ruolo da tavolo Advanced Dungeons and Dragons II° edizione, D.E. è ambientato in una fusione tra gli anni ‘70 del XIX° secolo e quelli del XX° che si potrebbe sintetizzare in: rivoluzione socialista, dopoguerra, avvento delle droghe, pessima disco music e pessimi vestiti). L’equilibrio naturale tra vita e morte, ovvero la morte di qualcuno che permette la rinascita dell’eroe (nel caso di P:T., la rinascita fisica del personaggio è consentita dalla contemporanea morte di un altro personaggio in uno dei piani del multiverso. Mentre in D.E. la faccenda è più sfumata e più terrena, un banale omicidio permette infatti all’eroe una rinascita di tipo spirituale, gli permette cioè di riprendere in mano la propria vita, quantomeno se si dimostra in grado di farlo). La base filosofica del racconto (in entrambi i videogiochi infatti la quest di fondo si può ridurre a nient’altro che “trova te stesso).

Le analogie si possono estendere anche alla costruzione tecnica del videogioco stesso. Entrambi i titoli utilizzano una visuale di tipo isometrico tipica dell’epoca d’oro dei computer role playing game. Entrambi narrano quasi esclusivamente grazie ad un semplice sistema di dialoghi a scelta multipla. Entrambi hanno un’interazione poco sviluppata o almeno tale potrebbe sembrare se comparata ad altri generi, un sistema di combattimento quasi controproducente o addirittura assente. Entrambi mostrano a schermo una quantità di linee di testo talmente prepotente da far pensare più ad un’opera scritta piuttosto che ad un videogioco. Un muro letteralmente insormontabile di testo che finirà per affaticare chiunque si metta in testa di scalarlo di buona volontà.

Non a caso, come dimostra la tesi sulla quantità elaborata nel materialismo dialettico da Friedrich Engels (nemmeno a farlo apposta) a partire da un certo numero anche la quantità diventa una qualità. Non è dunque un caso, marxisticamente parlando, che scritture così poderose portino a videogiochi dal respiro così ampio e profondo, oltre ad essere naturalmente apprezzati per tanti e diversi altri aspetti. 

Ravachol, chi altro?

François Koënigstein detto Ravachol, convinto socialista e anarchico francese, giustiziato nel 1892, simbolo stesso della rivoluzione disperata, è stato l’ispirazione per la città di Revachol in Disco Elysium. Una città, come si accennava già nel precedente articolo dedicato a questo titolo, in perenne rivolta. Rea di essersi voluta autogestire, colpevole per la propria volontà di indipendenza, una città divenuta simbolo di rivoluzione e dunque punita dalla comunità internazionale. Semi-distrutta con la forza della coercizione internazionale e dei bombardamenti democratici. La città della rivoluzione fallita, dove coesistono come fossero fuori dal tempo, vecchie glorie del passato che ricordano ancora la guerra rivoluzionaria, tecnologie poco affidabili dal gusto retro-futuristico, criminalità, alcolismo e droghe diventate vere epidemie, ideologie vecchie e nuove, medioevo e modernità, mitologia e paranormale.

Ravachol.

Un ambiente certamente ispirato alla cultura francese della Comune di Parigi, ma anche alle macerie del primo conflitto mondiale, alla rivoluzione russa, agli eccessi degli anni ‘70 del nostro novecento. Di fatti tutto il titolo rimbomba di sonorità francesi, nei nomi, nei luoghi e nell’atmosfera.

Revachol somiglia anche e soprattutto a Revanchisme, cioè spirito di rivalsa. Un atteggiamento tipico nell’opinione pubblica francese del dopoguerra franco-prussiano dovuto alla dolorosa perdita territoriale di Alsazia e Lorena. Un risentimento collettivo, una sorta di allargamento del sentimento di delusione ad un intero popolo, socialista nell’essenza e profondamente consapevole della propria identità comune ma mischiato perdipiù ad una sorta di perenne nostalgia del passato. Ognuno di questi aspetti è distillato con cura, goccia a goccia, nell’oceano fittizio in cui è immersa la costruzione di Disco Elysium. Una costruzione che sa di fine reinterpretazione e reinvenzione storica fin dalle primissime, splendide, righe di testo. E che non fa che migliorare a forza di scavare qui e là, tra la storia personale di un personaggio non giocante e la lettura di uno dei libri trovati in giro per la mappa di gioco.

La storia d’amore c’è

La storia d’amore c’è, è vero, ma è roba passata e perdipiù si confonde e diluisce ineluttabilmente con allucinazioni di tipo divino, impastate a lontani echi e ricordi di momenti felici che si trasformano prestissimo in un loop di sogni ricorrenti. Probabilmente la descrizione stessa dell’inferno. Harrier du Bois, eroe tragico e disilluso, diventa incredibilmente molle di spirito messo faccia a faccia ai suoi personali e tormentati ricordi.

La sua donna l’ha abbandonato. Una circostanza maledettamente infausta e banale. La storia inizia a diventare abbastanza chiara dopo una pietosa telefonata che sembrerebbe intercontinentale, dove il nostro devastato alter ego, biascica nonsensi e richieste ad una donna fredda, cattiva e idealizzata che lo tratta quasi con disprezzo. Harrier du Bois assume nel suo inconscio, ormai completamente in preda alla confusione, una divinità e la sua ex compagna, fuse entrambe in una singola figura mistica che ricorda più la concezione dantesca della donna, eterea, virtuosa e luminosa, piuttosto che la donna rivoluzionaria o la femminista arrabbiata degli anni settanta. Un errore di giudizio grossolano e fatale per Harrier du Bois. Una volta visto questo, ecco che si capisce subito il punto di rottura del personaggio. Un maldestro tentativo di rimettere insieme i cocci di un vaso rotto. Ancora una volta, una metafora immensa ed esaustiva dell’illusione umana, dell’interpretazione della realtà attraverso i propri bias cognitivi, della vita di Harrier du Bois, di Revachol, di Disco Elysium.

Harrier du Bois contempla il divino, è amore anche quello in fondo.

Il cattivo è un eroe

In ultima analisi, è difficile non pronunciarsi sul cattivo di Disco Elysium. L’unico responsabile dell’omicidio a sangue freddo del mercenario di cui Harrier du Bois è incaricato di risolvere il caso. Senza soffermarsi sui dettagli degli eventi, è utile in questo caso analizzare la figura in sé dell’omicida. Un vecchio, malandato, incattivito, nostalgico, che si nasconde da anni – dalla fine della guerra in effetti – e rifugge il ritorno in società. 

Anche qui, è difficile non notare l’aderenza del personaggio con l’incredibile storia di Hiroo Onoda (o di Teruo Nakamura), ultimo giapponese, o tra gli ultimi, ad arrendersi ai nemici della seconda guerra mondiale ben trent’anni dopo la dichiarazione ufficiale di resa del Giappone. Onoda fu ritrovato in una giungla filippina nel 1974 e rifiutava di credere che la guerra fosse finita

Iosef Lilianovich Dros, questo il nome del nostro omicida in cattività, prova disprezzo per il mondo attuale, per la modernità, per la rivoluzione fallita. Come il vecchio giapponese nella giungla, rifiuta il fallimento del progetto storico che era stato lo scopo della sua vita. Quello per cui aveva combattuto. E l’unico contatto con la società odierna non è altro che il mirino del suo vecchio fucile rivoluzionario, con cui scruta, interpreta e maledice la modernità.

Fin

Disco Elysium è in definitiva un esperimento di riscrittura della storia. A post soviet french island colony, ha scritto qualcuno su internet. Una frase che in estrema sintesi raccoglie, in tre o quattro parole, l’essenza stessa della concezione del background narrativo del videogioco. Un meraviglioso esperimento. 

VV


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BioShock insegna che i videogiochi sono delle gabbie cortesi

BioShock insegna che i videogiochi sono delle gabbie cortesi

  • Vito Carluccio

  • 14 maggio 2021
  • noninteragire

BioShock è una di quelle opere con cui prima o poi qualsiasi appassionato di videogiochi si ritrova a confrontarsi. Parliamo di un titolo che è già un classico, riconosciuto come uno dei capisaldi dell’intero settore. Di BioShock è stato scritto in lungo e in largo: si elogia Rapture, la sua architettura, la sua unicità, i personaggi che la popolano e il discorso politico che ruota intorno alla struttura ludica. Ma meno, forse, si è detto di un tema che pure è fondamentale nel lavoro di Ken Levine: quello della libertà del videogiocatore e del suo rapporto con gli sviluppatori.

Di libero arbitrio e interpretazione.

Ormai da decenni siamo inondati da videogiochi che promettono libertà di scelta, di approccio, di esplorazione e di interpretazione di un ruolo. No Man’s Sky, Deus Ex, Fallout e chissà quanti altri titoli ci permettono di scegliere dove andare, cosa fare, cosa dire e come fare.
Ma siamo realmente liberi di scegliere?

Il videogiocatore stesso può credere, in un momento embrionale del suo approccio al medium, di avere effettiva scelta e di essere parte modificante di un mondo virtuale aperto. BioShock è in grado di far accendere una lampadina, grazie al trait d’union tra gameplay e narrativa, invalidando quest’assunto.

In occasione dell’uscita di “BioShock: The Collection” è stato girato un documentario chiamato “Imagining BioShock”.

Il Director Ken Levine, nel documentario “Imagining BioShock” ha dichiarato che nella sceneggiatura ha voluto inserire un discorso di meta-gioco che ruota intorno alla questione del libero arbitrio presente nei videogiochi.

Per poter spiegare come BioShock esplori questo discorso è necessario un piccolo recap della trama a grandi linee. Da questo punto in avanti ci saranno pesanti spoiler.

Il videogiocatore è Jack. Inizia la sua avventura su un aereo precipitando nel bel mezzo dell’oceano. Sopravvissuto all’impatto, scorge in lontananza un faro: si avvicina e scopre l’ingresso di una città costruita nelle profondità marine. Rapture.

La città è in completa rovina, popolata da pazzi aggressivi e da esseri al limite dell’umano. Un certo Atlas, l’unica persona amichevole, chiede cortesemente di salvare la sua famiglia in pericolo e poi di fermare – sempre cortesemente – l’ideatore e creatore di questa città a suon di poteri e proiettili. Tutta l’avventura è indirizzata dalle sue direttive, richieste, indicazioni. Non c’è alternativa che seguirle. Scrupolosamente.

L’amichevole e cortese direttore dei lavori, Atlas.

BioShock è un gioco lineare, fortemente story driven; grazie a delle accortezze di game design e di scrittura, la sensazione che il giocatore abbia effettivamente potere di scelta però è forte. Questa sensazione, questo inganno, è presente in moltissimi videogiochi e fa parte di un patto tra il giocatore ed i creatori, derivante anche dalle ovvie limitazioni dei software e degli hardware.
Ad esempio, in Gran Turismo non si può scendere dall’auto e correre liberi per strada: il giocatore non se lo aspetta nemmeno e non trova che questa mancanza sia un problema. Il fruitore si sottopone volontariamente a un sistema di regole deciso da altri.
BioShock è costruito così: bisogna necessariamente completare gli obiettivi che ci vengono dati da Atlas se vogliamo arrivare ai titoli di coda.
Tutto normale, all’apparenza. In fondo “è un gioco story driven, quindi seguiamo la storia”.

Di imposizioni e inganni.

Insomma: chi è dall’altra parte dello schermo, accetta senza porsi nessun problema questo tipo di imposizione. Il simulacro di libertà, mediante delle parvenze di scelta capaci di ingannare il videogiocatore, deforma la percezione su chi stia, effettivamente, conducendo le danze. Le possibilità date dai plasmidi sono in grado di cambiare totalmente la nostra esperienza di gioco; possiamo anche scegliere se purificare o consumare le sorelline, esplorare le macro aree o andare dritti al punto.

Questi sono elementi che ci danno l’illusione di avere scelta, di poter interpretare Jack. Come già accennato nell’analisi di Prey, la decisione di dare questo nome al protagonista non è casuale. Jack non parla, non esprime emozioni e non vedremo mai il suo volto: tutte caratteristiche che permettono di immedesimarsi con l’avatar, di creare un legame, di sentirsi un po’ di più dentro la storia.
Il protagonista è un connettore tra mondo reale e mondo virtuale: appunto, un jack.

Nell’intro vengono forniti degli indizi riguardo al passato di Jack. Un’altra bugia.

Ma se Jack è il videogiocatore e il videogiocatore può scegliere come giocare, perché non può scegliere di visitare tutta Rapture? Perché non può decidere di andare dove gli pare o di scappare, magari ignorando Atlas?
Sebbene in un primo momento possa sembrare una forzatura data dai limiti del software e dalla necessità di trama – e in parte è anche così – nelle fasi conclusive sarà sarà l’impianto narrativo a giustificare la forzata obbedienza verso Atlas.
Quest’ultimo si rivelerà, infatti, come un manipolatore e un burattinaio capace di controllare completamente Jack, e quindi il videogiocatore. Noi. Grazie all’utilizzo di un banale “per cortesia” Atlas è in grado, biologicamente, di manipolare la nostra volontà.

Ken Levine e Shawn Robertson hanno a più riprese raccontato quanta cura sia stata riposta nella costruzione di Atlas: la sua voce, le sue parole e il suo comportamento dovevano ispirare fiducia nel giocatore. Solo in questo modo l’inganno poteva reggere.

La rivelazione nelle fasi finali è entrata nella storia, non solo perché rappresenta un plot twist ben scritto, ben riuscito e stupendamente messo in scena, ma anche per le correlate riflessioni sul ruolo del videogiocatore nel videogioco.

Scoprire di essere stati manipolati per tutto il tempo non restituisce il libero arbitrio.

L’inganno resta forte anche nell’unico vero bivio morale che ci viene sottoposto: salvare le sorelline o prosciugarle? Il gioco ci informa chiaramente che prosciugare le ragazzine porterà molti più benefici: più potere tutto e subito, grazie all’Adam, sostanza che che permette di potenziare l’avatar. Eppure all’atto pratico non sarà così. È vero che salvando le sorelline non otterremo Adam subito, ma nel lungo periodo saremo ripagati con doni molto più determinanti: tonici unici, plasmidi e anche Adam stesso. Gli sviluppatori ci hanno ingannato ancora, con lo stesso identico modo con cui ci hanno mostrato Jack mentre precipita con l’areo e ripensa alla sua vecchia vita.

Di contaminazioni transmediali.

Questo genere di trucco, mostrare qualcosa che poi si rivelerà falso, mutua certamente da alcuni film cult (usato spesso da Hitchcock, tra i tanti). Ken Levine stesso cita Fight Club come fonte di ispirazione, ma non è difficile rivederci anche I Soliti Sospetti di Bryan Singer.

Singer utilizza la tecnica detta unreliable narration (narrazione inattendibile), secondo la quale uno dei personaggi interni alla storia mente, ma quello che dice ci vien presentato come vero. Questo artificio viene poi spinto anche a livello registico: Singer ci mostra un flashback finto, basato su delle bugie, così come Levine ci mostra scorci di un passato che Jack non ha mai avuto e ci informa che prosciugare le sorelline ci darà molti più vantaggi, comunicazione inattendibile di una meccanica di gioco. La fiducia dello spettatore/videogiocatore verso l’Autore fa il resto: istintivamente crediamo a quello che gli Autori ci presentano come vero.

In Fight Club Il narratore inattendibile ci racconta fatti che poi saranno sbugiardati dal finale.

Il giocatore, così come Jack, è obbligato a compiere determinate azioni. Atlas ha una sorta di controllo mentale su Jack e allo stesso tempo il giocatore è intrappolato nelle regole dei game designer.

Ogni volta che videogiochiamo è come se fossimo nella caverna di Platone, in una teca per insetti. Il nostro mondo è limitato e le nostre possibilità sono dettate da un essere che nemmeno siamo in grado di vedere. Gli sviluppatori decidono cosa possiamo fare e ci impongono dei limiti che noi siamo obbligati ad accettare.

BioShock insegna che nei videogiochi non c’è mai libero arbitrio, c’è solo l’illusione di poter determinare il proprio destino. Anche i videogiochi più aperti, quelli a scelte multiple o con più finali, devono sempre rispettare le regole degli sviluppatori. Ci sono dei limiti, a volte tecnologici a volte artistici, e questi limiti non potranno mai essere superati.

In BioShock non siamo mai stati realmente liberi: potevamo scegliere come giocare, è vero, ma gli sviluppatori hanno deciso per noi dove andare, cosa fare e cosa vedere. Jack era nelle mani di Atlas tanto quanto noi eravamo in quelle di Ken Levine.

I videogiocatori sono stati sempre intrappolati in una teca per insetti, a volte molto grande, piena di giochi e costruzioni; ma pur sempre rinchiusi.
Crediamo di essere liberi, ma solo perché non riusciamo a vedere i confini del contenitore.

L’unica vera libertà che ci è concessa è quella di spegnere la console e decidere di non stare al gioco.

VC


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L’open world come obiettivo ultimo dei videogiochi

L’open world come obiettivo ultimo dei videogiochi

  • Vincenzo Vecchio

  • 23 aprile 2021
  • noninteragire

Un open world? Ancora oggi non è chiaro cosa dovesse veramente essere, almeno nelle menti di Hello Games, il progetto No Man’s Sky.

Fiumi e torrenti di inchiostro sono stati scritti difatti, migliaia e migliaia di parole per cercare di decifrare un universo teoricamente quasi infinito – perché generato da un algoritmo – ma che, alla prova dei fatti, risultava sorprendentemente semplicistico, al limite minimale: la sintesi in tre righe di un libro di mille pagine.

Ebbene, anche in questo ennesimo caso, ricorrendo la storia e la genesi di Sean Murray e di Hello Games,  si potrebbe fare una lezione universitaria sul funzionamento distorto della cultura dell’hype; sul marcio meccanismo di marketing aziendale che ingoia qualsiasi progetto che mostra il potenziale minimo dello stupore; sulle aspettative che tradiscono la realtà; sul funzionamento stesso della nostra società e, in ultima analisi, su quello straordinario specchio deformante che è l’immenso – questo sì, stavolta – agglomerato digitale familiarmente chiamato Internet. 

In sintesi, è lecito pensare che l’ambiente intorno allo sviluppo dei videogiochi e del suo cosiddetto mercato – la stampa di settore, la fantomatica community degli appassionati, le figure opache degli insider, fino ad arrivare ai veri e propri addetti ai lavori – sia ormai sproporzionatamente presente nel processo di sviluppo, tanto da consentirne, in casi come quello di No Man’s Sky, di deviarne persino l’essenza stessa del progetto.

No Man’s Sky, infatti, era stato concepito a dir tanto come un doppia A – gestito originariamente da appena sei persone – ma fu percepito fin da subito come tripla A, se non addirittura come il “the next big thing” dei videogiochi. Certo, anche grazie alle poco chiare dichiarazioni degli sviluppatori – roba da lasciar praterie libere alle speculazioni incontrollate – e alle promesse, o vere e proprie bugie, sulle caratteristiche del software in seguito non mantenute.

Il meccanismo che ha inghiottito Sean Murray e Hello Games non era però frutto solo delle falsità dichiarate dallo studio inglese ma anche di una sorta di allucinazione collettiva che, correndo spedita sui binari dell’hype, non sentiva ragioni nonostante avesse già da parecchio tempo deragliato.  

Come riassume bene Internet Historian in un magistrale video, spesso sono le circostanze che travolgono le persone ma, altrettanto spesso, si trova il modo di rimediare. Almeno in parte:

The engoodening of No Man’s Sky.

Hello Games, da allora, non ha fatto altro che portare avanti il progetto No Man’s Sky nonostante tutto: dapprima nell’assoluto silenzio stampa e in seguito attraverso la comunicazione di un dettagliato programma di aggiornamenti del software. È bastato questo per arrestare la giostra internettiana.

Quando il mondo intero era Fallout:

La base teorica del progetto era semplice quanto ambiziosa: allargare l’open world ad un intero universo generato casualmente. Non c’è bisogno di spiegare quanto questa operazione possa essere assolutamente relativa parlando di ambienti digitali e luoghi virtuali o in campo simulativo in generale. Quello che è rapportabile alla realtà non è, per forza di cose, riproducibile in una simulazione digitale. Nella prospettiva dell’odierna produzione videoludica tripla A sarebbe assurdo anche solo pensare di realizzare una mappa di gioco di uguale o inferiore estensione al capitolo precedente. Infatti, per dirla con le parole di Todd Howard:

Fallout 76 is four times the size of Fallout 4 […] it allows us to have sixteen times the detail.

Todd Howard

Nell’industria si ragiona solo a forza di fattori moltiplicativi.
Allo stesso tempo, viene elaborata una comunicazione – su questi fattori moltiplicativi – capace di esaltare il pubblico fino a fargli letteralmente urlare la propria approvazione, come se si trattasse delle caratteristiche fondanti del titolo ma senza circostanziare tali aspetti.

Insomma: non vengono fornite informazioni che possano spiegare meglio quali vantaggi si presentino per il videogiocatore nel momento in cui avviene una quadruplicazione dello spazio esplorabile. In questo modello di interazione decontestualizzata, la promessa di un’esplorazione potenzialmente libera e infinita di un intero universo poteva sembrare davvero il passo successivo.
The next big thing, per l’appunto.

Avete una mezz’oretta per esplorare l’universo?

Eppure, la teoria è corretta. L’obiettivo ultimo del videogioco, grazie al progresso tecnologico e alla sempre maggiore possibilità di riproduzione e creazione di mondi virtuali, non è più unicamente quello di raccontare una storia – caratteristica che rimane centrale e inamovibile in altri medium – ma la riuscita nella simulazione di uno spazio virtuale dove il fruitore possa incarnare il ruolo dell’esploratore. In altri termini: la libertà assoluta o, almeno, percepita come tale. 

E la storia dei videogiochi lo mostra abbastanza chiaramente in termini di evoluzione.

Intendiamoci, il primo Fallout aveva una mappa immensamente più grande (60,917 miglia quadrate) del suo quarto successore (9,743 miglia quadrate), ma si trattava di un mondo di gioco bidimensionale; non gestiva, infatti, la mole poligonale tridimensionale di Fallout4. Nonostante ciò, la mappa di Fallout4 risultava talmente densa, affollata di attività, di scoperte e di vita virtuale che la percezione in grandezza della stessa superava di gran lunga la propria reale estensione. 

Quindi la complessità e la verosimiglianza alla realtà dei due titoli non possono essere in alcun modo paragonabili. La concezione della mappa di gioco del primo Fallout, volendo azzardare un paragone, era molto più vicina a quella di un vero e proprio gioco da tavolo, dove il videogiocatore agisce da autentico deus esterno – non a caso sta letteralmente a guardare dal cielo – spostando pedine, tirando dadi, agendo insomma sulla realtà del mondo simulato con un distaccato e divino cipiglio. Quando si è passati alla visuale in prima persona, il cipiglio è andato via perché bisognava combattere per la propria pelle, perché la diversa prospettiva aveva forzato anche una consapevolezza diversa. 

Non si tratta peraltro di una questione di preferenze personali o di capacità di immedesimazione del videogiocatore: si tratta proprio di caratteristiche intrinseche, di diverse modalità di rappresentazione. Con il passaggio al 3D del terzo capitolo della saga di Fallout, si è dunque anche virato ad una diversa percezione, cambiando inesorabilmente anche lo spirito del videogioco. 

L’open world fino ad oggi è stato un enorme compromesso, in alcuni casi-limite anche un vero e proprio inganno che è arrivato a produrre spazialità desolate e desolanti. Un compromesso che ha portato al paradosso di riuscire a percepire persino la prevedibilità tipica della ripetizione estenuante della stessa attività, il cosiddetto farming, nelle infinite praterie di bit di certi mondi virtuali. Un modo questo di riempire vuoti evidenti del game design e della gestione del tempo di gioco in termini di libertà esplorativa, di attività e di vere e proprie scelte possibili.

Il recente Jedi Fallen Order ci invita ad esplorare cinque diversi mondi in cui poter viaggiare con la nostra astronave, i quali si rivelano essere né più né meno che cinque diverse mappe: spiazzi, corridoi, qualche foresta, alcune antiche rovine, un’astronave spiaggiata. La scelta dello sviluppatore è quella di costruire una spazialità contenuta ma funzionale all’esperienza: le mappe risulteranno quindi insolitamente giuste in estensione, nonostante per gli standard di un qualsiasi tripla A verrebbero giudicate come assolutamente insufficienti.

Mappa delle zone spaziali civilizzate in NMS.

Di qui ci si è chiesti se etichettare o meno il titolo come open world; anche se ne conserva parecchie caratteristiche e costruzioni di game design, è abbastanza chiaro che le dimensioni siano assolutamente relative e che la distinzione tra linear e open world e sandbox vada cercata sicuramente nella libertà di approccio al videogioco. In questo senso, Minecraft segna una rottura formidabile nel percorso, rendendo comprensibile e plastico in una simulazione virtuale, il sandbox, capace di esprimere una manipolazione quasi assoluta dello spazio di gioco in un ambiente virtualmente quasi infinito nelle dimensioni e nelle possibilità.

Libertà versus Narrazione:

È possibile realizzare nel medium videogioco un’oscillazione capace di spostare il focus dalla narrazione alla messa a disposizione di un open world/sandbox totale? In definitiva, . Infatti si tratterebbe di realizzare un videogioco perfetto composto solo da un mondo-universo ben piantato, con una grande libertà di movimento e di interazione, in cui tutto il resto è lasciato alla fantasia del videogiocatore: l’essenza stessa del concetto di simulazione in un mondo virtuale.

In ultima analisi è interessante notare come questo modo di intendere il videogioco sia particolarmente vicino alla concezione di gioco di ruolo da tavolo, dove un master guida i giocatori nello svolgimento nell’avventura dopo aver stabilito delle regole comuni che fanno da struttura e canovaccio narrativo. Perché se è vero che il videogioco è da sempre anche cinema, in senso lato, è altrettanto vero che la componente interattiva è l’unica discriminante che gli permette una netta differenziazione. Ed è in mezzo alle sperimentazioni sul rapporto tra videogiocatore e videogioco – non nella narrazione – che si trovano le giuste coordinate per spingere in avanti il medium.

Forse è ancora troppo presto per poter parlare di assoluta libertà per il settore videoludico, ma la sensazione è che alcune pietre fondamentali di questa strada siano state piantate, alcuni importanti esperimenti siano stati fatti e che in definitiva sia la strada giusta da percorrere. 

VV


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