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Silent Hill: Shattered Memories è l’horror psicologico più sorprendente degli ultimi vent’anni

Silent Hill: Shattered Memories è l’horror psicologico più sorprendente degli ultimi vent’anni

  • Vito Carluccio

  • 16 aprile 2021
  • noninteragire

Prima di addentrarci nelle gelide strade di Silent Hill, è importante presentare una brevissima introduzione al genere di cui fa parte. Sottoinsieme dell’horror, quello psicologico è basato sulle paure dei personaggi e sull’instabilità emotiva e solitamente utilizza i disturbi mentali per creare tensione. Nel cinema ve n’è traccia fin dagli anni Trenta con The Black Cat prodotto dalla Universal, tratto dal celeberrimo racconto scritto da Edgar Allan Poe; le luci della ribalta arriveranno, però, solo dagli anni Sessanta in poi. Questo periodo sarà infatti segnato dall’uscita di due capolavori che rappresenteranno uno spartiacque per l’affermazione e la riconoscibilità dell’horror psicologico: Repulsione (1964) e Rosemary’s baby (1968), entrambi diretti da Roman Polanski.

I due film citati sono considerati la quintessenza del genere e le basi sulle quali si è costruito un intero filone ancora fertile ai giorni nostri. Basti pensare a film apprezzatissimi che hanno letteralmente fatto incetta di premi e registrato considerevoli incassi, quali il Cigno Nero (2010), Babadook (2014), It Follows (2015), Get Out (2017), Hereditary, La Casa di Jack (2018), Midsommar e The Lighthouse (2019).

Una scena iconica tratta da Repulsione (Polanski, 1965). Non sfigurerebbe se fosse inserita in qualche Silent Hill.

Il corrispettivo nei videogiochi può essere identificato in Silent Hill del 1999. Sebbene il capitolo in questione nascesse come la risposta di Konami a Resident Evil (Capcom, 1996), è molto semplice comprendere le sostanziali differenze che presentano questi due capisaldi del survival horror e di come la lezione di Silent Hill fosse diversa.

Si passava, infatti, dall’orrore concreto, disgustoso, rumoroso e splatter dato dagli zombie di Resident Evil al sottile incubo, misterioso, terrificante e a tratti incomprensibile di Silent Hill. Non più squadre speciali, poliziotti, fucili e granate, ma un uomo qualunque intrappolato in un incubo, con pochi proiettili e poca preparazione. Questa diversa rappresentazione dell’horror proposta dal Team Silent, più intimista e psicologica, raggiunse l’apice con Silent Hill 2 pubblicato nel 2001.

La storia di James Sunderland e Maria ha certamente saputo sorprendere per crudezza dei temi trattati e per la rappresentazione estetica delle paure e insicurezze del protagonista. Questo secondo capitolo in particolare è considerato da molti l’apice del genere in ambito videoludico.

La scena iniziale di Silent Hill 2 è ormai storia. Lo specchio sarà centrale in altri momenti e capitoli della serie.

Silent Hill 2 ha giocato il ruolo di “fratello scomodo” per tutti i seguiti e qualsiasi capitolo uscito successivamente ha sempre vissuto nell’ombra di questo gigante. Nonostante ciò, il Team Silent ha smesso di lavorare sulla serie dopo Silent Hill 4: The Room, probabilmente a causa delle intenzioni di Konami, che ha provato a rinfrescare la serie in chiave più action e incaricando delle software house occidentali. I risultati non hanno mai convinto appieno critica e pubblico passando per veri e propri fallimenti (Silent Hill Homecoming e Silent Hill Downpour su tutti).

C’è però un capitolo che è forse riuscito a prendere il buono di Silent Hill 2 (atmosfera, temi ed estetica), eliminando il cattivo (combat system e struttura un po’ dispersiva) per creare il perfetto horror psicologico, in grado di scavare dentro la nostra mente e sorprendere anche l’utente più smaliziato. Il titolo in questione è Silent Hill: Shattered Memories.

Una genesi travagliata.

Nella seconda metà degli anni Duemila, Sam Barlow (conosciuto per Her Story, 2016), lead designer e scrittore principale di Climax Studios, era a lavoro su un progetto chiamato Brahms PD. Spin-off dell’ormai franchise Silent Hill, Brahms PD partiva da una formula di base conosciuta, la ricerca del partner da parte un detective affetto da amnesia, ma con l’intenzione di andare oltre. Infatti al gameplay classico ma ancor meno action, affiancava l’idea di implementare sequenze in cui si prendeva a parte a sessioni con uno psichiatra della polizia. Il concetto era quello di creare “il primo horror psicologico veramente interattivo al mondo”. Questo progetto non trovò l’approvazione di Konami.

Tempo dopo, i Climax Studios proposero alla SH giapponese un vero e proprio capitolo principale, riprendendo l’idea di Brahms PD. Il nome era Silent Hill Cold Heart, ma anche la nuova storia di questa studentessa di psicologia affetta da depressione non convinse Konami.

Climax ha rilasciato online dei documenti che mostrano il lavoro che avevano svolto per Silent Hill Cold Heart.

Il passo successivo fu però quello vincente. Climax Studios ebbe l’idea di trasformare questo concept in una rivisitazione del primo Silent Hill, un’idea che sapeva essere apprezzata da Konami perché già suggerita e bene accolta al tempo del precedente lavoro dello studio sul brand, e cioè durante la fase preparatoria di Silent Hill Origins.

Qui nacque ufficialmente il progetto Shattered Memories. Si decise di usare alcuni elementi e i personaggi dal primo capitolo della serie per creare qualcosa di totalmente nuovo. Sarebbero stati eliminati i combattimenti e si sarebbe posta una grande enfasi sull’ambientazione, sull’immersività e sul lato psicologico del giocatore stesso.

Come vedremo più avanti, la scelta di ispirarsi al primo capitolo senza creare seguiti o spin-off costituirà la base per una storia universale, in grado di strizzare l’occhio ai fan della serie, ma soprattutto di risultare perfettamente fruibile anche dai neofiti.

Copertina ufficiale di Silent Hill Shattered Memories.

Vecchie conoscenze, nuove personalità.

L’incipit è molto semplice anche se fortemente straniante per ogni fan della serie: Harry Mason, il protagonista del primo capitolo, perde il controllo della sua auto e si schianta vicino ad una discarica di Silent Hill. Perde i sensi, e si risveglia nel bel mezzo di una bufera di neve. Proprio come nel predecessore del 1999 scopre che sua figlia è scomparsa dall’auto ed esce a cercarla avventurandosi in questa Silent Hill coperta di neve e ghiaccio.

Nel corso della ricerca, Harry incrocerà diversi personaggi già noti ai fan. Questi ultimi però saranno in qualche modo diversi, come se non ricordassero gli eventi passati, come se non li avessero mai vissuti. In un primo momento sembrerebbe quasi un remake/reboot, o meglio, una re-immaginazione della storia vissuta nel 1999: insomma, come se gli stessi attori stessero interpretando altri ruoli simili al passato, ma non perfettamente identici. La sensazione di straniamento che il gioco provoca si rafforza ancor di più quando hanno inizio alcune sezioni in soggettiva in cui si conosce il Dr Kaufman, uno psicologo. In queste sezioni non verrà interpretato Harry: la visuale passa in prima persona e proietta il videogiocatore all’interno della storia. Lo psicologo si rivolge direttamente a noi, cercherà di ricostruire la storia di Harry e lo farà scavando nella nostra mente.

All’atto pratico il gioco è strutturato in due sezioni ben distinte. Mentre in una impersoneremo Harry Mason alla ricerca di sua figlia per le strade buie e innevate di Silent Hill, nell’altra sezione invece ci troveremo in prima persona nella stanza del Dr Kaufman. Qui ci toccherà rispondere alle sue scomode domande ed effettuare dei test psicologici. Le due sezioni si alterneranno per l’intero corso dell’esperienza e il filo che le lega è la vera forza e particolarità di questo capitolo.

I capitoli in cui ci confronteremo con lo psicologo modificheranno quelle in cui useremo Harry, ma non solo: il gioco terrà conto di come ci comporteremo e traccerà il nostro profilo psicologico in maniera spaventosamente profonda e intima.

Il primo test che effettueremo definirà moltissimi elementi dell’ambientazione e le personalità di alcuni NPC.

Il sistema “Psych Profile”.

Il gioco presenta un complesso sistema che determina e plasma la nostra esperienza di gioco: questo sistema è detto “Psych Profile System”. Le risposte ai test, il nostro modo di interagire con gli NPC, il nostro modo di giocare e le strade che sceglieremo di prendere avranno un impatto diretto sulle aree di gioco, sui mostri e sul comportamento e aspetto degli NPC. In particolare, man mano che proseguiremo nel gioco, verrà definito il nostro profilo psicologico e i mostri cambieranno aspetto in modo da rispecchiare le nostre debolezze.

Dovessimo perdere tempo ad esplorare senza focalizzarci sulla ricerca di nostra figlia, Il sistema potrebbe ritenerci distratti. Abbiamo detto al Dr Kaufman che amiamo bere alcol per rilassarci? Durante il gameplay troveremo alcolici sparsi per la mappa. Il gioco risponde in modo imprevedibile, ma coerente, ai nostri input. Moltissime altre nostre azioni, sia attive che passive, saranno prese in considerazione per definire il nostro profilo psicologico. Guardare o meno il seno o il sedere dei personaggi con cui interagiremo avrà un impatto, aspettare pazientemente che un personaggio si cambi d’abito senza sbirciare ne avrà un altro. Addirittura smettere di nuotare in una determinata scena, perché siamo troppo stanchi, potrebbe contribuire a definirci un po’ pigri e poco determinati (nuotare con il Wiimote può essere molto stancante).

In base ai risultati dei nostri test gli NPC possono cambiare totalmente aspetto e atteggiamento.

Chiaramente l’idea è mutuata dal sistema dei finali già visto in Silent Hill 2 – anch’esso si basava su scelte inconsapevoli fatte dal giocatore – ma in Shattered Memories è estremamente più complesso e stratificato. Ogni run può presentare una nuova esperienza, intere sezioni di gameplay potranno variare e sicuramente giocarci a distanza di anni potrà generare dei profili psicologici adeguati ai nostri cambiamenti.

Lo Psych Profile System esploderà in tutta la sua complessità nel finale. Quando il Dr Kaufman stilerà un rapporto molto lungo e dettagliato sul nostro profilo psicologico, potrà davvero sorprendere e spaventare per accuratezza. Non è raro trovarsi di fronte a lati di noi stessi che nascondiamo ma che sappiamo di avere. La valutazione sarà molto ricca, abbracciando diverse sfere della nostra personalità: il nostro atteggiamento, le relazioni con gli altri, le nostre aspettative e come vogliamo essere visti. Non aspettatevi solo risultati lusinghieri: è facile incappare in critiche o valutazioni che possono risultare offensive e molto intime.

Il disclaimer iniziale ci mette in guardia: questo Silent Hill ci metterà a nudo.

Motion Controller: il cuore vibrante dell’esperienza.

Un altro elemento che contribuisce enormemente all’immersione è la scelta di sviluppare questo gioco su Nintendo Wii. Il sistema di controllo offerto dalla coppia Wiimote + Nunchuck è il fulcro dell’intera esperienza interattiva: controlliamo la torcia di Harry in modo realistico, indirizziamo lo sguardo con precisione (e sarà importante nella valutazione finale), utilizziamo il cellulare di Harry come se ce l’avessimo in mano scattando anche le foto, con tanto di audio proveniente dalle casse del controller durante le chiamate. Nelle sezioni dedicate alla seduta con lo psicologo vengono simulate delle matite per disegnare ed è sempre possibile utilizzare o spostare gli oggetti direttamente con le nostre mani per risolvere i diversi test.

Si può utilizzare il cellulare in qualsiasi momento: fare foto, controllare i messaggi, cambiare le impostazione ed effettuare chiamate. Tutto in tempo reale tramite il Wiimote.

I mostri che ci perseguitano non possono essere affrontati in modo diretto. Non siamo armati e dobbiamo fuggire cercando di evitarli e rallentarli. A tal scopo, possiamo tirare giù armadietti. distributori di bibite e ostacoli vari grazie all’utilizzo dei sistemi di movimento dei controller. Se dovessero catturarci è possibile scrollarceli di dosso dimenando il Wiimote e il Nunchuck. In alcune sezioni particolari verremo chiamati a compiere azioni uniche, come nuotare, risolvere puzzle a leve o interagire con un auto dall’interno. Insomma, i controller di movimento del Nintendo Wii sono stati sfruttati in maniera eccellente e ne consegue un alto livello di coinvolgimento.

Un Game Design al completo servizio dell’immersività.

In Silent Hill Shattered Memories ogni elemento di game design è posto in maniera impeccabile. Si concentra tutto per avere un fine ben preciso: l’immersività e la reattività. Certamente non è il primo e nemmeno l’ultimo titolo che si focalizza su elementi immersivi, ma in questo caso l’intero sistema di gioco, dai controlli alle scelte che vengono proposte, calzano precisamente con il genere dell’horror psicologico costruendo un incubo in grado di adattarsi perfettamente al giocatore.

Silent Hill Shattered Memories è il perfetto horror psicologico, realmente in grado di coinvolgere il fruitore a 360 gradi. Riesce a farlo grazie al lavoro coordinato di tutti i suoi elementi: la trama ci immerge nella ricostruzione di una mente umana (la nostra); l’ambientazione innevata riesce a trasmettere il concetto dei ricordi congelati e frammentati; i controlli di movimento possibili grazie al Nintendo Wii riescono restituire un feedback immersivo d’impatto e le sessioni in cui bisogna confrontarsi con i test psicologici, capaci di scavare nel profondo del nostro io.

Durante i titoli di coda scorrerà in video la valutazione del nostro profilo psicologico.

Il sistema che regola le nostre scelte, sia attive che passive, è più unico che raro. Il gioco risponde in maniera sorprendente e imprevedibile ai nostri stimoli, accentuando il fatto che quella Silent Hill è la nostra personale versione, modellata in base al nostro essere.

Climax Studios è riuscita a catturare l’essenza della trilogia originale sviluppata dal Team Silent, pur discostandosi molto dal punto di vista dell’interattività e del gameplay. Shattered Memories funziona perfettamente anche se giocato senza conoscere la serie e questo non può che non essere un punto di forza del lavoro di Sam Barlow.

Sebbene siano stati fatti dei porting su PlayStation 2 e PSP l’esperienza risulta estremamente più immersiva su Wii. Questo particolare Silent Hill andrebbe riscoperto proprio in questa sua versione, in quanto l’intera struttura ludica si sposa perfettamente con il genere: il coinvolgimento del giocatore è totale.

Come dicevamo all’inizio di questa analisi, l’horror psicologico è basato sulle paure dei personaggi e sull’instabilità emotiva. Ebbene, Silent Hill Shattered Memories gioca direttamente con noi, con le nostre paure e con le nostre emozioni. Riesce farlo con un comparto ludo-narrativo di alto livello e questo lo rende il miglior horror psicologico del nuovo millennio. Un capolavoro.

VC


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Prey, ovvero la memoria come parte dell’essere

Prey, ovvero la memoria come parte dell’essere

  • Vito Carluccio

  • 5 marzo 2021
  • noninteragire

Di Prey si è discusso molto da quando è stato rilasciato nel 2017: si è parlato del lavoro incredibile fatto nel level design di Talos I, di quanto il gameplay sia una summa dei migliori immersive sim e di come il game design sia costruito in modo tale da evitare qualsiasi dissonanza ludonarrativa.

In questa sede invece, vorremmo far notare come Arkane sia riuscita a sfruttare la perdita della memoria del protagonista, il più vecchio degli espedienti narrativi, per costruire qualcosa di più profondo.
Il tema centrale di Prey è rappresentato dalla stretta correlazione tra memoria e personalità umana: questo concetto è stato esplicitato magnificamente dal legame tra videogiocatore ed avatar, come mai prima d’ora.

In Fallout New Vegas la perdita della memoria è totale e ci permette di ruolare in modo completo.

Memoria e personalità.

In Prey, prima cosa che viene domandata al videogiocatore è se sia un uomo o una donna: tale scelta non impatterà sul nome del/della protagonista, Morgan Yu. Come il nome “Jack” visto in BioShock e Metal Gear Solid 2 richiamava il “connettore Jack” con il giocatore, qui la connessione con Morgan viene data dal singolare cognome “YU”, ovvero You (“tu” in inglese).

Non c’è nulla di casuale: sia l’anagrafica che la scelta del sesso sono funzionali proprio al discorso sull’interpretazione del ruolo e sul peso della memoria come parte integrante di questo processo.

Il nome del nostro avatar non cambia in base alla scelta del sesso.

Il gioco inizia nell’appartamento di Morgan: ci svegliamo, ci guardiamo intorno, facciamo una doccia, leggiamo le mail o guardiamo la tv. Poi nostro fratello Alex ci chiama: dobbiamo fare dei test.
Sia Morgan che il videogiocatore non sanno bene cosa stia accadendo: si procede per inerzia, seguendo le indicazioni di Alex e del Dr. Bellamy. Gli esami vengono effettuati, e palesemente non avviene quanto previsto: un alieno ammazza il buon Dr. Bellamy. Panico, sveniamo.

Ci risvegliamo sempre nel nostro appartamento, sembra tutto uguale. Ma non è così, qualcosa è andato storto: usciamo dalla caverna di Platone scoprendo una realtà diversa da quella che ci era stata presentata. Eravamo nel Matrix ma ora siamo liberi di muoverci e liberi di scegliere.

Durante i primi passi nel mondo reale ci accorgiamo che Morgan Yu ha perso la memoria, come Geralt nel primo The Witcher, come il capitano di The Outer Worlds o il corriere di Fallout New Vegas. Sembra il classico espediente per permettere di esplorare la stazione di Talos I come se fosse la prima volta sovrascrivendo la personalità di Morgan con quella del videogiocatore: lui non ricorda chi è, sono io che scelgo per lui.
In parte è così, ma Prey va oltre. Nel corso dell’avventura saranno svelati i motivi per il quale Morgan fosse rinchiuso lì in appartamento, in quel ciclo di test infinito. La vecchia personalità di Morgan tornerà a disturbare l’avatar, le scelte e l’interpretazione del ruolo.

Siamo sicuri che la scoperta dell’inganno dietro l’appartamento di Morgan sarà ricordata negli anni a venire.

Morgan è co-proprietario insieme ad Alex della Transtar, una società pioneristica nel campo della tecnologia e creatrice delle neuromod: questi gingilli futuristici non sono altro che dei chip da impiantare nel cervello, creati con lo scopo di acquisire conoscenza istantaneamente. Vogliamo imparare a suonare il piano? C’è una neuromod. Vogliamo apprendere grandi nozioni di matematica o fisica? C’è una neuromod. Tutto questo però ha un costo: se un domani volessimo disinstallarne una, perderemmo all’istante tutti i ricordi accumulati dal momento in cui ci è stata impiantata. Inoltre, alcune neuromod potrebbero avere malfunzionamenti, l’organismo potrebbe rigettarle o magari ci si può semplicemente stufare di suonare l’arpa. In tutti questi casi, se si dovesse scegliere di rimuovere il chip, si perderebbero parte dei propri ricordi, parte di se stessi. Per approfondire il senso, dobbiamo scomodare la psicologia e il concetto di memoria autobiografica.

Grazie alle neuromod, un pianista affermato può trasmettere la sua abilità ad una persona che non ha mai studiato musica.

Come è ben noto, la memoria e i nostri ricordi sono parte integrante della nostra personalità: saremmo quelli che siamo se non avessimo avuto una certa infanzia? O se dieci anni fa non ci fossimo lasciati con il nostro fidanzato? Questo concetto è definito come memoria autobiografica.
In pratica, le informazioni desunte dalla propria storia di vita diventano un archetipo che dirige la capacità di decidere per il presente e per il futuro, fungendo da ancora a cui l’individuo può aggrapparsi nei momenti di incertezza (Baddley, 1988; Bluck e al., 2005).
L’insieme di tutte queste informazioni – di tutti i nostri ricordi, esperienze e memorie – costituisce il bagaglio di conoscenza che ognuno di noi possiede contribuendo alla costruzione della nostra personalità. Il nostro carattere, il nostro io, dipende dalle nostre memorie e dalle nostre esperienze.

In psicologia si studia la memoria autobiografica e la sua relazione con la rappresentazione del sé.

Chi è Morgan Yu?

Proseguendo nel gioco, scopriamo che Morgan si era offerto volontario per testare varie neuromod, tra cui quelle ricavate da un organismo alieno, i Typhon. Queste applicazioni sperimentali hanno l’obiettivo di sbloccare abilità estranee all’essere umano: non più suonare la chitarra ma utilizzare la psicocinesi o la telepatia, trasformarsi in qualsiasi oggetto e altre stupefacenti capacità.

Morgan, sottoponendosi a questi continui montaggi e smontaggi di neuromod, ha compromesso la propria memoria e personalità.

Grazie alle neuromod basate sui Typhon è possibile acquisire la loro capacità di imitare degli oggetti.

In Prey, il concetto di memoria come base per costruire il proprio io viene portato allo stremo dai tre operatori che possiamo incontrare sulla stazione: October, December e January. Ognuno di essi conserva un pensiero specifico di Morgan in un preciso momento durante gli esperimenti. Possiamo supporre che le ripetute cancellazioni della memoria che ha subito Morgan l’abbiano portato a diverse reazioni e considerazioni su quello che gli stava accadendo: se consideriamo la memoria e i ricordi come base per la costruzione della propria personalità possiamo pensare che ogni nuova cancellazione, potenzialmente, vuol dire una nuova personalità.
Nel concreto, il gioco ci mette a conoscenza di almeno tre personalità differenti di Morgan attraverso gli operatori costruiti da Morgan stesso, e potrebbero essere solo alcune di quelle effettivamente sviluppate. Per quanto ne sappiamo i tre operatori potrebbero essere gli unici rimasti e non necessariamente gli unici che Morgan sia riuscito a costruire.

Il montaggio e lo smontaggio continuo di neuromod ha danneggiato irrimediabilmente i ricordi e l’essenza di Morgan Yu.

October è il primo operatore, quello più “anziano” che vediamo nel gioco: in realtà non è fisicamente presente nella stazione perché nel momento in cui giochiamo è già stato distrutto. Veniamo a conoscenza della sua esistenza solo tramite un file audio chiamato “se le cose dovessero mettersi male”.

Morgan Yu: Ok. Quindi la mia voce è ovviamente familiare. Probabilmente sembra più stanca del solito. Non finisco mai di creare stanze e protocolli per testare le nuove mod. Il rischio è notevole. Ma se ci riusciremo, copiare le reti neurali dai Typhon alle menti umane cambierà tutto. Così, mi sto mettendo nel Simulatore. Ho fatto tutto il possibile per assicurarmi di non finire lobotomizzato. Un’ultima misura di sicurezza: Permettetemi di presentarvi October. Dì Ciao.

October: ​​Salve, dottor Yu.

Morgan Yu: October ti aiuterà a ricordare cosa dovresti fare se le cose dovessero mettersi male.

October: ​​una volta iniziati i test non si torna indietro. Se- quando disinstallano le mod e ripristinano il test, mi riavvolgerà. Dimenticherò tutto.

Morgan Yu: Teoricamente potrebbero farmi rivivere lo stesso giorno più e più volte e non lo saprei mai. Se stai ascoltando questo, probabilmente è quello che è successo. Significa anche che non so se posso fidarmi di mio fratello. Ad Alex non piacerà quello che ho da dire dopo. Ho iniziato a progettare un prototipo di Null Wave abbastanza forte da uccidere tutti i Typhon su Talos I. Ho nascosto una copia del piano in cima alla torre dei dati vicino alla sedia spaventosa. Sai quello di cui sto parlando. Alex ha accettato di esplorare l’idea … ma conosco mio fratello. Primo segno di guai, preferirebbe far saltare tutto in aria e incolpare qualcun altro. Quindi, probabilmente sei da solo. C’è molto in gioco qui. Troppo tardi per ficcare la testa nella sabbia. Sai cosa fare.

Se le cose dovessero mettersi male.

October racchiude il pensiero di Morgan prima di iniziare i test: non si fidava pienamente di suo fratello Alex e l’ha sviluppato proprio per avvisare sé stesso nel caso avesse perso la bussola in seguito alle rimozioni delle neuromod. Sta al fruitore, poi, negare la fiducia ad Alex e detonare la bomba nullwave in grado di spazzare via l’organismo Typhon dalla stazione.

L’operatore December è stato costruito clandestinamente da Morgan durante il periodo in cui era sottoposto ai test. Ormai non era più lo stesso Morgan calcolatore e freddo che ascoltiamo nel file audio in cui ci presenta October. In December, Morgan pone un messaggio molto più semplice e diretto: scappare dalla stazione.
Probabilmente, durante i test è accaduto qualcosa: le neuromod installate potrebbero aver mostrato a questa versione di Morgan dei poteri orribili, oppure potrebbe essere stato sottoposto a torture. Ancora, potrebbe aver semplicemente notato dei comportamenti ambigui da parte del fratello: non possiamo saperlo. Al contrario, siamo coscienti del fatto che Morgan abbia vissuto delle esperienze negative e, seguendo il concetto di ricordo autobiografico, abbia sviluppato un altro carattere, o quantomeno una nuova sfumatura della sua personalità. Il giocatore potrebbe seguire quindi le indicazioni di December, scappando dalla stazione.

Infine abbiamo l’operatore più complesso e più recente: January. Quest’ultimo è stato costruito da Morgan proprio per aiutarlo ad uscire dal loop dei test; in effetti, è proprio grazie a January che il giocatore riesce a ricordare quello che è successo con il Dr Bellamy all’inizio del gioco.
Di nuovo, è appannaggio del videogiocatore seguire le indicazioni di January e distruggere sia Talos I che lo stesso Morgan Yu.

Se il Morgan di Ottobre era un freddo calcolatore, pronto a detonare la nullwave e distruggere i Typhon senza compromettere la stazione, quello di Gennaio era pronto a far saltare la stazione di Talos I, suicidandosi insieme all’equipaggio per insabbiare le ricerche sulle neuromod Typhon.
Nel mezzo abbiamo Dicembre: Morgan è nel panico e pensa solo a sé, volendo scappare via sulla Terra per lasciarsi alle spalle la stazione e tutte le ricerche.

L’autentica personalità di Morgan non esiste più: le nuove esperienze e i nuovi ricordi hanno creato almeno tre versioni di se stesso, con tre diverse personalità.
Ed qui che entriamo in gioco noi: il giocatore non è altri che una nuova personalità di Morgan, creata in base ai ricordi che abbiamo, in base alle conoscenze che acquisiamo durante il gioco e materialmente svincolati dal Morgan originale.

Potremmo scoprire October, December e January durante la nostra partita e potremmo decidere di non seguirne nessuno. Potremmo costruirci la nostra nuova identità, la nuova personalità di Morgan Yu (you). Morgan siamo noi.

Gli operatori ci forniscono delle linee guida sulla base dei vecchi spunti dati da Morgan, ma saremo noi a scegliere.

Sfruttando il concetto di memoria autobiografica, Arkane è riuscita ad inserire il giocatore nella narrazione in maniera naturale ed originale: le scelte del videogiocatore non potranno mai tradire il personaggio e non potranno mai creare dissonanze proprio perché è diventato legittimamente il nuovo Morgan. In base ai ricordi e alle informazioni che troveremo sulla stazione potremo plasmare la sua nuova personalità, interamente basata sulla singola esperienza, conoscenza e moralità di colui che è al di là dello schermo.
Ad esempio non è obbligatorio incontrare October o December; January direbbe al videogiocatore di distruggere tutto e suicidarsi, ma non per questo sarebbe doveroso seguirlo. Si potrebbe benissimo decidere di aiutare Alex, di uccire il Dr. Igwe, di salvare Mikhaila o di ignorare tutti e tirare dritto. Allo stesso tempo, sarebbe possibile scegliere quali neuromod utilizzare o di non utilizzarle affatto. Una volta compreso il funzionamento e la natura delle neuromod, non sarebbe strano accantonarle in virtù di valori etici e scelte personali: il gioco lo tiene in conto.

Talos I è piena zeppa di scelte e decisioni, piena di personaggi con cui si può interagire scegliendo se e come farlo.  Un capolavoro di scrittura, possibile solo attraverso i videogiochi.

Fine e inizi.

[DISCLAIMER: SPOILER ALERT]

Anche il plot twist si incastra perfettamente in questo complesso di meccaniche: dopo aver preso la scelta conclusiva, il risveglio avverrà in una stanza un po’ decrepita, avendo di fronte un Alex leggermente invecchiato. In quel momento, il videogiocatore scopre di essere un Typhon.

Nel finale le nostre scelte saranno giudicate: Alex sembra quasi un Game Designer che valuta il nostro operato.

L’intera avventura non è stata altro che una simulazione costruita da Alex: un videogioco. Appare chiaro che Alex abbia cercato di cancellare la memoria ad un Typhon, impiantandone i ricordi di Morgan e cercando di cambiargli la personalità.
Il suo intento era quello di costruire una personalità pacifica in un Typhon, sfruttando il concetto di ricordo autobiografico. Non a caso sarà soddisfatto solo se il videogiocatore ha scelto di aiutare gli esseri umani e rifiutare in larga parte le neuromod Typhon; se dovessimo arrivare al finale dopo aver ucciso gran parte dell’equipaggio, magari ottenendo diversi poteri Typhon, saremo uccisi a nostra volta perché incapaci di realizzare l’obiettivo che Alex si era prefissato. Dopotutto, non è riuscito ad addomesticare l’alieno.

Questo finale chiude perfettamente la riflessione sui ricordi e sulla stretta relazione che hanno con la personalità di un individuo. Scoprire di essere un Typhon non cancella quello che abbiamo fatto: le nostre esperienze, i nostri ricordi, la nostra conoscenza e la nostra moralità determinano chi siamo, non la semplice nascita.

VC


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Death Stranding di Stanisław Lem, Solaris di Kojima Hideo

Death Stranding di Stanisław Lem, Solaris di Kojima Hideo

  • Vincenzo Vecchio

  • 19 febbraio 2021
  • noninteragire

Videogiocando Death Stranding dal giorno della sua uscita sul mercato, una certa dose di inquietudine e di trepidazione sono affiorate sulla pelle per poi sedimentare come un lieve, persistente retrogusto. Non succede spesso, ma con un videogioco di Hideo Kojima, al contrario, quasi sempre. Il senso di trepidazione è facile da spiegare, l’inquietudine meno. In effetti, pensandoci, quest’ultima è probabilmente tra le più lontane sensazioni possibili nell’approccio ad un videogioco; si parla di intrattenimento, in fondo.
O no? 

Trepidazione e inquietudine vanno di pari passo, come sorelle. Si potrebbe dire però, che la prima sia una sensazione che proviene dall’esterno mentre la seconda, al contrario, ristagna nel profondo dell’animo umano. E se è vero che si possa essere facilmente trepidanti, a causa di quella strana distorsione contemporanea comunemente chiamata cultura dell’hype, è ancor più vero che registrare una sensazione infinitamente più sottile e sfuggente come l’inquietudine possa sembrare inusuale; a maggior ragione se rapportata ad un medium che rimane comunque intrattenimento di massa e per questo il più generico e accomodante possibile, per quanto appaia come maturo sotto una determinata luce.
Dunque si potrebbe dire: inquietudine come turbamento dell’animo, come il sasso che sfiora la superficie placida del lago disturbandone la stasi. Inquietudine, come modo instabile di abitare il mondo. Un aspetto questo che è probabilmente per noi, in quanto europei, più marcato. Sostiene Salvatore Natoli:

«L’inquietudine non è un sentimento recente. Non v’è dubbio, però, che, come dice Deprun, è in prevalenza un sentimento moderno. È tra l’altro un sentimento che trova nel cristianesimo una delle sue più originarie e originali matrici. Seppure non è stato il cristianesimo a generare il sentimento d’inquietudine, di certo lo ha fortemente accentuato».

Come dire che la Storia ci possa rendere più o meno consapevoli di noi stessi. 

Nonostante la parola inquietudine sia spesso associata ad un valore negativo nel sentire comune, è interessante notare come il suo contrario, stato di quiete, sia inaspettatamente molto più aderente al concetto di morte (la quiete certa, assoluta e definitiva). Sam Porter, il protagonista di Death Stranding, si spinge sia nell’una che nell’altra direzione con il suo contraddittorio lavorio interiore. Come da bambino fu l’involontario responsabile dello scatenarsi del Death Stranding, anche nel presente di gioco sembra agire da ago della bilancia di un certo equilibrio naturale. Costretto costantemente all’esistenza, gli è difatti vietata la morte a causa del suo status di ritornato, è roso dall’evidente inquietudine del vivere. Sopporta sulle spalle il peso dell’onnipresente (e squisitamente americano) passato pesante: vederlo trasportare grottescamente decine di scatole impilate l’una sull’altra serve quasi come metafora del proprio passato, una formica che porta sulla schiena diverse volte l’equivalente del proprio peso. Sam è dunque una formica solitaria, che combattendo la propria natura, la sfida costantemente. Sam è solo ed inquieto, il personaggio archetipo che dimostra di essere qualcuno soltanto al di là della collettività, che mostra in questo modo di possedere la propria identità. Chiunque dotato di un minimo di empatia e che abbia passato del tempo videogiocando nei panni di Sam, non può che condividere una piccola parte di quel peso e quindi di quell’inquietudine.
Insomma: quel sentimento appartiene di certo a Sam Porter, ma diventa per osmosi anche lo stesso assorbito e assaporato dal videogiocatore. A questo proposito, sia per inquietudine che per profondità, risulta emblematica la sequenza in cui Sam è costretto a trasportare sulla schiena il cadavere della propria madre, per diversi chilometri e fino ad un inceneritore. Una sequenza di rara potenza visiva, a cui si fatica a dare la giusta dimensione tante sono le interpretazioni possibili: l’eredità, la nascita, il conflitto generazionale, la memoria, il legame di sangue, l’origine, il più intimo senso della vita.

La formica-Sam mostra fiera le stigmate ai piedi.

Solitudine

Un’altra delle parole fondanti del carattere filosofico di Death Stranding è solitudine, intesa come condizione di isolamento, voluta o forzata, dell’essere umano. È davvero fin troppo facile e lapalissiano accostare il concetto di solitudine a Death Stranding, talmente ne è imbevuto il titolo in ogni suo aspetto. “Da solo” il videogiocatore passa una grande quantità di tempo, ascoltando l’unica voce di Sam che parla o grida al vento; allo stesso modo “da solo” cammina Sam, rivolgendosi a BB e non ricevendo risposta, in quanto quest’ultimo non può esprimersi a parole. Sam è isolato dal resto degli esseri viventi. È l’ultimo uomo sulla Terra, perché tutti gli altri si sono rifugiati sotto di essa. Si è scelta la comune dimora di insetti, rettili, cambiando di fatto antropologicamente l’umana specie. Il mondo stesso e la sua “lore” sono imbevuti di solitudine. I suoi personaggi, tutti, parlano di isolamento, di distanze incolmabili, di consuete impossibilità. 

Quando Deadman confessa con un certo candore di essere nient’altro che il mostro di Frankenstein, non sta dicendo altro se non di essere solo.

…artificiale, nato da cellule staminali. […] E quando la scintilla vitale non si è manifestata in alcuni organi, hanno sostituito quelli difettosi con organi di cadaveri. Un pupazzo di carne senza anima […] io non ho nessun legame. Né madre. Né aldilà. Né Spiaggia. Capisci perché sono ossessionato da tutto questo?

Il Mostro infatti, per definizione, in quanto diverso, unico e alieno, è solo; ma non è l’unico a definirsi in modo così preciso. Heartman, ad esempio, ha la singolare caratteristica di morire e resuscitare ogni ventun minuti circa. Diverse volte più performante di Gesù Cristo nel singolare ciclo vita-morte-rinascita, ogni suo sforzo è rivolto alla strenua ricerca di moglie e figlia tra le Spiagge, una sorta di infiniti purgatori privati sospesi tra le dimensioni dell’esistente. Si definisce – oltre che “Homo Loquens” nel senso di linguista (Metal Gear Solid V e grida di dolore) – un uomo spezzato, come il suo cuore, come il suo legame familiare. Un legame schizofrenico perché diviso tra due dimensioni, che non può certo non considerarsi perduto nel momento in cui, capita l’estrema difficoltà della sua ricerca, lo stesso Heartman giunge alla dolorosa conclusione che la sua famiglia sia ormai irrimediabilmente smarrita nell’oblio dell’aldilà e che per lui sia ormai matematicamente impossibile riunirvisi.
A conti fatti, anche Heartman è il mostro di Frankenstein e quindi solo, sia in quanto “sospeso” tra vita e morte, sia in quanto Prometeo del futuro che si ribella invano al destino che gli è stato assegnato. 

Sam Porter, dal canto suo, cerca, brama, la solitudine come pochi altri, in un mondo dove stare da soli è alla portata di chiunque e di nessuno: fare consegne in giro per le terre ormai desolate diventa un modo per stare lontano dagli altri. Dopo il disastro, la civiltà si è ridotta a piccole concentrazioni sotterranee, formicai dove è evidente la mancanza di spazio vitale (geograficamente inteso, proprio come Lebensraum applicato però alla singola persona, lo spazio vitale proprio) a meno di vivere come prepper, che hanno di certo uno spazio adeguato, ma anche il più assoluto isolamento.
Sam arriva a rifuggire il mero contatto fisico, fino a svilupparne una sorta di allergia. 

L’obiettivo dichiarato del videogioco è quello di riconnettere, di ricreare un tessuto sociale unito. Ma è davvero presente questo desiderio di connessione? È davvero così forte in noi oppure, come scriveva Stanisław Lem nel suo Solaris e per bocca del suo personaggio, il dottor Snaut:

Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio. Ci affanniamo per ottenere un contatto e non lo troveremo mai. […] L’uomo ha bisogno solo dell’uomo!

Certo, l’autore polacco lo affermava con un accezione religiosa, escatologica, e da prospettiva sicuramente atea; volendo semplificarne l’interpretazione, è possibile scindere l’insieme e paragonare non l’umanità e il mondo altro, ma piuttosto ciò che intercorre tra persona e persona. L’indipendenza dell’essere umano dalle relazioni, dal bisogno del legame. Non solo bastoni, ma nemmeno per forza corde, per citare lo stesso Death Stranding che a sua volta cita l’autore giapponese Abe Kōbō che evoca gli strumenti che furono fondamentali per l’umanità.

Hideo Kojima fa infatti riferimento al racconto “Nawa” (lett. La corda) del suo connazionale, da cui estrapola solo l’ultimo illuminante paragrafo, inserito poi come vera e propria prima schermata del suo videogioco, quasi a voler scolpire nella mente del fruitore il concept dell’intero progetto.
Corde e bastoni, strumenti semplici, potenti simboli:

La corda e il bastone sono due degli strumenti più antichi dell’umanità. Il bastone serviva a tenere lontano il male, la corda per portare a noi il bene. Sono stati i nostri primi amici, li abbiamo inventati noi. Ovunque vi fossero delle persone, là si trovavano anche la corda e il bastone.”

da Nawa, di Abe Kōbō

Sam stremato, si ferma a riprendere fiato.

Quello di Death Stranding è un mondo che ha reso obbligatorio l’eremitismo. Non per tutti però; alcuni raggruppamenti umani ancora esistono in quei luoghi sotterranei che si chiamano città, nonostante tutto e con un pizzico di nostalgia. Ma una città, per quanto grande sia, non è una società. Si può insomma genericamente dire che vivere nell’isolamento completo sia diventata la normalità per un’umanità che invece concepiva fino ad allora la società come una massa informe di persone incollate insieme da qualche teorico valore, scopo, speranza, progetto, lingua, geografia. Tutto questo è evidente che non possa più esistere a causa delle condizioni ambientali avverse che costringono l’umanità sottoterra: il gioco sembra a tratti urlare mi spiace Sam, ti hanno preso in giro, riparare il tessuto della società collegandola virtualmente non basta, una rete chirale è un giocattolo, una simulazione buona solo per i prepper pentiti del nuovo millennio. A tal proposito, i prepper incontrati da Sam non sono altro che anacoreti medievali trasposti in un futuro possibile.

Come gli anacoreti si costruivano piccole celle addossate alle chiese o in luoghi sperduti, di cui veniva poi murata la porta con tanto di cerimonia che ne sigillava per sempre il divieto di varcarla ancora, e con una sola finestrella verso l’esterno che dava la possibilità di ricevere sostentamento da un benefattore, così i prepper abitano le loro celle atee scavate nel terreno da spesso cemento nella speranza che il loro benefattore passi davanti alla propria finestra virtuale. I prepper sono dunque figure spirituali – per il videogiocatore solo ologrammi in verità – a cui la catastrofe ha strappato di forza quasi ogni spiritualità. Tanto è vero, che tutti hanno storie con umanissime caratteristiche, problemi di farmaci, problemi di matrimonio, problemi di semi per le coltivazioni, problemi con la scelta dei gusti della pizza da ordinare, collezionisti compulsivi e cosplayer senza fiere a cui partecipare. Problemi di banale soluzione che non sfiorano nemmeno un livello più profondo di pensiero. Un’umanità che alle soglie della sparizione si perde nella frizzante superficialità della cultura pop. Una superficialità che potrebbe ricordare una danse macabre durante la peste nera del 1346 o appena prima dell’anno mille, ma svuotata di esoterismo e di mitologia. 

Ed è particolarmente interessante e brillante, che a questo punto Hideo Kojima inserisca il concetto di estinzione di massa. Come suggerisce tra le righe Amelie, la cosiddetta Entità Estintiva – un Gojira femmineo, a confermare che pochi popoli hanno la stessa ossessione per la catastrofe dei giapponesi – le estinzioni di massa sono forse necessarie e perfettamente lecite nell’ottica del rinnovamento perenne proprio della natura. Un giorno, al posto di una nuova primavera, arriverà un’estinzione di massa: questione di tempo insomma. Una condizione che può sembrare crudele dal punto di vista umano, tendente sempre e comunque alla sopravvivenza, ma si rivela come placida normalità di un processo naturale da un punto di vista diverso: quello di un’entità dall’intelligenza superiore, qui costantemente presente ma mai troppo esposta, un Deus ex machina che si rifiuta di comportarsi come tale.
L’estinzione di massa come potenziale soluzione, un’idea forse congeniale al Guido Morselli che scriveva, a ragione o torto, in Dissipatio Humani Generis:

E la società, dopotutto, non era che una cattiva abitudine.

In Death Stranding camminare diventa gameplay: diversamente dai cosiddetti walking simulator (avventure grafiche con poca interazione), camminare non è il mezzo più semplice con il quale spostarsi più o meno agevolmente dal punto A al punto B della mappa di gioco (o della narrazione). Al contrario, Hideo Kojima ribalta il concetto rendendo l’azione cinetica del camminare l’unico scopo e mezzo della mappa, con le sue difficoltà, la puntigliosa  microgestione delle risorse, la pianificazione, gli ostacoli; tutti questi elementi sono impiantati in un contesto meravigliosamente desolato e disarmante, con paesaggi grigio-verdi e incontestabilmente in rovina che ricordano vagamente l’estremo nord del mondo, oppure rosso marte dal leggero sapore esotico, fino ad arrivare a vedute azzurro e petrolio. Ogni sasso della mappa di gioco, ogni rivolo d’acqua, dal più dolce avvallamento alla più tagliente delle cime di montagna: sono questi i principali nemici/amici con cui ha a che fare il videogiocatore. La sparuta presenza umana, costituita dai cosiddetti muli o i terroristi, è da considerarsi marginale nell’economia del titolo, quasi congegnata come un diversivo di game design per dare varietà al parco giochi, altrimenti davvero troppo poco a misura di mercato. 

Un percorso particolarmente accidentato.

La parola solitudine è quindi sia la chiave di lettura che il gameplay, sia la storia che il senso più intimo di Death Stranding. E allora, cos’è davvero la solitudine? È possibile trasferirla in un videogioco?
In Death Stranding, particolarmente più che in altri videogiochi, questo tipo di trasfusione avviene, ma diventa presto un salasso.

Solaris

Nel 1961 viene pubblicato un romanzo di fantascienza, dove il dotatissimo autore immagina, con maestria, un pianeta ricoperto di un oceano di gelatina senziente, capace di influenzare le vite degli scienziati umani che stazionano nella sua orbita per studiarlo. È Solaris di Stanisław Lem. 

L’oceano-entità di Solaris immaginato da Andrej Tarkovskij.

L’oceano di Solaris è composto di neutrini che concedono l’immortalità come rappresentazione della mente, consentendo la materializzazione dei ricordi e delle aspettative, delle persone care o di ciò che genericamente abita la mente di un essere umano. 

In effetti, risulta intrigante pensare alle similitudini tra l’oceano-entità descritto all’autore polacco e il game over che il videogiocatore di Death Stranding è costretto a navigare/interagire per tornare all’altra dimensione, il mondo di gioco. Nell’istante stesso in cui si viene inghiottiti da una pozza di petrolio in Death Stranding, ci si immerge in un mare abitato da altri esseri-videogiocatori con cui abbiamo stabilito un legame e di cui simbolicamente conserviamo un ricordo, sebbene striminzito, ridotto ai pochi bit contenuti all’interno di un’interazione digitale pagata in like.

È lecito supporre, seguendo il flusso teorico che partorisce da questa lista di assonanze, che anche le spiagge di Death Stranding si possano trovare lì da qualche parte, distrutte e ri-plasmate nell’infinito ciclo di vita dell’essere che abita (o forse è) il pianeta. Anche il rapporto che si instaura tra Kelvin, il protagonista di Solaris, e la creatura modellata sulla base dei suoi ricordi, la moglie morta suicida, è esattamente quello che intercorre tra l’ologramma di Amelie e Sam, costantemente incalzato ad attraversare l’intero paese per trovarne il simulacro in carne ed ossa. Persino le famose simmetriadi e asimmetriadi del pianeta Solaris sembrano prendere forma come filamenti scuri e setosi che piovono dal cielo di Death Stranding. Hideo Kojima li chiama cordoni ombelicali, Stanisław Lem le definisce invece escrescenze scheletriche, elastiche come un muscolo teso. 

A sinistra Sam riposa all’interno di una Safehouse in Death Stranding, a destra Kelvin riposa in orbita su Solaris.

Gli echi estetici di Solaris risuonano costantemente sulla mappa di Death Stranding, così come certi impulsi filosofici che sembrano rimbalzare tra le due opere. Filosofia forse più spicciola in Death Stranding, a causa anche di difetti propri che l’autore giapponese si porta dietro da anni come l’ossessione per il mito americano, o i limiti intrinseci del mercato videoludico. Il paragone tra le due opere, che rimane in ogni caso azzardato, sta più nel tipo di fantascienza. Un sottogenere che ricorda forse da lontano il cinema fantascientifico di Andrej Tarkovskij, in cui introspezione, filosofia, spiritualità e futuro si sono sposati meravigliosamente. In questo senso, Death Stranding è un videogioco che tenta di infrangere alcuni schemi dell’industria dell’intrattenimento, in particolare il tabù, dei temi alti, spirituali, introspettivi. A memoria infatti non si ricorda un videogioco che regala un tale livello di analisi interiore durante una scarpinata, una scalata o tentando il più semplice guado di un fiume. Se è vero però che cerca di infrangere alcuni tabù è allo stesso modo vero che ricade inesorabilmente in altrettanti cliché, derivati dall’enorme influenza sull’autore giapponese del “cattivo” cinema americano d’intrattenimento, realizzato a cavallo degli anni Ottanta.

Si è scritto da qualche parte in rete, con una certa sicurezza, che Death Stranding sia il videogioco più coraggioso di Hideo Kojima. Difficile dirlo. Per quanto sia straordinario sotto diversi aspetti, da quelli puramente ludici a quelli dell’atmosfera e del concept, si fa fatica a crederlo più coraggioso di Metal Gear Solid II, per fare un esempio. Ma questo non toglie niente all’impatto politico-sociale dell’ultimo titolo concepito dall’autore giapponese, che rimane potentissimo grazie all’evocazione, o solo lo sfioramento, di diversi temi che come spettri aleggiano attraverso la storia umana: l’esistenzialismo, la dualità vita-morte, la presunta neutralità della tecnologia, l’estinzione, la concezione dell’aldilà, il rapporto tra sé e gli altri, il valore della collettività e del singolo, l’incomunicabilità, la catastrofe e la natura cattiva, l’atomica e diversi altri temi minori tipici della fantascienza classica. In passato, Hideo Kojima ha dato prova di possedere una capacità pericolosamente simile alla preveggenza per quanto riguarda argomenti come l’utilizzo dell’informazione e l’infoveillance, la propaganda e il capitalismo della sorveglianza o le problematiche relative all’utilizzo di una langue franque. Ha dato prova di saper leggere con un certo acume la contemporaneità e Death Stranding non si sottrae a questa tradizione, sebbene da un punto di vista meramente narrativo non arrivi a soddisfare pienamente i palati più fini, quelli che erano in attesa di affrontare ancora una volta un argomento sensibile. Death Stranding è anche una deificazione della figura del fattorino, una mitologia della consegna; ed è difficile non sottolineare come questo aspetto sia incredibilmente aderente alla realtà, stavolta la nostra, quella pandemica. 

Solaris e Death Stranding usano quindi le stesse parole, la stessa estetica: entrambe le opere scelgono la filosofia e il futuro per raccontare alcuni dei temi fondamentali per l’uomo. Così come Death Stranding diventa un videogioco disperatamente necessario, con tutti i suoi difetti, nel panorama attuale dell’intrattenimento videoludico, allo stesso modo Solaris è stato a suo tempo lo spartiacque della fantascienza, tra il materialismo della sci-fi di stampo americano fatto solo di metalli, razzi, astronavi, mondi alieni e l’esistenzialismo di altra fantascienza europea e russa. 

VV


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Cyberpunk 2077, parte seconda: un gioco di un futuro passato?

Cyberpunk 2077, parte seconda: un gioco di un futuro passato?

  • Alfredo Savy

  • 13 febbraio 2021
  • noninteragire

[DISCLAIMER: l’articolo contiene spoiler su Cyberpunk 2077.]

Di Cyberpunk 2077 abbiamo già scritto in precedenza, con lo scopo di chiarire o fornire spunti di discussione riguardo le problematicità relative allo sviluppo ed al lancio da parte di CDPROJEKT; inoltre, abbiamo dato uno sguardo generale – senza pretesa di completezza – alle posizioni che le parti in causa hanno assunto, dai videogiocatori alla stampa specializzata.
In questa seconda e ultima parte del coverage che dedichiamo al titolo di CDPROJEKT, ci concentreremo sull’analisi del gioco in quanto tale.


Il titolo che abbiamo scelto per discutere del cuore di Cyberpunk 2077 non è casuale. Pur ritenendolo un gioco intrigante e meritevole da molti punti di vista, non si può fare a meno di constatarne inciampi e difficoltà: questo vale sia dal punto di vista strutturale, e quindi afferente a elementi specifici di game design o di costruzione dell’open world, che narrativo-tematico.
Volendo schematizzare le fasi successive dell’argomentazione e rifuggendo dalla solita litania del diamante grezzo, si potrebbe dire che Cyberpunk 2077 è un gioco perfettamente riuscito a metà. Perfettamente perché in ogni singola parte in cui può essere decostruito, funziona; a metà perché l’impasto finale ha seri problemi di amalgama e, soprattutto, lascia tra le mani del fruitore un retrogusto – talvolta – di strutture ludiche superate o comunque perfezionate dai titoli a esso contemporanei.

SBAGLIANDO (NON) SI IMPARA?

Piccolo passo indietro, al 2015. L’uscita di The Witcher 3, nel maggio di quell’anno, ha segnato uno spartiacque per la considerazione collettiva di CDPROJEKT; l’ultimo capitolo della trilogia dello Strigo ha generato una fiumana di inchiostro digitale speso in articoli che ne riecheggiavano l’immensità, la maestosità e l’epica sottesa al racconto di Geralt e soci. Il che, va detto, non è sbagliato a prescindere dato che The Witcher 3 è un gran gioco, ma lo diventa nel momento in cui si è generata una sorta di cecità selettiva nei confronti dei vizi formali e sostanziali che pure emergevano anche da una impressione prima facie.
Spieghiamoci meglio: l’analisi teleologica, ossia relativa a mezzi e fini, risulta uno strumento particolarmente ficcante per discutere di un’opera senza però scomporla in “arti” che subiscono poi una valutazione singola. In questo modo, ogni componente che identifica un videogioco come tale – dal gameplay alle cinematiche passando per il quest e il game design – appartiene a un macrocosmo in cui tutti gli elementi vengono identificati soltanto come mezzi per raggiungere uno scopo specifico dello sviluppatore. Ciò che dovrebbe fare il critico è quello di verificare la bontà della riduzione a coerenza di strumenti e fini. Bene, in The Witcher 3 il rapporto tra queste due grandezze è problematico.
La sofferenza più grande si rileva tra le quest principali e le secondarie: per quanto queste ultime risultino ben elaborate sul piano dei dialoghi, dei temi e del più generico pathos narrativo, sono legate in maniera meno che mediocre alla main e al senso di urgenza che da essa si dipana. Per dirla in maniera più semplice: quale sarebbe l’elemento che fonda e razionalizza lo svolgimento di una missione riguardante dei formaggi in un maniero diroccato se, nel frattempo, Geralt è alla disperata ricerca della figlia scomparsa?
Nessuno.

Cyberpunk 2077 e The Witcher 3 sono intimamente legati.

Banalmente, questo genere di fenomenologia appartiene all’ambito della dissonanza ludonarrativa: il motivo per cui si affronta tale quest secondaria è prettamente ludico, segnando una frattura tra l’avatar – le cui priorità non vengono rispettate – e il videogiocatore, che desidera semplicemente capire quale mistero si celi nel collegamento tra prodotti caseari e castelli abbandonati. Il tutto, ovviamente causa una perdita di consistenza dell’intero impianto narrativo.
La dissonanza ludonarrativa di per sé non è una catastrofe e va soppesata sulla bilancia dei mezzi e dei fini di cui si discuteva poc’anzi. È possibile ridimensionare il problema se la missione principale sia nient’altro che un pretesto per spingere all’esplorazione di un mondo inteso come “parco giochi” (The Legend of Zelda: Breath of the Wild) o come luogo ultrareattivo alle decisioni del giocatore (gran parte dei titoli Bethesda Softworks), quindi una produzione che si concentri sul fruitore e sulle collegate dinamiche ludiche; se invece l’intera curvatura del gioco è indirizzata al racconto di una storia – appunto immensa, epica e maestosa – tanto da ricollocare la posizione del gameplay all’interno della struttura complessiva, allora abbiamo di fronte una zavorra che va evidenziata.
Ovviamente il grattacapo è spesso collegato al profilo di spazialità determinato dall’open world, in cui è necessario offrire al fruitore un numero soddisfacente di “puntini” da connettere e della cui qualità di connessione non si tiene abbastanza conto. E, in effetti, in The Witcher 3 esistono due dimensioni differenti: una all’interno della quest, che si attiva parlando con lo NPC di turno, e un’altra all’esterno di essa in cui tutto esiste come cosmesi e solo parzialmente come hitbox.

Night City è intrigante, ma statica.

Questa premessa è funzionale a far comprendere dove fosse rimasta CDPROJEKT dopo l’uscita di The Witcher 3: a un gioco enorme e ben scritto, ma con delle difficoltà di compatibilità tra le varie parti narrative che lo componevano e ad un profilo equivoco di game design. Perciò, stante anche l’uscita di titoli come Red Dead Redemption 2 che svolgevano in maniera più elegante questo compito, da Cyberpunk 2077 ci si aspettava un passo in avanti dal punto di vista della coesione.
Il dente va tolto subito: in Cyberpunk 2077 non solo non sono registrati miglioramenti sensibili, ma è addirittura possibile osservare una regressione. CDPROJEKT ha, infatti, realizzato una scelta di campo: quella di costruire un titolo strutturalmente simile a The Witcher 3, con main, secondarie e contratti organizzati secondo un sistema di scelte impattante non la struttura orizzontale della trama, bensì la “catena” narrativa della singola quest. L’impressione, però, è che tale scheletro sia stato utilizzato come ripiego dopo aver mancato una visione più grande e di sintesi tra le scuole Rockstar e Bethesda: mentre la prima è solita creare degli open world completamente imperniati sulla narrazione principale, la seconda si basa su mondi di gioco reattivi e incentrati sull’interazione reciproca tra missioni e fazioni. Probabilmente, l’intenzione di CDPROJEKT era quella di bilanciare queste due lezioni di game design, realizzando l’open world definitivo in cui veniva sia raccontata una grande storia che affrontato un complesso sistema di scelte e di interdipendenza tra le componenti ludiche; il mancato raggiungimento di quest’equilibrio ha comportato degli sbilanciamenti, il più evidente dei quali è rappresentato dalla durata della missione principale.
Non c’è nulla di male ad avere una main compressa nei tempi e nei fatti, sia chiaro; mancando però, in Cyberpunk 2077, quella struttura reattiva in funzione della quale è sacrificata la lunghezza degli avvenimenti, a un certo punto emergerà con forza la stortura di un open world cosmetico correlato a una main incapace di riempire gli spazi geografici offerti dal gioco stesso. Il tutto viene acuito dal ritorno delle secondarie concettualmente sconnesse dalla principale: V sta morendo e deve cercare di salvarsi, eppure continua a svolgere i vari compiti che gli vengono affidati semplicemente perché il giocatore desidera farlo. Ancora, bisogna avanzare con la principale per ricevere più secondarie e vedere aumentata le reputazione che comporta l’arrivo di nuovi contratti: le condizioni di urgenza di V, di nuovo, realizzano una frattura, una dissonanza, impossibile da giustificare. Un circolo vizioso in cui al giocatore viene scaricata – letteralmente – una quantità sempre maggiore di attività da svolgere mentre lo stato di salute del protagonista sembra peggiorare passo dopo passo nell’avventura.
Insomma. Un gioco che sacrifica la profondità ruolistica, un mondo vivo e reattivo e un sistema di fazioni sull’altare della storia, deve poi necessariamente possedere una narrazione principale lunga, densa e di grande respiro che sia in grado di colmare di senso il prodotto: tutti aspetti in cui Cyberpunk si esprime solo parzialmente e che parzialmente invalidano il giudizio sulla coerenza tra mezzi e fini.

MILLE V-ITE

Al contrario, il punto di fascino della produzione di CDPROJEKT è sicuramente rappresentato dalla grande quantità e qualità di contenuti esterni alla main: ogni quest secondaria, o semplice contratto, presenta una struttura narrativa e un carattere propri. In particolare, è facile osservare come lo sviluppatore polacco abbia immaginato una proposta a “ventaglio”, quasi delle “Night City tales” in cui immergersi e lasciarsi trasportare dagli eventi, variando l’offerta anche in termini di genere. Infatti ci si muove, quasi senza soluzione di continuità, da incarichi che si avvicinano alle storie di frontiera – di Panam Palmer – verso quelli neo-noir di River Ward, passando per le teorie del complotto politico dei coniugi Peralez, i racconti da strada di Johnny Silverhand, il carattere da thriller psicologico delle quest di Judy Alvarez, fino alla spiritualità di Joshua Stephenson in “Sinnerman”.

Vivere mille vite, una delle quali con i Nomadi.

Quest’ultima missione dimostra quanto grande sia stato lo sforzo di CDPROJEKT nel restituire al videogiocatore delle singole esperienze memorabili: la storia di un carcerato che decide di farsi crocifiggere come Gesù Cristo per poter trasmettere l’amore universale tramite braindance, espiando i propri peccati, non può che colpire chi è al di là dello schermo. L’intera missione sembra prendere spunto, infatti, da Silenzio di Shūsaku Endō rielaborandolo in chiave Cyberpunk: la violenta Night City, luogo di perdizione e di assenza della divinità, si confonde con il Giappone feudale del romanzo e conduce a una battaglia interiore tra il desiderio di una nuova spiritualità e l’arrendevolezza al peccato o alla semplice consapevolezza della propria umanità. La componente ruolistica, in questo come in altri casi, funge da vero e proprio “ingrediente segreto” per aumentare il coinvolgimento e far sentire il videogiocatore all’interno della struttura narrativa, mediante un sistema di interpretazione, dialoghi e scelte che – sebbene non influenzi oltre l’arco predeterminato della stessa quest – ha comunque la capacità di spingere il fruitore un passettino più in là all’interno della struttura ludica. Il poter effettivamente comunicare le proprie idee sul fatto che il detenuto fosse un povero pazzo o un illuminato dallo Spirito Santo, se il suo percorso di redenzione fosse meritevole di pietà o di disprezzo, ci rende maggiormente partecipi di ciò che accade a schermo e ci consente di modellare il nostro V pur sempre nei limiti del perimetro stabilito dallo sviluppatore e degli scopi che quest’ultimo si prefigge. Tutto ciò, unito alla libertà fornita dagli autori polacchi in termini di quest e level design rispetto ai lavori precedenti, costituisce un momento topico di Cyberpunk 2077 e di strappo con la serie The Witcher: infatti il gioco consente di poter raggiungere l’obiettivo – nella maggior parte dei casi– mediante un numero finito ma rilevante di approcci, utilizzando meccaniche stealth, arma bianca, semplice dialogo o capacità di hacking. Questo contribuisce a separare logicamente una missione dall’altra non solo come temi – il cui ventaglio era comunque superiore a The Witcher – ma anche come struttura, evitando l’utilizzo spropositato di alcune meccaniche come i sensi di Geralt.

Un estratto dalla quest di Joshua: si discute di Dio.

Un altro esempio di scrittura ricercata e impattante in Cyberpunk 2077 è sicuramente la quest The Hunt, in cui il già citato detective River Ward e V si lanciano alla ricerca di un nipote scomparso a causa di uno psicopatico che adescava le proprie vittime, depresse e ai margini della società, fingendo di offrire loro un aiuto psicologico. In questo caso, come già in Scenes from a Marriage dell’espansione Hearts of Stone di The Witcher 3, CDPROJEKT riesce a dimostrare perché è oggi considerata nel gotha dell’industria. Inserendo il videogiocatore in una cavalcata narrativa senza respiro – quasi al limite dell’avventura grafica o del walking simulator mediante lo strumento delle braindance – è realizzata una dimensione di disagio, di vite interrotte in una società ormai al crollo e in cui diventa faticoso distinguere le colpe dei padri e dei figli, in una spirale di violenza senza fine.
Il simbolismo è soprattutto nelle immagini, nei nomi. River rimanda forse a Mystic River (Eastwood, 2003) che tanto bene ha descritto i dolori del passato e del presente e le difficoltà del trauma. La casa degli orrori e il campo di mine che la circonda, dove i giovani adolescenti sono agganciati a delle macchine come animali da macello, ricorda la prima stagione di True Detective (Pizzolatto e Fukunaga, 2013) in cui Rust e Marty trovano i bambini rapiti da Ledoux e compari: una specie di buco nero dell’anima, un luogo ameno del male riconoscibile a pelle e a distanza, quasi come se fosse un eterno simbolismo di dolore e tragedia (cfr. con la casa nella neve di The Last of Us, Parte II di Druckmann, Gross, Naughty Dog 2020).

Una email tratta dalla quest The Hunt.

C’è, però, un grande rovescio della medaglia. Sebbene dal punto di vista “atomistico” tali missioni evidenzino dunque una grande cura dei particolari e siano capaci di entrare nella memoria del videogiocatore, l’idea di tirare su un collage così variegato conduce a un’ulteriore frammentazione del substrato narrativo, in realtà già abbastanza terremotato di suo. La struttura dei finali, in cui solo alcune strade trovano sbocco (Panam, Johnny) mentre ad altre è destinato solamente un semplice cenno o cameo, richiama un po’ la pessima gestione della politica in The Witcher 3, dove viene realizzata come un elemento distaccato dal resto e spesso sbrigativo in termini di influenza sugli altri avvenimenti.
Se, come abbiamo visto, esiste uno scarto tra una main che pone un’impellenza di vita o di morte e delle secondarie che sono poste in una dimensione dove quell’impellenza non sussiste, anche il rapporto tra secondarie stesse risulta fragile: mancando un momento topico in cui da tutti i fili tessuti viene sapientemente ricavato l’abito finale (es. “La Battaglia di Kaer Morhen” in The Witcher 3), Cyberpunk 2077 soffre di una compartimentazione eccessiva e straniante, in cui V sembra vivere mille vite ma nessuna di queste entra davvero in contatto con le altre.

Brusco cambio di scena per V, che ora discute di realtà e complotti.

Tutto questo non fa altro che rafforzare l’idea che – a un certo punto dello sviluppo, per cause intuibili e relative a tempo e costi – il team di Varsavia abbia deciso di compattare quanto realizzato e dargli un senso lasciando, però, una cicatrice agli occhi dei più attenti. In effetti, i tre rami principali del Secondo Atto (Takemura, Panam, Judy) sembrano ricollegarsi a una specifica area (Corporativo, Nomade, Vita di Strada) che rispecchia la natura dei prologhi e si riflette nei tre percorsi conclusivi (Hanako, Aldecaldos, Rogue). Potrebbe essere un caso, ma la possibilità che inizialmente fossero previste tre linee rosse e parallele non può essere scartata a priori; in questo senso, la sensazione di “mosaico” del prodotto finito sarebbe dovuta non all’aver consapevolmente evitato di migliorare la struttura di The Witcher ma alla necessità di mettere una toppa in corsa, unendo delle esperienze che sarebbero dovute rimanere separate.
In effetti esisterebbe al riguardo proprio un precedente targato CDPROJEKT, quel The Witcher 2 che, a seconda della decisione presa a Flotsam, spostava il videogiocatore a Vergen o all’accampamento appena fuori la città nanica, modificandone la prospettiva e raccogliendo un microcosmo di personaggi, oggetti, situazioni e quest fruibili unicamente in quel ramo.

TEMI E NARCOSI

Il tema fondamentale di Cyberpunk 2077 è quello del rapporto tra corpo e anima. Mentre altri aspetti tipici del cyberpunk moderno sono espressi in maniera sbrigativa e superficiale – come ad esempio quello dei potenziamenti e la relativa riflessione sul rapporto tra umanità e tecnologia relegato a una brutta serie di secondarie sulla cyberpsicosi – gli scrittori di CDPROJEKT hanno deciso di rendere centrale questo topos tanto caro al genere, rielaborato da una campagna cartacea per il GDR Cyberpunk 2020 (Never Fade Away, 1988) e già noto al grande pubblico grazie a un classico come Ghost in The Shell (Shirow, 1989).
Le domande che Cyberpunk 2077 solleva non sono affatto banali: una copia digitale di una persona deceduta è quella persona? Nel momento in cui un corpo rigetta biologicamente il suo precedente occupante a discapito di un altro, è corretto considerarlo ancora di proprietà del primo? Qual è il confine che separa la coscienza dall’involucro che la contiene? La risposta è lasciata ovviamente al videogiocatore nel finale e impatta, oltre all’etica, le intime credenze personali di quest’ultimo.

Alt-Cunningham, nel ruolo di demiurgo, spiega a V che non è più V.

In un certo senso, consegnare il corpo di V a Johnny Silverhand chiude il percorso del videogiocatore (appunto V-ideogamer) e del suo avatar, il quale non aveva un peso in quel mondo prima di essere controllato e sparisce nel nulla dopo la conclusione del controllo, raggiungendo la trascendenza promessa da Alt-Cunningham. V sbarca infatti in una dimensione diversa, la nostra, in cui porta con sé il bagaglio delle nozioni apprese a Night City ma in una nuova veste: quella di chi l’ha impersonato durante Cyberpunk 2077.
In effetti, la storia di Cyberpunk 2077 è la storia di Johnny Silverhand, di come sia morto e rinato dopo aver conosciuto il Videogiocatore, di quanto l’influenza di una persona reale l’abbia costretto a crescere e a cambiare e a modificare la sua bussola valoriale, abbandonando i panni del lottatore per il bello. E lo fa attraverso delle lunghe chiacchierate con un ragazzo morente, che ricordano Mr Robot (Esmail, 2015), con V che potrebbe identificarsi come un pezzo della personalità del Videogiocatore emersa nello specifico contesto di Cyberpunk 2077.
L’altro tema portante del titolo di CDPROJEKT, di conseguenza, non potrà essere altro che la resa: i cambiamenti che sono stati portati a quel mondo non hanno condotto a nulla, se non a un peggioramento e a un’ulteriore repressione nel corso degli anni. In effetti questo sembra riguardare anche la nostra storia e indurci ad una riflessione su quanto sia labile il confine tra partigiano e terrorista, etichette che vengono apposte a posteriori e in base alla narrazione che si vuole intraprendere. Riflettendoci, la bomba nucleare di Silverhand non distrugge l’Arasaka, anzi la rafforza; la caduta della prima rete conduce alle politiche di controllo della NetWatch; il collettivo Bartmoss pende dalle labbra di tale Swedenborg, una IA indovina da quattro soldi abbandonata a Pacifica e che parla come il fusarobot. Lo stesso V non è l’uomo del destino e il suo passaggio, in un modo o nell’altro, segnerà unicamente le persone che ha incontrato, senza capovolgere l’assetto istituzionale; nessuno, nel mondo di Cyberpunk 2077, pare poter aspirare a un traguardo maggiore che dare il nome a un drink dopo la propria morte, quale unica traccia nella Storia e risultato di un trapasso spettacolare. Desolante.

Parole a caso.

Ciò che stranisce, però, è come né da parte della Rete né da parte delle community videoludiche in generale, siano sgorgate discussioni circa gli interrogativi ed i temi etici sollevati dagli sviluppatori. Il paragone con The Last of Us Parte II, gioco decisamente più lineare ma che ha suscitato un certo tipo di reazione da parte del pubblico riguardo i valori espressi, sorge spontaneo; cosa non ha funzionato in Cyberpunk 2077? Le risposte potrebbero essere varie.
In primo luogo, la tempesta mediatica che ne ha accompagnato il lancio potrebbe aver probabilmente strozzato la disamina contenutistica, spostando l’asse dell’analisi.
In secondo luogo, date le caratteristiche di Cyberpunk 2077, molti potrebbero non aver vissuto con un certo trasporto determinate volate ideologiche, preferendo un approccio più ancorato al suolo e ai personaggi; il che ci conduce al terzo e ultimo aspetto critico.
Cyberpunk 2077 è un titolo scritto secondo una chiave intimista e che, spesso, tende a narcotizzare i grandi temi concentrandosi sulla dimensione affettiva che riguarda i “tipi” e gli “individui” di cui si compone. Crea un legame fisiologico tra V e chi gli orbita intorno; di conseguenza, tra il videogiocatore e gli NPC, scritti con maestria e vivacità.
Questa caratteristica, insieme alla distanza che separa main e secondarie e tra secondarie stesse – di cui si è abbondantemente discusso -, contribuisce a dare l’impressione di un gioco che tende a girare in tondo attorno all’obiettivo, creando un solco di passaggi e contropassaggi che si perdono a un passo dal punto d’arrivo.

Di un gioco che tende a essere, come suggerito in apertura, perfettamente riuscito a metà.

AAS


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Cyberpunk 2077, parte prima: cronaca di un percorso tortuoso

Cyberpunk 2077, parte prima: cronaca di un percorso tortuoso

  • Alfredo Savy

  • 6 febbraio 2021
  • noninteragire

Per le riflessioni che comporta e la difficoltà della trattazione, abbiamo ritenuto opportuno disegnare il quadro complessivo del contesto prima di avventurarci nelle specificità del gioco: questa successiva operazione, niente affatto più immediata, sarà però totalmente incentrata sulla dimensione ludica, dimenticandoci degli episodi di costume che hanno accompagnato Cyberpunk 2077 e ai quali è invece dedicato questo approfondimento.


Anche in un periodo posteriore all’uscita, l’analisi di Cyberpunk 2077 rimane complessa e articolata: le intricate vicende extra-ludiche che ne hanno accompagnato il lancio rappresentano un momento topico di questa stagione del videogioco e, probabilmente, andranno a influenzarne anche le successive.
La storia commerciale di Cyberpunk 2077 è scomponibile in quattro atti: dalla semplice cronaca di quanto accaduto ci si muove verso le prospettive del gioco per il futuro, passando attraverso il tema centrale della “asimmetria informativa” e del ruolo che le altre parti (stampa, hardware houses, videogiocatori) hanno assunto nel corso del tempo. A ogni atto sarà quindi dedicato una piccola finestra nella quale saranno introdotti questi argomenti al lettore, senza pretesa di esaustività ma con il desiderio di fornire argomentazioni convincenti o, quantomeno, interessanti.

DAL PARADISO ALL’INFERNO

Annunciato per la prima volta nella primavera del 2012 e mostratosi in video attraverso un piccolo e concettuale teaser qualche mese dopo su YouTube, Cyberpunk 2077 è finito per diverso tempo ai margini della comunicazione di CDPROJEKT, la Software House polacca famosa per i propri lavori sulla serie The Witcher. In effetti lo sviluppatore di Varsavia era allora a cavallo tra la seconda e terza installazione dei giochi dello Strigo Geralt; in particolare, The Witcher 3 avrebbe concluso un percorso iniziato quasi un decennio prima, ricevendo lodi più o meno sperticate di pubblico e di critica e ottenendo anche un grande successo di vendite. Di lì in poi, l’azienda si sarebbe trasformata in un gigante europeo del settore videoludico.
Oltre a queste note positive, è importante sottolineare come CDPROJEKT fosse riuscita a creare un’immagine di software house “amica” dei videogiocatori, grazie a un corposo supporto di DLC gratuiti post-lancio, a delle espansioni vendute a un prezzo molto accessibile per qualità e durata e al rigetto di politiche viste di cattivo occhio dalle community come i DRM e le microtransazioni. La collocazione commerciale di CDPROJEKT rispetto ai propri acquirenti era indirizzata nel costruire un legame stabile con chi aveva deciso di supportarli: un gigantesco “di noi ci si può fidare”, insomma.

CDPROJEKT all’E3 2004…

Dopo vari anni di silenzio e voci che si rincorrevano incessanti sulla rete, Cyberpunk 2077 ricompare sul palco dell’E3 con un trailer esplosivo e accompagnato dalla figura di Keanu Reeves, il quale veniva contestualmente annunciato nella parte dell’enigmatico rocker Johnny Silverhand, figura ricorrente nel gioco di ruolo cartaceo “Cyberpunk 2020” da cui l’intero progetto trae ispirazione. Sembra un matrimonio perfetto: una delle compagnie di videogiochi più amate e rispettate del globo terracqueo si congiungeva metaforicamente con un personaggio altrettanto benvoluto e – non a torto, sia chiaro – osannato dagli appassionati del medium cinematografico. A coronare il sogno vi era la presenza di Mike Pondsmith, autore del già citato Cyberpunk 2020, come sigillo di garanzia e certificato umano di qualità dell’intera produzione, mettendo in cassaforte anche il rispetto dei valori dell’opera originale.
Date queste carte sul tavolo, non poteva che seguire un trionfo annunciato: in effetti è esattamente questo ciò che accadde, come visibilmente rappresentato dall’estasi collettiva della kermesse losangelina.
In realtà, alcune minuscole crepe di ciò che sarebbe accaduto poi erano visibili già nel giugno 2018 quando Iwinski, co-CEO di CDPROJEKT, parlò espressamente di un avvenuto “cambio di direzione” durante lo sviluppo: una parola terribilmente simile a “reboot”. Il tutto era già intuibile, sebbene non dimostrabile, dalla frattura semantica che separava il teaser del 2013, ambientato in una cupa Night City e centrato tematicamente sul fenomeno delle “augmentation”, dei potenziamenti artificiali al corpo umano, e la luminosa immagine techno-cafonal mostrata un lustro dopo attorno alla figura del mercenario V. Il trailer di Cyberpunk 2077 non fu infatti apprezzato da William Gibson e risultò poco aderente all’idea di Cyberpunk ormai di dominio pubblico, ancorato ad atmosfere come quelle di Neuromante o create dalla penna di Philip K. Dick. In ogni caso, l’attuale versione di Cyberpunk 2077 si presentava come più vicina al GDR cartaceo, e la questione stilistica venne presto liquidata in tal senso ma dimenticandosi pure delle frasi sul “quasi riavvio” del progetto che avevano acceso una fiammella di dibattito.

…e alla Gamescom del 2014.

Successivamente, l’uscita di Cyberpunk 2077 venne annunciata per aprile 2020; sebbene in alcune interviste trapelasse qualche incertezza più del dovuto, i preorder continuavano a volare e non sembravano esserci grosse polemiche in vista. Il successivo gennaio 2020 risultò essere un mese cruciale: un nuovo rinvio, stavolta a settembre, e le opinioni diffuse che accusavano il gioco di transfobia e di crunch,iniziarono a diventare elementi di dubbio collettivo. Il giorno di uscita effettivo di Cyberpunk, dieci dicembre 2020 e dopo due ulteriori rinvii, sembrava quindi assumere i crismi della liberazione collettiva, una data segnata in rosso dai videogiocatori di tutto il mondo; ed è qui che inizia la più grande polemica della storia recente dei videogiochi.
Cyberpunk viene infatti premiato dalla stampa in versione PC, ottenendo un aggregatore metacritic superiore ai novanta centesimi; nello stesso momento, però, il gioco sembra girare benino su next gen, discretamente bene sulle midgen e veramente male sulle macchine del 2013, le cui copie review non erano state sottoposte a recensione perché non materialmente inviate alle redazioni. Soprattutto nella sua versione del Day One, senza patch, Cyberpunk 2077 presenta un numero considerevole di glitch, bug, crash, frame rate e risoluzione claudicanti.

Volendo centrare il tema dei giorni successivi, si potrebbe rilevare l’immediata e importante richiesta di rimborso da parte dei possessori di hardware old gen; la straordinarietà della situazione risulta essere completamente incompatibile con il sistema di policy del PlayStation Store, conducendo all’esclusione del gioco dalla piattaforma digitale.

Allo stesso tempo inizia, sui canali social e generalmente sui luoghi di aggregazione online, un’ondata di indignazione collettiva che spesso pare sfociare nell’isteria, un vero e proprio moto di disgusto che travolge sia il gioco nella sua interezza che la software house polacca: si sente parlare di “truffa” e si fa labile la distinzione tra contenuti e forma, riducendo l’intero discorso alla cronaca di un disastro annunciato anche sul lato prettamente ludico di Cyberpunk.
A queste voci si uniscono, in maniera più forte e pressante, le già citate accuse presenti nel periodo precedente l’uscita riguardo lo sfruttamento dei lavoratori e il tratteggio di un’immagine non favorevole agli individui trans; la vicenda assumerà dei connotati addirittura macabri e inaccettabili con l’invio minacce di morte ad alcuni dipendenti dell’azienda polacca, costretti a lasciare i social.
Ancora, seguiranno class-action condotte dai soci di minoranza danneggiati dal conseguente tonfo del titolo di CDProjekt, investigazioni dell’AGCM polacca e, infine, le rassicurazioni da parte di CDProjekt sul supporto che avrà luogo negli anni a venire.

ASIMMETRIE INFORMATIVE

Cyberpunk 2077 runs “surprisingly well” on current-gen consoles.

Adam Kaciński, co-CEO di CDPROJEKT.

Partiamo dalla definizione. Si verifica asimmetria informativa quando un produttore conosce qualcosa di cui l’acquirente non possiede contezza e non lo comunica; questo comportamento è biasimabile su diversi piani, da quello etico a quello più squisitamente legale e commerciale. Nel nostro caso, il fatto che CDPROJEKT fosse consapevole dello stato di salute delle versioni base e abbia comunque deciso di proseguire con la pubblicazione del gioco su queste piattaforme, sbilanciandosi con dichiarazioni lontane dalla realtà, è deprecabile e conduce alla giusta pretesa del rimborso come pure all’insoddisfazione dei consumatori in senso lato sul piano dell’immagine.
Non si può infatti evitare di provare un senso di fastidio davanti al mutismo selettivo di CDPROJEKT, che non ha mai mostrato di prima mano le versioni per PS4, Xbox One e One S, utilizzando al contrario le midgen PS4 Pro e Xbox One X come minimo sindacale.

Esempio visivo di asimmetria informativa.

Allo stesso tempo, però, queste considerazioni non possono e non devono invadere lo spazio vitale che appartiene al Videogioco, inteso nella sua accezione più stretta e sedimentata, e riflettersi sul giudizio di valore che gli viene attribuito. Per dirla altrimenti: l’asimmetria informativa è una bad practice molto grave in un mercato che tende verso la concorrenza perfetta, ma non per questo si è autorizzati a presumere che Cyberpunk sia un gioco indiscutibilmente brutto. Il termine “presunzione” non è usato a caso, ma come sinonimo di supposizione: molto spesso si sono accollati alla marcia imperiale di indispettiti – se non l’hanno addirittura fomentata – schiere di persone che il gioco non l’hanno acquistato o nemmeno provato, provocando un calo di credibilità della contrapposizione e degradandola a baraonda, finendo per danneggiare anche chi esprimeva una posizione più che legittima.
Inoltre, sebbene risulti ormai chiaro che Cyberpunk 2077 sia stato decisamente rimaneggiato nel corso degli anni e tante promesse degli sviluppatori non si siano poi concretamente realizzate nella versione definitiva del gioco, è un errore metodologico utilizzare ciò che non è presente in un’opera ai fini di un’analisi critica della stessa. Il giudizio deve essere operato sempre e solo su quello che esiste, e non in base a ciò che sarebbe dovuto esistere: la mancanza di alcune feature annunciate in pompa magna non ricade sulla qualità del prodotto finale ma afferisce sempre alla critica dei processi comunicativi attuati da CDPROJEKT. L’assenza di un sistema di arrampicata verticale, ad esempio, potrebbe aver condotto a un risultato migliore rispetto alla sua presenza in termini di coerenza del game design: si può contestare a CDPROJEKT di aver promesso e non mantenuto, ma non si può affermare che Cyberpunk 2077 sia monco perché non esistono questa o altre componenti.

E LA STAMPA? E SONY? E MICROSOFT?

Passando ai soggetti “esterni” alla vicenda, per quanto sia pacifico che le mancanze dello sviluppatore polacco non possano in alcun modo realizzare un profilo di equivalente responsabilità dei redattori, sarebbe sciocco liquidare così in breve la questione.
Il ruolo della stampa libera, critica, virtuosa, non è e non può essere quello di assecondare una narrazione del produttore.
Se è palese insomma che l’invio alle redazioni della sola versione PC da parte di CDPROJEKT sia senz’altro torbido, la giustificazione “questo ci hanno mandato, questo abbiamo recensito” non è accettabile e assomiglia più a un pallido tentativo di sottrarsi alle insofferenze collettive che alla realtà dei fatti. Il giornalista, anche non specificamente d’inchiesta, è garante di trasparenza e pubblicità – nel significato più pregno del termine, cioè quello di portare al pubblico la sostanza delle cose – e del bilanciamento tra l’esigenza di vendere dei produttori e l’acquisto consapevole dei consumatori.

Metacritic per PC il giorno del lancio…

Tutto ciò è clamorosamente venuto meno con Cyberpunk, con i recensori che si sono limitati a seguire le tracce che lo studio gli aveva proposto e hanno rinunciato all’intermediazione necessaria tra le parti; ciò non bastasse, si è assistito a una rotazione di 180 gradi delle opinioni, riflessa sul calo del voto aggregato Metacritic anche della versione PC, e la messa in moto di un bombardamento mediatico volto a sottolineare errori e mancanze del gioco.
Un’operazione esattamente speculare a quella di esaltazione che aveva accompagnato lo sviluppo di Cyberpunk 2077 durante gli anni, e che nessuno aveva neanche immaginato di porre in essere prima del lancio, sebbene nell’aria ci fosse più di qualche avvisaglia.
Insomma, è emerso con forza un sinallagma ben preciso, riassumibile nel fatto che se vuoi essere un sito competitivo devi poter scrivere per tempo; se vuoi poter scrivere per tempo, necessiti di ricevere il gioco per tempo e per ottenerlo hai una sola fonte, cioè chi da quei giochi trae profitto ed è parte interessata. Ovviamente ciò comporta un abbassamento del livello di protezione del consumatore, non scientemente voluto da parte della stampa di settore ma pericoloso per lo stato di salute della stessa e per il coefficiente di affidabilità e fiducia che viene riservato alle valutazioni dei redattori.

…e dopo la shitstorm.

Infine, un cenno va anche alle case produttrici di hardware: per quanto il controllo qualità di Sony Microsoft probabilmente non abbia una dimensione profonda come da credenza popolare, la condizione di Cyberpunk 2077 al lancio probabilmente dovrà spingere anche a ripensare questo strumento come salvaguardia del cliente finale rispetto alla giusta pretesa di ricevere un prodotto sufficientemente fruibile, creando dei criteri che stabiliscano quale sia il livello minimo di accettabilità e modificando i meccanismi di rimborso digitale per venire incontro alle situazioni del domani.

IL FUTURO DI CYBERPUNK 2077

CDPROJEKT è stata sufficientemente chiara: Cyberpunk 2077 verrà supportato a lungo, e probabilmente lo sarà in quattro fasi di cui noi conosciamo attualmente le prime due.
Infatti, dopo aver risolto i problemi tecnici che attanagliano il titolo, sarà il momento dei DLC gratuiti – cosmetici e piccole aggiunte narrative – e della versione next-gen, per poi passare alle espansioni a pagamento, come fu per The Witcher 3. L’ultima fase, probabilmente, sarà quella del multiplayer di cui attualmente non è dato sapere con certezza contenuti e modalità.

La roadmap di Cyberpunk 2077, anno domini 2021.

Anche qui, però, il problema rischia di essere metodologico.
Per quanto il gioco possa essere abbellito, modificato e migliorato, l’impressione è che esista un Cyberpunk 2077 virtuale, risultato di anni di marketing capzioso, hype culture e sogni dell’utenza, e un Cyberpunk 2077 reale, come ci è stato concretamente presentato. La release del dieci dicembre sarà soggetta a un importante piano di upgrade e questo è certo, ma la possibilità che non venga mai colmata la distanza tra ciò che i videogiocatori pensavano di ottenere e ciò che avranno è molto concreta; ciò potrebbe condurre a una diatriba potenzialmente senza fine.

Cyberpunk 2077 è e rimarrà un gioco storico. Non solo per la componente strettamente ludica, cui dedicheremo un autonomo approfondimento, ma per l’aver segnato in maniera irreversibile la discussione riguardo i rapporti tra SH, fruitori, stampa e produttori di hardware. Un gioco che, come Icaro, ha avuto il difetto di ambire così tanto da puntare al sole e bruciarsi, danneggiando parzialmente la reputazione di una compagnia molto apprezzata e provocandole un notevole colpo economico sul mercato azionario.
C’è un prima Cyberpunk 2077 e un dopo Cyberpunk 2077: solo sul lungo periodo avremo modo di capire se quanto visto sarà capace di muovere positivamente i fili dell’industria oppure relegarla a uno stato comatoso, a una posizione vegetativa in cui il terrore di generare un’altra spirale del genere conduca a produzioni sempre più standardizzate, timorose e dai budget contenuti.

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Si scrive Death Stranding, si legge Sons Of Liberty 2

Si scrive Death Stranding, si legge Sons Of Liberty 2

  • Alfredo Savy

  • 24 ottobre 2019
  • noninteragire

[DISCLAIMER: L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SU METAL GEAR SOLID E NEON GENESIS EVANGELION]

All’alba del lancio di Death Stranding, il nuovo gioco di Hideo Kojima previsto su PlayStation 4 all’inizio di novembre, la mente vola a quanto accaduto quasi un ventennio fa, e in maniera specifica al rapporto tra Metal Gear Solid 2 con il suo successore, Metal Gear Solid 3.
Leviamoci subito dagli imbarazzi: quest’ultimo era un gran gioco, forse preso come tale tra i migliori di sempre e superiore al predecessore in termini strettamente ludici, ma semplicemente non ne era il sequel diretto. Una delle poche cose che tendeva ad accomunarli era il titolo e il fatto di avere numeri sequenzialmente adiacenti. Per il resto, differivano quasi in tutto.

Forse il più amato dai fan della saga di Hideo Kojima, Metal Gear Solid 3 era un titolo intimista, un romanzo di formazione del giovane Big Boss ambientato in un’epoca cronologicamente molto distante dalla precedente installazione; allo stesso tempo, poneva le basi di una trama orizzontale che la più grande rockstar dei videogiochi sarebbe andata a chiudere con il quarto capitolo, espandendolo in quelli successivi. Diverso periodo, diverso protagonista, diversi temi; insomma, un animale totalmente distante rispetto al trattato di fantapolitica, con evidenti riverberi non solo distopici ma anche sociologici, che il buon Hideo ci aveva proposto un piccolo numero di anni prima, in un tempo in cui i tripla A piovevano a dirotto sul mercato.
Metal Gear Solid 2 è stato un titolo da imprinting per molti, seminale, per differenti ragioni. Amato e odiato. Innanzitutto era fottutamente visionario e ha previsto con un decennio di anticipo l’internet moderno: in molti ricorderanno la lunga chiamata Codec precedente alla battaglia finale con Solidus, chiamata nella quale si spiegava il progetto S3 – Selezione per la Sanità Sociale – e si anticipava un grande tema moderno, cioè quello della circolazione delle notizie online al fine di modificare l’opinione pubblica.

Il cuore del discorso era l’incapacità di dimenticare della Rete, a fronte di una impossibilità di andare avanti per l’intera razza umana nel caso in cui determinate faccende si fossero riverberate nel sociale senza alcuna selezione pregressa e senza alcuna verifica di attendibilità (qualcuno ha detto fake news?). Insomma, saremmo scivolati in un pantano senza fine da cui solo l’intervento delle IA avrebbe potuto salvarci, dei moderni censori, dei deus ex mac(c)hina capaci di proiettarci verso un uso consapevole dei potenti mezzi telematici del nuovo millennio; e se questa lungimiranza ancora non vi spaventa, in parallelo vengono sviluppati quattro ulteriori discorsi. Il primo, strettamente legato a quanto appena discusso, è sulla gestione di quei dati da parte dei privati non solo per bonariamente “controllare” il processo evolutivo e dirigerlo su lidi più sereni, ma anche per modificare gusti personali e creare le classifiche di vendita proiettando i processi artistici su delle standardizzazioni produttive, semplicemente ricevendo analisi di mercato al fine di profittare.

Il secondo, brevemente sfiorato quando è falsamente rivelato che S3 stia per Solid Snake Simulation, una simulazione paramilitare atta a creare esperienza “reale” attraverso un’interazione “virtuale”, riguarda il Videogioco, il quale è strutturato secondo un’interazione troppo spesso violenta e a favore del singolo, non della comunità, sia nelle esperienze cooperative classiche che nei multiplayer competitivi dove – rispettivamente – bisogna ottenere un vantaggio o sfruttando l’altro o sull’altro: insomma l’uomo è sempre un mezzo e mai un fineKojima si rivolge poi alla società attuale dei consumi nel terzo punto, ben esemplificato dai dialoghi codec tra Raiden e Rose: questi ultimi rappresentano l’incomunicabilità umana all’interno di un nucleo fondamentale, quello di coppia (indipendentemente dal sesso, data la componente androgina di Raiden), e la conclusione dell’esperienza della comunicazione verbale, descrivendo una società distante, fredda e totalmente alienata da un utilizzo deviato delle nuove tecnologieI wouldn’t even know the real me myself dice il nostro Jack alla sua bella, non mi conosco nemmeno io, figurati come puoi farlo tu.

La crisi della comunità si è riverberata sull’individuo, che davanti al disfacimento della prima evita gruppi di discussione più grandi (avoid larger forums, dice Kojima) e si ritira in comunità amene, comunità piccole dove ottiene consenso e non crescita. Insomma, il Game Director nipponico aveva visto non solo cosa sarebbe successo con la nascita dei social, ma anche cosa sarebbe accaduto con il diffondersi dei veleni attraverso di essi: l’abbandono di tale piattaforme, il ritiro in luoghi virtuali meno ampi, la chiusura dell’individuo anche sulla Rete.

Quest’ultima è una tematica molto simile, se non sovrascrivibile, a quella trattata nell’immenso anime di Hideaki AnnoNeon Genesis Evangelion. Come in Metal Gear Solid 2, è probabile che se ci si concentra unicamente sugli Angeli, gli Evangelion, la Nerv, il Third Impact, ci sarà sempre un passaggio che non sarà chiaro e l’intera esperienza risulterà deludente: Anno e compari hanno scritto molto spesso per accumulo, con l’intento di confondere lo spettatore e farlo sintonizzare con l’opera a livello emotivo, quasi escatologico, più che in termini di razionalità. 

Alla fine tutti gli aspetti non strettamente psicologici o inerenti alla raffigurazione dei personaggi, specchio poi di un “modello” di spettatore a cui si rivolgevano gli autori nella desolazione di un certo tipo di subcultura di metà anni novanta, non sono altro che un gigantesco MacGuffin per condurre alla chiosa finale: nel momento in cui Shinji uccide il Fifth Children – e viene realizzato lo scarto rispetto a quando si era rifiutato di distruggere l’Eva 3, pur non sapendo chi ci fosse dentro – la realtà viene meno perché non ha più senso di esistere. Se sono gli altri, nel modo in cui ci vedono e nel modo in cui noi vediamo loro, processati dalle nostre categorie di senso, a costituire la percezione di ciò che è vero, allora nessun principio di giustificazione superiore può spingerci al punto di cancellarci a vicenda, giustificando l’omicidio. Infatti, ciò significherebbe annullare noi stessi, costringerci in un mondo di incomunicabilità, una regressione a organismi basilari; e non per niente Shinji, nell’ultimo episodio, diventa un bozzetto. L’unico modo per sfuggire all’incomunicabilità è accettare l’altro, assorbirlo nel proprio essere, non più a livello fenomenologico ma di noumeno. Sembra quasi che il nostro Hideo abbia voluto allargare ulteriormente la sfera dei destinatari del messaggio, rivolgendolo non più solamente agli Otaku a cui Anno si rivolgeva direttamente, bensì alla più ampia quantità di persone, videogiocatori o meno, le cui esperienze comunicative stanno per essere – o sono già state – terribilmente compromesse.

Di un’altra crisi discute Kojima – aprendo uno spazio su cui continuerà a riflettere negli episodi successivi di Metal Gear Solid, probabilmente l’unico punto tra questi elencati che troverà una conclusione a livello riflessivo – cioè quella dello Stato moderno: incapace di filtrare le istanze provenienti dal basso e di controllare il ciclo economico, è ormai un gigante che inciampa, cade, starnazza, un mellifluo ammasso di nulla manovrato dai privati che, al contrario, vengono identificati come candidi esempi di corretto funzionamento, di fluida organizzazione e reali manovratori del sistema.
Il problema di Sons of Liberty era intrinseco al suo ragionamento, la sua imperfezione: Kojima indovinava tutto, apriva grandi margini di riflessione ma non forniva alcuna risposta. Il dialogo tra Snake e Raiden alla conclusione del titolo non sazia, non chiude il cerchio e, come scritto in precedenza, da Metal Gear Solid 3 in poi si aprono tematiche diverse, ci si muove orizzontalmente, al massimo si sfiora qualche punto marginale ma non di più. Continua certo la grande riflessione metaludica dell’autore, il dialogo con i videogiocatori, il concetto dell’avatar che trova un suo esasperato seguito nel quinto e ultimo capitolo della saga, ma alcuni discorsi non vengono semplicemente più portati avanti.
Fino ad ora.
che fa rizzare i peli sulle braccia e trasforma la curiosità in attenzione: Kojima ci dice “ricoprire il mondo di cavi non ha messo fine a guerre e sofferenze”. Il rimando metatestuale a internet è evidente, la società costruita sulla Rete e sulle comunità virtuali non ha in alcun modo favorito la reale comunicazione tra esseri umani.
Immediatamente quindi tornano alla mente gli aspetti precedentemente sottolineati di Metal Gear Solid 2 ed Evangelionè solo con la capacità di inserire l’altro in sé che si può ricostruire la nostra società, isolata e spezzata.

Sembra quasi che nel successivo passaggio, il tutto venga ulteriormente amplificato: gli uomini non sono fatti per vivere soli, ci dice una voce femminile, sono fatti per ritrovarsi insieme, per aiutarsi l’un l’altro. E se noi come persone non ci riusciremo, se non potremo essere uniti… insomma, l’antifona è chiara. Solo (ri)partendo da un concetto comune e condiviso di società, saremo in grado di andare avanti come umanità; e questo non può essere lontano dalla cessazione dell’incomunicabilità. Siamo molto, molto vicini al Progetto per il Perfezionamento dell’Uomo promosso dalla Seele nel già citato Neon Genesis Evangelion.

Insomma, a distanza di anni pare quasi che Hideo Kojima stia iniziando a fornire la soluzione ai problemi correttamente evidenziati a inizio secolo, raggiungendo una conclusione non dissimile da quella fornita da Anno e soci. Nel processo, a morire definitivamente sarà il concetto di Stato moderno: America is finished, sussurra Sam, non è agendo attraverso quel polifemo zoppicante che è diventata l’odierna macchina burocratica e amministrativa che si potrà tornare a pensare come collettività e non come individui separati da “AT-FIELD”, cioè dalla nostra corporeità.
D’altronde la sua riflessione “di ritorno” da quella del secondo Solid, anche a livello ludico, non nasce ieri. Le FOB del quinto Metal Gear rappresentano a livello embrionale il modo di cercare un’interazione meno esasperata, che non si basi unicamente sulla violenza tra i giocatori o l’esaurire la prospettiva di collaborazione per ottenere un vantaggio spendibile nel mero gameplay, ma diventi fatto concettuale: il disarmo nucleare. Un’azione che risolve un problema comune, un obiettivo che ci riguarda tutti in quanto collettività di persone che giocano a un titolo, e le cui azioni si riverberano in quella che è una realtà – virtuale certo – ma che deve essere governata e necessita di comunicazione e scelte etiche. Non sarebbe sorprendente osservare come questo discorso, ben raffigurato dall’immagine del legame, lo “strand”, sia stato portato a maturazione nel nuovo titolo del creatore di Snake e compagni.
I richiami a Metal Gear Solid 2 non si esauriscono qui. Kojima ha più volte nominato il Social Strand System

come motore dell’intera esperienza: difficile non collegarlo al progetto S3. Potrebbe non essere solo un caso: e se la Selezione per la Sanità Sociale, l’unico modo secondo le IA di mantenere la nostra società coesa nel prossimo futuro, fosse portata a termine semplicemente agendo in connessione con gli altri? Sembra quasi un voler chiudere il cerchio. Così come GW e soci evidenziarono i problemi di maturità della nostra razza di fronte a un grande ammasso di informazioni trovando una cura nel controllo esasperato, così a livello totalmente “metaHideo Kojima pare rivolgersi a una società, la nostra, già finita e fratturata, spiegandoci come sono le connessioni che creiamo, in gioco e fuori dal gioco, a definirci umani e a creare la realtà che percepiamo. E, conseguentemente, a poterci salvare.

In conclusione, l’impressione è quella che il carcerato, evaso dalla cella da lui stesso creata, sia tornato su un discorso a lui caro e che per motivi strettamente commerciali aveva dovuto parzialmente sacrificare sull’altare della “necessità di serialità”, dando a un gioco strettamente filosofico e concettuale un prequel, ma soprattutto un parodistico sequel, di cui forse egli stesso non sentiva alcun bisogno. E allora il primo pensiero, sfuggito dalla gabbia, è stato forse quello di riprendere il suo titolo più provocatorio e criptico: per dargli un vero prosieguo, dopo una riflessione durata quasi due decenni e che molto ha in comune con quanto elaborato da altri artisti in differenti campi, a dimostrazione – se ve ne fosse il bisogno – di non trovarci di fronte a un esercizio di stile ma a una domanda che la modernità pone con forza durante questi anni e a cui è obbligatorio replicare.

Dove eravamo rimasti?

AAS



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